Dieci righe in cronaca

di Monini Francesco

Se volete un rapporto sullo stato della nazione, se volete capire come siamo e cosa stiamo diventando, non leggete i fondi di Eugenio Scalfari, di Vittorio Feltri o di Giuliano Ferrara. Il "sentimento del tempo" non è negli articoli di fondo ma nella cronaca locale.
Il columnist, l’intellettuale, il commentatore politico deve dimostrare vera e giusta la sua tesi: misura le parole, sceglie la citazione efficace, riassume i termini del problema, previene le obiezioni, demolisce le tesi degli avversari per arrivare all’affondo finale che dovrebbe conquistare definitivamente il lettore.
La cronaca locale ­ quella delle gazzette delle cento città d’Italia, quella delle pagine interne, degli articoli non firmati, quella insomma che affianca la lista dei nati e dei morti e delle farmacie di turno ­ non usa le armi del grande giornalismo e gli orpelli della retorica. Racconta i fatti, rappresenta la realtà usando "il buon senso comune". È un giornalismo ruspante, scarso in grammatica e zeppo di refusi. Ma pieno di verità.
Nelle "dieci righe in cronaca" incontriamo finalmente la nostra cara Italia: sempre meno accogliente e sempre più distratta, cinica e frettolosa, intollerante e conformista, buonista e bacchettona.
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«Torino ­ Dramma della disperazione per una giovane donna rumena.
Maria Roibu, nata a Piatra Neamt in Romania, di ventuno anni appena, era deceduta almeno da tre giorni, quando ieri mattina, intorno alle 10, Fabio Faccioli, 31 anni, operaio della Gleiscar, l’azienda di Sant’Ambrogio in Val Susa a cui era destinato il carico del treno merci, l’ha trovata morta.
Il cadavere della giovane donna è stato scoperto ancora avvolto nel suo cappotto, all’interno di un gelido vagone di un treno carico di lamiere proveniente dalla Slovacchia».
Da una pagina di cronaca di un giornale qualsiasi, di un giorno qualunque, di questo interminabile inverno dello spirito.
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Dieci righe in cronaca, come quelle dedicate da Il Resto del Carlino ad un fatterello accaduto in quel di Sant’Agostino, piccolo comune a metà strada tra Ferrara e Modena. Un comune mediamente civile e mediamente ricco: l’asilo nido, la biblioteca comunale, perfino il centro culturale per i gruppi e le associazioni locali.
Il sindaco donna, iscritta al partito di D’Alema, è democratica e progressista. Aveva accolto di buon grado la richiesta di un gruppo di famiglie musulmane di poter utilizzare un locale del centro culturale per tenervi lezioni di lingua araba per i propri figli. Per qualche mese tutto fila liscio, poi cominciano le maldicenze, i malumori, le proteste degli italiani.
Il sindaco interviene e nega l’autorizzazione.
Le famiglie musulmane ­ spiega il sindaco ­ non si limitavano a far scuola di lingua, ma si riunivano per la preghiera. Non una preghierina prima di iniziare le lezioni, come si usa presso le nostre scuole cattoliche, ma una vera e propria funzione religiosa.
E siccome il centro culturale è una struttura laica, i musulmani, anche se legittimamente cittadini di Sant’Agostino, devono trovare un altro posto per pregare il loro Dio.
Tra l’altro, aggiunge il sindaco, alla funzione religiosa non sono ammesse le donne, e questo non è rispettoso del principio delle pari opportunità.
Ecco servita una bella lezione di democrazia.
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Per pregare, i musulmani sparsi per l’Italia ­ dalle stime sono circa un milione ­ si arrangiano affittando un appartamento privato, un garage, un capannone industriale abbandonato.
A Trieste doveva sorgere la quarta moschea d’Italia. Le altre sono a Milano, Roma e Torino. Il sindaco Riccardo Illy e la giunta comunale di centro­sinistra avevano dato parere favorevole ed individuato un terreno che la comunità musulmana triestina ­ che conta oltre mille aderenti avrebbe potuto acquistare ad un prezzo agevolato.
Sarebbe stata la vittoria della Trieste mitteleuropea e cosmopolita, una città dove sono presenti templi di tutte le religioni. Moschea a parte.
E la moschea, per ora, non si farà.
Vi ha rinunciato la stessa comunità musulmana triestina che, attraverso il suo portavoce Sergio Ujcich, ha annunciato uno «slittamento di riflessione». «Attorno all’Islam ­ ha spiegato alla stampa locale ­ c’è molta ignoranza. Aspettiamo che queste lacune vengano colmate. Vorremmo serenità intorno a noi, invece le condizioni sono molto confuse, e non certo per motivi religiosi, ma politici».
Il partito dei contrari aveva infatti alzato la voce in città, mescolando pretesti (perché invece di una moschea il comune non costruisce un centro sociale per gli anziani?) alla paura di essere egemonizzati da chi è solo un ospite (e deve invece adeguarsi alle nostre regole) e alla rivendicazione della "italianità" di Trieste.
Intanto il leader dei padani locali sventolava la sua ascia di guerra.
Niente moschea. «Almeno ­ sono le sue parole ­ fino a quando non ci sarà una cattedrale cattolica alla Mecca».
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A volte le percentuali aiutano a capire.
Fonte Unioncamere: il 25% dei nuovi assunti in Italia nel biennio 1999­2000 sono extracomunitari.
Tra i manovali edili la percentuale sale al 56%, tra gli addetti alla nettezza urbana al 52%, tra i paramedici al 45,7%.
Non potendosi sostenere che gli extracomunitari godano di corsie preferenziali, risulta chiaro che un pezzo di economia italiana (l’edilizia, il lavoro in fabbrica, il bracciantato agricolo, alcuni settori dei servizi) va avanti solo grazie ad una forte iniezione di lavoratori stranieri. Non è una opinione, è un fatto incontrovertibile.
Così, ogni settimana, soprattutto dal Nordest, arriva l’appello degli industriali: aprite le frontiere, perché se non arrivano gli extracomunitari dobbiamo chiudere le fabbriche.
Però, ogni settimana, soprattutto dal Nordest, politici leghisti o polisti si scagliano contro il governo centrale e chiedendo di limitare il flusso d’entrata degli stranieri, per non togliere lavoro ai nostri giovani (che tra parentesi non hanno la minima intenzione di andare in catena di montaggio) e per salvare la nostra società dal caos, dalla delinquenza e dalla aggressione delle culture non cristiane.
C’era una volta il proverbio della botte piena e della moglie ubriaca.
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Dai muri del Belpaese ci perseguita il sorriso di un "presidente operaio". Ritoccato, stirato, ringiovanito. Rinfoltito come dopo un trattamento di Cesare Ragazzi. E come Cesare Ragazzi, anche Berlusconi "si è messo in testa una idea meravigliosa": rifare l’Italia da capo a piedi, rivoltarla come un guanto, trasformarla finalmente in una azienda di successo.
"Un presidente operaio" è una frase capolavoro. Certo che è una bugia ­ e gli italiani lo sanno ­ ma è un nuovo prototipo di bugia. Perché non ci sono ­ come vorrebbe Collodi ­ solo due tipi di bugie: quelle con il naso lungo e quelle con le gambe corte.
C’è anche "la bugia perfetta": quella insomma che funziona, decretando il successo di un prodotto.
Pensate ai detersivi. Tutti sanno che è una balla che «Dash lava così bianco che più bianco non si può»; tanto che l’affermazione viene regolarmente smentita: non solo dal concorrente Dixan (quello che non lo dai via, nemmeno se ti offrono due fustini al posto di uno), ma dal Nuovo Dash, che lava ancora più bianco del Dash di cui sopra e «vince lo sporco più sporco».
Berlusconi non è un presidente operaio, è un "presidente fustino".
Ma sul muro di fronte, anche il faccione di Rutelli ha il suo fustino da vendere.
Resta da vedere quanti italiani andranno a comprare al mercato di primavera.
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Allarme nel rapporto Unicef: 11 milioni di bambini stroncati l’anno scorso da malattie curabili in Occidente.
Basta il morbillo a uccidere i bambini poveri del mondo.
Dice il direttore Unicef: «Il debito internazionale mantiene nella miseria molti popoli e uccide milioni di piccoli innocenti. Dobbiamo investire sui bambini: sono loro il nostro futuro».
Ma lo sa il direttore dell’Unicef che qui in Occidente al futuro non ci pensiamo proprio? I soldini ci servono oggi, altrimenti chi gliela compra a mio figlio la nuova playstation? . . .
L’articolo sul rapporto Unicef era a pagina 21 di un quotidiano a grande tiratura.
Il giorno dopo sul quotidiano non ce n’era più traccia.
Tutt’altra storia ­ tutt’altra audience! ­ meritava Pietro Taricone and company. Il Grande Fratello ha occupato militarmente per mesi le pagine di giornali, telegiornali, settimanali patinati e riviste di approfondimento culturale.
L’importante era: parlarne. Parlarne pro, parlarne contro, ma comunque parlarne.
L’evento Grande Fratello è, letteralmente, l’avvento del nulla. Il niente sotto vuoto spinto.
Non è nemmeno vero che, come ha scritto un esimio ed intelligentissimo semiologo, il programma segna un salto di qualità nel rapporto tra pubblico e medium televisivo. È invece la solita sbobba televisiva con in più una idea originale. Sadica, ma nuova.
Nuova, cioè non ancora vista. Per Il Grande Fratello numero due ­ anche se girato su un isola deserta ­ gli spettatori cominceranno a sfoltirsi. Alla terza replica ­ come è successo a Rocky 6 o alla Piovra 10 ­ il barometro dell’audience volgerà al brutto. La quarta edizione verrà interrotta dopo due settimane.
Dopo, alla fine, comunque fra non molto: «Il Grande Fratello? Ma era una noia mortale!».