America Latina: quale democrazia?

di Peyrot Bruna

Prima di cercare le specificità della possibile democrazia di un qualche paese del globo terrestre forse sarebbe opportuno farsi due domande (tanto per cominciare il ragionamento): cosa vuole dire la democrazia e perché volerla. In merito sono stati scritti fiumi di libri. Norberto Bobbio ha stabilito alcuni capisaldi in merito, sostenendo, fra l’altro che la democrazia è fra tutte le forme storiche di governo la più egualitaria (N. Bobbio, Democrazia in Angelo d’Orsi (a cura di), Alla ricerca della politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, p.5). Detto questo, tuttavia, nel corso dei secoli, a partire dai primi esprimenti democratici greci, potremmo dire, la pretesa della realizzazione democratica ha infiammato i continenti, con linguaggi, stili politici, proposte diverse, ma uniti dalla ricerca che le due domande fatte sopra esplicitano.

Cosa vuol dire democrazia?

Vuol dire che la persona si sente importante, capisce e vuole valere qualcosa. Vuole contare – interessante questo verbo che assume molti significati – contare, essere un numero che fa peso, un numero individuale che certo può scomparire nella massa, ma che, in positivo rappresenta un voto, un parere che conta appunto per determinare la svolta nelle decisioni prese a maggioranza.
Democrazia significa, come si sa, potere (crazia) del popolo (demos), altra parola ambigua e controversa, spesso invocata senza sapere bene chi identifichi.
In altri termini, la democrazia è una forma della politica e una forma di gestione del potere.
Tutta la storia del pensiero politico può essere letta come una storia di tentativi, secondo il periodo e il tempo, di definire il rapporto esistente fra potere e libertà, fra aspirazioni del singolo e necessità del gruppo, fra i confini dello spazio individuale e quello collettivo.
Le democrazie si basano sul principio fondamentale della divisione di tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, su un Patto concordato fra forze sociali e soggetti politici che prende il nome di Costituzione, sul principio: una testa un voto, cioè sul suffragio universale.
E ancora, le democrazie si basano sul voto di egual valore di tutte le persone, un voto libero e segreto che determina la vittoria della maggioranza.
Infine, regolando i conflitti attraverso l’indicazione data con il voto, le democrazie si basano sul valore della non violenza.

Il divario tra la carta e la realtà

Tutto questo in teoria. Infatti, soprattutto in America latina le Costituzioni che ribadiscono principi di rispettosa convivenza civile sono sempre esistite, ma la pratica ha sempre offerto differenti scenari. Un esempio per tutti la Colombia.
La Costituzione del 1991, all’art.1, così definisce la Colombia: uno stato sociale di diritto, organizzato in forma di Repubblica unitaria, decentralizzata, con proprie entità autonome territoriali, democratica, partecipativa e pluralista, fondata sul rispetto della dignità umana, sul lavoro e sulla solidarietà delle persone che la integrano e sulla priorità dell’interesse generale. La realtà è molto diversa. In Colombia circolano più di sei milioni di armi, la maggior parte illegali, senza che esista una sola fabbrica che le costruisca. Esercito e forze di polizia, gruppi guerriglieri e paramilitari, narcotrafficanti e violenza comune si contendono il controllo sulla popolazione civile.
In pressoché tutte le città, dopo le diciotto è pericoloso camminare per le strade, mentre le campagne diventano zone di scontro degli attori in armi. Una forma abituale di violenza è il sequestro, attuata da tutte le parti in conflitto. Secondo i dati del Ministero della difesa colombiana, a tutt’oggi si verificano quasi ottomila sequestri, per scopo politico o a motivo di estorsione, mentre continuano gli assassini di bambini e donne.
La stessa inchiesta ministeriale afferma che dal 1995 al 2000 si sono commessi 19.830 atti che violano il Diritto internazionale umanitario, una situazione per la quale la Colombia è sotto osservazione continua da parte di molti organismi internazionali.
La Colombia pur con una Costituzione molto avanzata che riconosce i diritti della diversità culturale anche dei popoli indigeni è travagliata da una sottile guerra interna da più di cinquant’anni che oppone le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias) alle formazioni paramilitari Auc (Autodefensa colombianas) e all’esercito nazionale, senza contare i narcotrafficanti e la malavita comune che rendono un paese ricco di risorse umano e naturali fra i più insicuri del mondo. Le cause di questa situazione sono molte (vedi Bruna Peyrot, Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualità, Città Aperta Edizioni-Macondo, 2003). Ma la questione che proprio la situazione colombiana solleva è la seguente: non è sufficiente una dichiarazione di democrazia attraverso la sua Carta costituzionale se non se ne vedono gli effetti nella convivenza quotidiana.

Democrazia: per quale vantaggio

E qui arriviamo alla seconda domanda: perché volere la democrazia. Oserei dire, con banalità, perché in democrazia si sta meglio. Le libertà sancite dalla democrazia: di muoversi, esprimere la propria opinione, intraprendere una attività, agire secondo la propria volontà ovviamente senza danneggiare il prossimo ecc. sono condizioni che fanno oggettivamente stare bene e che non sono possedute dalla maggioranza dei popoli abitanti la superificie terrestre.
A questa consapevolezza va subito aggiunta un’altra osservazione: che non è possibile imporre la democrazia, né farsela regalare da chi se ne sente il legittimo e unico portatore come ha ribadito in merito a se stesso George W. Bush nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca per il suo secondo mandato.
La democrazia proprio perché riguarda la realizzazione delle persone necessita di una grande consapevolezza interiore che le renda forti del fatto di riconoscersi sede di diritto e non solo. Non basta, in fatti, essere coscienti di essere portatori di un diritto al rispetto come persona, bisogna anche aver imparato gli strumenti e i modi per farsi rispettare e per rispettare gli altri.
Insomma, potremmo dire che la democrazia è un diritto sancito e concordato istituzionalmente e nello stesso tempo una modalità relazionale. Le due dimensioni devono prendere un armonico sviluppo affinché si possa parlare di vera democrazia.
Inoltre, per avere questa forza qualcuno deve averla insegnata:la democrazia non è né un sentimento innato o naturale nell’uomo e nella donna, né un dato per sempre acquisito e trasmesso dalla società anche democratica in cui si può nascere. La democrazia per essere continuativamente tale deve essere una pratica sempre verificata sul campo.
Nel corso dei secoli le pratiche democratiche un poco qua e un poco là si sono allargate: dai detentori di censo alla persona più comune la cittadinanza si è estesa fino a essere proposta oggi anche agli animali e a tutte le forme di vita del pianeta.

Come si sono intrecciati queste dimensioni
e questi processi in America latina

La mia conoscenza più approfondita si limita a due paesi soltanto, peraltro emblematici: Colombia e Brasile. Ma direi che proprio da questi due paesi emergono osservazioni generali che possono valere per tutto il subcontinente.
Potremmo, intanto, individuare due linee evolutive: quella istituzionale che coinvolge i governi e le grandi istituzioni, dalla chiesa all’esercito e, in secondo luogo, scoprire come le persone siano cresciute nei cosiddetti movimenti o azioni sociali in difesa di un diritto negato: acqua, casa, istruzione, salute, cibo ecc.
Gli ultimi anni settanta dell’America latina hanno visto la drammatica presenza delle dittature in quasi ognuno di loro, gli anni ottanta seguenti sono stati definiti per l’America latina il decennio perduto a causa dello smisurato indebitamento economico contratto da quei paesi. Infine, gli anni novanta sono stati dominati dalla sacralizzazione delle regole del mercato che ha imposto un neoliberalismo rapace, divoratore dei pochi servizi sociali esistenti e delle regole di contrattazione collettiva esistenti.
La cattiva distribuzione del reddito e la terra in mano a pochi sono stati fattori che hanno impedito il consolidamento delle democrazie latinoamericane per molto tempo, specie in Peù, Bolivia, Ecuador, Colombia e Paraguai.
In questo contesto, tuttavia, è maturata la convinzione, specie fra le forze di Sinistra che negli anni sessanta avevano affrontato spesso la disuguaglianza sociale con movimenti armati rivoluzionari, negando il valore di una democrazia anche formale soprattutto se non fosse stata impiantata una più giusta convivenza economica, si fece strada dicevamo, la convinzione che la democrazia fosse un valore di per sé.
Questo processo prese visibilità, per una concomitanza di cause, soprattutto a partire dalla fine degli anni ottanta, molto ben documentato da Donato di Santo allo scritto del quale rimandiamo (Donato di Santo, Il Quinto Movil delle Sinistre latinoamericane in Amanacer, giugno 1997 e Donato Di Santo, Giancarlo Summa, Rivoluzione addio. Il futuro della nuova sinistra latinoamericana, Ediesse, Roma 1994).
Schematizzando, potremmo affermare che la caduta del muro di Berlino nel 1989, la pressione di nuovi movimenti nati su richieste specifiche del sociale: terra, pari opportunità, ambiente, educazione, diritti civili, pane e salute e, infine, la critica all’organizzazione gerarchica dei partiti della sinistra, imposero una revisione generale delle strategie di conquista del potere nei singoli stati del Sud e del Centro America. La riflessione sul senso della democrazia si accompagnò a quella del ruolo dello stato, che spesso, in un contesto di economie neoliberiste impegnate a liquidare il patrimonio nazionale, imponeva la sua brutale presenza, soprattutto per finanziare le spese militari e salvare le banche.
L’urgenza della democrazia si impose anche per altri motivi. L’internazionalismo guerrigliero non era più sostenuto da nessuna potenza, e nemmeno da un’opinione pubblica impegnata, come avvenne all’epoca della guerra del Vietnam. In molti paesi dell’America latina, i movimenti insurrezionali e lo stato si resero conto che nessuno dei due avrebbe potuto vincere, lasciando di conseguenza la popolazione nell’incertezza e nell’immobilità stagnante di chi non sente più il proprio futuro. Accadde anche nel Chiapas messicano, dove lo stesso subcomandante Marcos affermò più volte che la sollevazione zapatista non era un ritorno alla lotta armata, bensì l’estremo tentativo di evitarla, di trovare nella società civile e non nelle armi le risposte ai problemi della gente.
Le risposte armate alle dittature degli anni settanta in America latina erano state giustificate dalla chiusura di ogni spazio democratico da parte dei governi al potere la cui la brutalità è stata ampiamente documentata, dal Cile di Pinochet all’Argentina di Videla. Lentamente, tuttavia, i molti movimenti armati si trasformarono in partiti politici, parteciparono alle competizioni elettorali e si piegarono alla dura disciplina dell’educazione alla democrazia, soprattutto perché i loro militanti si convinsero, come dice Di Santo con approfondite analisi, della convenienza della lotta politica rispetto alla lotta armata. È un processo che se, come dice Di Santo, data dalla fine degli anni sessanta con la decisione del partito comunista venezuelano di abbandonare la guerriglia, si rende pienamente visibile molto dopo, anche con gesti emblematici come quello del messicano Cuauhtémoc Cárdenas, leader del Frente democrático nacional.

La sfida democratica, un percorso difficile. Messico, Nicaragua

Sconfitto in modo fraudolento alle elezioni presidenziali del 1988 da Carlos Salinas de Gortari, candidato per il Partido revolucionario institucional (Pri), un partito ormai totalitario da sessant’anni al potere, discendente dalla rivoluzione di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, Cárdenas non incitò alla rivolta la massa dei cittadini, riuniti a Città del Messico sulla grande piazza dello Zócalo e furibondi per i massicci brogli elettorali organizzati dal Pri. Invitò invece alla calma e a rispettare il risultato proclamato. La sua fu una grande sfida nel cominciare per primi a rispettare le regole democratiche, nonostante l’avversario le avesse calpestate. Passarono poi dodici anni, prima che il Pri fosse sconfitto davvero e non da Cárdenas, ma da Vicente Fox, candidato del Partido de acción nacional (Pan), tradizionale espressione della destra agraria e clericale. Di là da ogni valutazione politica, tuttavia, ciò che preme rilevare è che davvero ci sono scelte irreversibili, momenti cruciali che determinano le svolte di un paese verso la democrazia o verso il totalitarsimo e il comportamento di un dirigente non è indifferente ai suoi esiti. Il gesto di Cárdenas, a suo tempo, si è rivelato un esempio cruciale.
Un altro angolo della storia accadde in Nicaragua, quando i sandinisti al potere dal 1979, persero le elezioni del 1990 a favore di Violeta Barrios de Chamorro, senza invocare invasioni di piazza, accettando tutto il peso e le conseguenze degli anni del loro governo. Per la sinistra latino americana, la sconfitta elettorale in Nicaragua assunse un significato politico e simbolico persino maggiore del crollo dell’est europeo(15). Nello stesso tempo, l’ostinazione al rispetto per la democrazia si rivelò salutare. Il Frente sandinista recuperò nuova forza per iniziative politiche di partecipazione popolare e tornò a essere una componente attiva del paese, avviando una serrata autocritica e lasciando alle spalle il suo retorico trionfalismo.
Altri esempi si potrebbero fare, ma sia sufficiente porre ancora una domanda: la riflessione e la transizione alla democrazia in America latina hanno coinvolto soprattutto l’area politica della sinistra. Nel Salvador abbiamo passato quindici anni ammazzandoci per dar vuelta a la tortilla (rigirare la frittata), per poi arrivare alla conclusione che la tortilla non si girava perché il problema è più profondo: è cucinare una tortilla diversa: ono commenti di Rubén Zamora, deputato di Convergencia democrática e candidato alla presidenza nel 1994, un protagonista della pacificazione seguita a una guerra civile costata più di settantamila morti. Il negoziato, precisa Zamora, intendeva proporre una nuova forma di esercitare il potere: non più strumento per escludere ma per includere. Il governo non come strumento di centralizzazione, ma di distribuzione del potere.

La politica neoliberista della destra. Caso Argentina.

La destra, invece, impegnata su altri fronti, primo fra i quali la liberalizzazione dell’economia, non si pronunciò mai. Pinochet in Cile privatizzò oltre quattrocento industrie pubbliche, un processo ripetuto in altri paesi dopo la fine delle dittature, soprattutto negli anni ottanta, quando il modello economico basato sulla sostituzione delle importazioni perse la sua efficacia. La protezione del mercato interno, con altissime barriere doganali per i prodotti esteri, che aveva permesso lo sviluppo di parchi industriali nazionali, cedette il passo alle politiche di libero mercato in cui tutto ciò che era pubblico diventò oggetto di discredito e sfiducia. I nuovi crediti del Fondo monetario internazionale arrivarono solo in presenza di aggiustamenti radicali nel continente latinoamericano, il che significò tagli al già debole welfare state, aumento di tariffe pubbliche, salari con scarso potere di acquisto, licenziamenti in massa, apertura senza rete agli investimenti stranieri, aumento del costo del denaro. Messico, Brasile, Venezuela, Argentina, Guatemala, Peù, Colombia, con più o meno drasticità, continuarono su questa strada che produsse depauperamento, disoccupazione e ricostituzione dei latifondi, lasciando ancora una volta irrisolto il problema della distribuzione della terra che mai fu sottoposta a una reale riforma sin dall’epoca coloniale.
In questo contesto, soprattutto l’Argentina è diventata emblematica. Nel periodo del governo Menem si erano vendute quasi tutte le imprese, ma quando il presidente lasciò il mandato, il debito era triplicato, un chiaro segnale che la liquidazione di aziende statali come acqua, energia elettrica, telefonia, trasporti aerei, miniere o giacimenti petroliferi non aveva saldato i debiti, né garantito quella maggiore efficienza che si attribuisce in modo taumaturgico alla gestione privata. In questi casi, l’ostacolo al saldo è sempre altrove, nelle regole di rimborso dei prestiti e nelle egemonie economiche subite dai paesi in via di sviluppo. Le dittature militari sono terminate, ma sono rimaste quelle economiche, non meno pericolose nell’attacco alla dignità e alla qualità della vita o alla sopravvivenza di fasce sempre più larghe di popolazione.
La destra, intanto, identificata con le forze armate e con chi detiene la maggioranza delle risorse economiche, ha sempre espresso una cultura fondata sulla sfiducia nelle forme di rappresentanza politica, sul rifiuto del conflitto, e sulla convinzione pretestuosa di essere l’unico supporto morale e spirituale della nazionalità.

A scuola di democrazia: Brasile

Sul versante del movimenti si può dire che essi furono in molti paesi vere scuole di democrazia. Il Brasile ne è un interessante esempio. Già durante la dittatura in questo paese continente pari a trenta volte l’Italia, sindacalisti, donne, cattolici, indigeni, insegnanti, la cosiddetta base si era organizzata per opporvisi pacificamente. Lo stesso presidente attuale della repubblica Luis inacio da Silva detto Lula, è la metafora di questa storia emblematica di una parte della società brasiliana che lentamente si costruisce dentro quella autoritaria e poi esce alla luce e impone le sue regole fino a portare al governo del paese, dopo trent’anni, la generazione che gli antichi dittatori avevano perseguitato. La vicenda della vittoria di Lula, comunque finirà non smetterà mai di essere una parabola vincente di un futuro sognato e poi costruito (Bruna Peyrot, La democrazia nel Brsile di Lula, Città Aperta-Macondo, 2003).
Imparare la democrazia, dunque, non è un processo semplice. Le domande sul suo significato sono molte. Tuttavia, se è vero che la democrazia può essere definita quella forma di governo che più di ogni altra tende, se non ad abbattere, a correggere, attenuare, rendere meno penose le diseguaglianze fra gli uomini come ricorda ancora Bobbio, allora ne va proclamata la validità anche se la sua pratica sembra allontanarsi dal suo intento ispiratore. L’assenza di uno stato di diritto, che vigili equamente sui comportamenti privati e pubblici ai quali la gran maggioranza dei cittadini si deve attenere, provoca un pericoloso abisso fra quanto affermato sulla carta e la pratica politica della collettività che lo ha sottoscritto.
A questo processo di rispetto reale dei diritti individuali e di coerenza della teoria giuridica, l’Europa potrebbe dare un valido contributo, traendone nuovo alimento anche per se stessa, proprio nella valorizzazione di parole chiave che per le nazioni del vecchio mondo hanno perso significato e per le quali, al contrario, nel nuovo si è disposti a morire.

Europa: recuperare i sapori della democrazia

In Europa, idee come democrazia, partecipazione popolare, equità sociale hanno perduto la freschezza delle loro motivazioni originarie. Nessun giovane sa più spiegare perché sia importante avere una Costituzione o perché sia necessaria all’equilibrio democratico la divisione del potere in tre rami: esecutivo, legislativo, giudiziario. In Europa si esercita il diritto di voto con appannata consapevolezza, mentre in Colombia ogni istituzione lo reclama.
L’Europa contiene la storia dei valori per i quali in quella lontana terra molti stanno rischiando la vita. Il luogo dove i valori sono stati generati contengono sempre le ragioni profonde che li hanno motivati. Se questa unione, nel corso della storia, viene meno, i valori stessi, disancorati dalla realtà, perdono la forza originaria e diventano parole vuote e prive di senso. A questo proposito, sembra quanto mai attuale la constatazione di Maria Zambrano sulla morte annunciata dell’Europa, ogni volta che essa si separa, dimenticandoli, dai principi che l’hanno generata. Fuggita nei Caraibi, dopo aver partecipato alla guerra civile spagnola del 1936, la filosofa si interrogò proprio dall’esilio latinoamericano sulle radici della violenza e del totalitarismo nazista, per invocare le sorgenti dello spirito europeo presenti nel pensiero greco e in quello cristiano di Sant’Agostino, tracce seppellite da un’Europa in agonia che solo un recupero sorgivo poteva riportare a resurrezione.
La storia europea non è mai stata pacifica. I diritti dell’uomo e i valori alla base delle convivenze democratiche sono sorti sulle ceneri di almeno due rivoluzioni, quella inglese del 1688 e quella francese del 1789, tanto da farci chiedere se la violenza di uno scontro debba sempre precedere un patto fra individui. L’Europa insomma deve affrontare i drammi e le distruzioni di massa del novecento, un secolo finito in un disordine mondiale di natura poco chiara(21), senza potenze primeggianti, né chiari conflitti locali su un territorio preciso.

Ricordare fare memoria confrontarsi

In questo contesto, ogni popolo, ogni individuo non può più ignorare le proprie storie di guerra, se davvero intende costruire società pacifiche. Questo significa interrogarsi sui modi in cui è avvenuta la trasmissione del passato alle nuove generazioni. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, significa chiedersi come i valori dell’antifascismo siano stati coltivati nell’educazione civica e nella coscienza collettiva nazionale. Costruire un confronto pacifico non richiede pochi giorni e forse siamo già in ritardo per le coscienze di tanti giovani e bambini, ormai abituati a considerare le guerre nel mondo una specie di videogioco televisivo.
La pace e la non violenza pretendono lunghi processi educativi che non possono essere affidati all’improvvisazione. Il loro insegnamento richiede un impegno didattico e metodologico in grado di affrontare i molteplici aspetti delle culture nazionali, in particolare le varie forme della comunicazione sociale, poiché la lingua ormai non è più un luogo di verità per l’esperienza.
Credo, infine, che per attuare proficui scambi di lezioni democratiche fra Europa e America latina occorra che soprattutto da parte europea, ma non solo, si lascino cadere stereotipi di gioventù e leggere anche gli antichi eori di un’era di liberazione, e perché no anche lo stesso Che Guevara, con gli occhi, consentitemi la provocazione, della democrazia e soprattutto andare a studiare dentro la storia dei movimenti per la giustizia sociale latinoamericana il dissenso che spesso è costato lacrime e sangue a militanti di una stessa formazione diventati improvvisamente nemici. Come a dire che la democrazia comincia dal vicino prima di di diventare una forma di governo di una grande paese (Uno dei tanti esempi è la storia di Aura Marina Arriola in Guatemala in Arriola Aura Marina, Ese obstinado sobrevivir. Autoetnografia de una mujer guatemalteca, Ciudad de Guatemala, Ediciónes Pensativo, 2000 oppure quella di Buenaventura in Colombia, in Buenaventura Nicolás, ¿Que pasó camarada?, Bogotá, Ediciónes Apertura, 1992. Oppure ancora la storia di Teodoro Petkoff in Venezuela e dei dissidenti cubani sotto Castro ben ricostruita in AA.VV., l’altra Cuba. La realtà cubana e l’opposizione democratica dentro Cuba. Prefazione di Piero Fassino, 2003).
Riassumendo, dunque, si potrebbero dire le seguenti cose: la democrazia parte dall’interno di ognuno di noi, cresce e si educa nell’azione sociale e può farsi governo. Ma non è il movimento né l’azione sociale a garantirla di per sé. Sia agli uomini di governo sia a quelli impegnati nella base necessita un’etica sana del potere inteso come servizio.
In secondo luogo sono le esperienze di governo locale a favorire la democrazia, perché nel piccolo si anticipa il grande e si imparano le tecniche del governo, un poco come è successo con il Bilancio partecipato di Porto Alegre (Vedi Bruna Peyrot, la democrazia nel Brasile di Lula, cit.). Infine, anche alcuni indirizzi attuali di governo non sono indifferenti: il fatto che almeno tre presidenti in America latina dimostrino con i fatti di credere nella democrazia: Lula in brasile, Lagos in Cile e Kirchner in Argentina, aprendo gli archivi delle dittature e avviando processi di cicatrizzazione delle ferite sociali, non è certo indifferente, soprattutto nella creazione di un’unità sudamericana che possa essere contrattuale nei confronti di altri colossi finora dominanti come gli Usa.