Carceri: la lenta agonia di un mito

di Ziad Elayyan

Inserimento sociale e tolleranza zero

Un’immagine ossessiva
L’uomo porta nella "cella" i suoi reati, e l’altro uomo immagina se stesso come un animale che, ossessionato dall’idea di difendersi dalle aggressioni, si costruisce dei rifugi sempre più sicuri e complicati, fatti di carceri di massima sicurezza, celle di isolamento, centri di detenzione temporanea, stratificazioni, fortificazioni. Continua a costruirsi porte blindate e pareti solide, si apposta nei paraggi del nemico e gli inventa microspie e videoregistrazioni che potrà controllare meglio. La paura dell’altro lo induce a immaginare difese e tecniche di controllo sempre più complicate ma, come l’animale, non si rende conto che il nemico da cui deve guardarsi non è fuori ma dentro di lui. È un’insopportabile immagine della condizione umana, dove errare è lecito e perseverare è barbaro.

Domande pressanti
Rimovendo le influenze conformate dei mass­media, è necessario constatare che nelle carceri si registrano episodi inquietanti, compresi i misteriosi suicidi, presentati però come fatti contingenti e non come sintomi rappresentativi di un’istituzione in crisi. Il primo punto da chiarire è se il sistema carcerario sia davvero rieducativo o se invece sia il luogo di nascita di altri disagi. Perché intorno al carcere di una città vi è spesso un "muro di silenzio" oltre che di mattoni e filo spinato? Come si sconta la pena in un ordinamento che sia veramente democratico? Qual è la condizione di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria? Sono messi in condizione di favorire la rieducazione del detenuto senza necessariamente trasformarsi in aguzzini? Che cosa cambiare del sistema in cui vivono i carcerati e le guardie?

Carcere manicomio
Una guardia un po’ d’anni fa mi rispose: io sono carcerato insieme a loro, e questa è la cosa che più condiziona il nostro lavoro ma anche lo caratterizza. L’obiettivo principale sarebbe quello di migliorare la "qualità della vita" nella nostra società in generale. A sentire le esperienze dirette di chi è passato attraverso le sbarre, sembra attendibile la seconda ipotesi: il carcere restituisce alla società più sofferenze e meno fiducia, sembra raffigurare sempre più un manicomio o un ospedale psichiatrico. A giudicare invece dalle leggi è il contrario. Il sistema carcerario traduce la pena come fosse per sua natura repressiva, senza contemplare la rieducazione e l’integrazione prossima nella società. La condizione carceraria è per molti davvero insopportabile oltre che ingiusta. Si pensi all’uso eccessivo della detenzione cautelare e al "popolo di detenuti in attesa di giudizio" che forse un giorno saranno ritenuti innocenti. Per non parlare delle condizioni subite dentro le celle carcerarie.

L’autoritarismo inefficace dello Stato
Ciò che sfugge e che, pur sussistendo nelle carceri mancanze amministrative non si può giustificare, è il ruolo dei nuovi giustizieri. È strumentale amplificare il problema della criminalità e focalizzare l’attenzione sulle carenze strutturali, perché ciò non legittima le violazioni ai danni dell’uomo e dei suoi diritti imprescindibili. Vero è che il sistema tende ad eliminare le cellule cancerogene, considerandole separate dall’organismo, trascurando così il dettaglio che il cancro si costituisce nell’organismo, così come la criminalità trova la sua linfa vitale nel sistema. Il fenomeno della criminalità non è immotivato, ma è il sintomo di una società malata, retta dalla logica del mercato, che notoriamente implica la disoccupazione e l’inflazione. In questa prospettiva, tutti gli interventi risultano fuorvianti, riduttivi e strumentali. Per quanto concerne l’autoritarismo istituzionale, è valido un teorema sociologico generale, ossia che quanto più un’autorità è carente d’autorevolezza, tanto più tende ad essere autoritaria. Lo Stato­impresa dunque, avendo reciso il nesso emotivo per cui l’individuo aderiva alle leggi, fa ricorso alla forza proponendo più carceri e più divieti. Occorre rilevare che la repressione all’infinito, come carattere legislativo e poliziesco, si traduce in disuguaglianza sostanziale determinando contraddizioni, sicché la funzione delle leggi è di correre ai ripari, estromettendo o rimovendo l’origine delle stesse leggi. Ne consegue che la società genera la criminalità e, paradossalmente, leggi e secondini fungono da deterrente agli effetti prodotti dalla stessa struttura socio­economica. Lo Stato ricerca così le cause delle devianze nelle deficienze dell’amministrazione, intervenendo con misure e rimedi, sottovalutando il dettaglio che l’amministrazione è l’attività organizzatrice dello Stato. Ciò che sfugge è che dietro alla legge scritta esiste una legge non scritta, ciò che Montesquieu definiva lo spirito delle leggi. La sola possibilità di uscire da questa dinamica spettrale è, come vuole Benjamin, quella di affermare un’idea di giustizia "in quanto finalità divina", ossia una giustizia lontana dal potere. Quando si parla di sicurezza, di tolleranza­zero, si sottovaluta che, con la globalizzazione, si è imposto un crimine transnazionale allineatosi al modello del terzo capitalismo che tende ad acquisire carattere impersonale e anonimo.

Un interrogativo culturale
Da qui nascono le proiezioni del nemico fuori da noi. Quel nemico che nella sua forma estrema è rappresentato dalla morte e che nelle forme derivate s’incarna ora nell’emarginato, ora nell’immigrato, ora nel folle, ora nel tossicomane, ora, più correntemente, nella persona che mette in crisi il nostro codice comunicativo. Quando si parla di sicurezza in senso sociale, sicurezza come garanzia di legalità, si dovrebbe ricordare Kafka, quel non fare i conti con le nostre paure che provoca il circolo vizioso tra paura e bisogno di sicurezza, il loro reciproco alimentarsi. Il problema della sicurezza prima che politico­giuridico è culturale. Riguarda la resistenza ad accogliere l’altro che sta dentro di noi, sollecitando la nostra identità e strappandoci di dosso maschere rassicuranti. Gli altri non sono né buoni né cattivi. Non sono l’inferno, come voleva Sartre, né il modo per guadagnarsi la salvezza dell’anima. Sono quelle presenze che ci turbano perché ci riguardano: riflettono la nostra immagine, restituendoci alla nostra intimità. Ipocrisia delle buone intenzioni: il mito dell’inserimento sociale Questo meccanismo del proiettare le nostre inquietudini figurandocele come nemici ha trovato esemplare applicazione nella recente questione delle carceri. Si è ripetuto che il carcere non deve essere solo punitivo ma favorire l’inserimento sociale (il che, con le dovute differenze lessicali, è esattamente quello che ci si propose duecento anni fa, quando il carcere nacque come luogo di "correzione delle anime"). Ma il carcere non è un mondo a parte; è un prodotto sociale (anzi più radicalmente è un alter ego della società). Resta da capire come possa essere rieducativo il carcere di una società sempre più basata sulla centralità dell’io, sull’esclusione dell’altro che sta dentro e fuori di noi, e che non a caso da circa un secolo costruisce le carceri il più possibile lontano dai centri urbani e dallo sguardo della normalità.

Il degrado delle privatizzazioni
Ma l’epoca del carcere che rieduca (almeno come dichiarazione d’intenti) è ormai alla fine, basta vedere quello che sta accadendo negli Stati Uniti, dove la tendenza è di delegare sempre più la gestione della sicurezza ai privati. A fronte dei due milioni di detenuti prodotti dalla cosiddetta tolleranza zero, stanno proliferando negli Stati Uniti le carceri costruite e gestite da aziende chiamate ad offrire un servizio di custodia e sorveglianza tenendo presente l’utile, l’efficienza, il rapporto costi/benefici, con buona pace del reinserimento sociale del detenuto. Il rischio è quello di diventare una società composta da tanti animaletti kafkiani, dove lo sfaldamento d’ogni residua forma di vita condivisa estenderà sempre più la paura, e con la paura il sospetto dell’altro. Una società che evocherà e alimenterà il crimine con gli stessi mezzi attraverso cui si propone di combatterlo e nella quale le classe sociali scompariranno a favore dell’unica possibile suddivisione: quella tra forti e deboli, tra quelli che sono in prigione e quelli che (ancora) non lo sono.

Ziad Elayyan
giornalista, traduttore dall’arabo