Frammenti di esclusione

di Realdi Giovanni

Con un cucchiaio

«Sai, ultimamente mi hanno anche insegnato a pregare». Calogero è due occhi che sbucano dalla peluria brizzolata. Un giubbotto di tre taglie più grande, un paio di maglioni, un fazzoletto colorato e un medaglione orientale. Sulle spalle uno zaino abbondante, coperto da un’altra giacca. Il sole che taglia il vicolo dietro la basilica del Santo ci proietta sui passanti indaffarati, che corrono al lavoro. Io, enorme. Calogero piccolo, con l’intera sua esistenza a pendergli dal corpo, come tutti i (cosiddetti) senza-fissa-dimora. «Una ragazza mi ha insegnato a pregare. È come se Dio mi avesse raccolto con un cucchiaio, prima che diventassi uno sformato». Mi guarda, con furbizia, e si ricorda dell’ultima volta che ci siamo visti, del caffè preso di corsa al bar. Anch’io mi ricordo: gli avventori stupiti e timorosi, un barista straordinariamente sollecito nel servirci. Calogero sta cercando lavoro, ma la richiesta di aiuto arriva dopo. La prima cosa da dire è quella: mi hanno insegnato a pregare, mi hanno ricordato che ho un padre da qualche parte.

A mo’ di mantello

«Prima di diventare uno sformato»: il riferimento culinario è preciso. La sensazione che mi prende viene da quella parola, “sformato”, e viaggia oltre Calogero, verso altre parole. Sformato è senza forma, come la pietanza, di questi tempi condita col radicchio di Treviso. Ma senza forma è una condizione precisa, che accomuna molte persone. A questa condizione associamo i nomi suggeriti da giornalisti e sociologi: senza-fissa-dimora, extracomunitari, emarginazione, malati, disagio sociale… È l’illusione di aver trovato una forma per chi non può sentirsela addosso. Tornano le parole, ancora, che ricordava Erri De Luca, ospite settimane fa del Centro universitario patavino: «Dio ama lo straniero. A Dio è caro lo straniero, gli dà pane e mantello». Mantello, e non vestito, che può ingannare, che viene associato ad uno status. Mantello, precisa De Luca, cioè il panno che copre la nudità di Noè ubriaco: è la dignità della persona.

Parla come mangi

Il rischio è ancora in agguato. È rintanato nelle maglie del linguaggio pubblico, e non sta da una parte sola. Anche la parola “dignità”, strappata dall’originale contesto ebraico, dove non esisteva e veniva concretizzata da simlà, mantello, una volta proiettata nel nostro dire, perde di spessore. Non ha né colore, marrone di strade percorse, né piega, buia della notte, né odore di sudore, di marciapiedi, di aria invernale. Non è più mantello. E infatti chi può dirsi contro la dignità della persona? Chi si esclude dalla schiera di coloro che si ergono a sua difesa? Far propria una parola, tanto più se rimbomba in essa la “a” accentata dei valori irrinunciabili, è cosa semplice.
Con essa, trascinati dalla sua sonorità, saliamo le scale del nostro perbenismo. Calogero e il suo mantello: che rimangano giù, alla porta.
Anni fa, per le strade di Padova, giravano i “moretti”. Poi i “marocchini”, quindi gli “extracomunitari”. Abbiamo nomi abbondanti a disposizione. Quando erano “moretti” suscitavano una certa compassione, ricordavano alle massaie padovane quel tale zio o talaltro cugino finiti in Belgio o nella Ruhr Gebiet a tirar su carbone. Poi sono diventati “marocchini”, o anche “vu’ cumprà”, poco importa se ghanesi, camerunensi, algerini, senegalesi o nigeriani. Sono quelli che ti chiedono di comprare l’accendino, il CD o la borsa finta griffata. Che tirano su la merce nell’enorme lenzuolo bianco all’apparire del vigile urbano in fondo alla piazza. Che vengono da Brescia, ogni notte. Poi la porta è stata chiusa: sono “extracomunitari”. Punto. Coloro-che-non-fanno-parte-della-comunità-europea. Coloro che sono un problema importante, che sarebbe meglio non ci fossero e non usassero delle nostre panchine, nei parchi. Coloro che industriali e agricoltori attendono a braccia aperte. Giovane forza lavoro disposta a qualsiasi condizione. Letteralmente risolti nel loro nome collettivo e qui dissolti.

Bagagli

Piazzale Boschetti. Domenica mattina, ore otto e trenta. La città sonnecchia ancora e arrivare alla stazione degli autobus è facile e veloce. Qui c’è movimento. Accanto ai bus di linea in attesa di partire c’è un pullman della Atlassib, appena arrivato dalla Romania. Padova accoglie luminosa il gruppo di “extracomunitari”. Scendono spettinati, l’alito pesante, le gambe anchilosate dai chilometri. Si stiracchiano impacciati e si guardano attorno. Forse in questa città troveremo fortuna, denaro. Amore, forse. Parcheggiata vicino a me una macchina giapponese, pretenziosa, che fa il verso alle berline tedesche. È lavata di fresco, come pratica dell’uomo medio del nord-est richiede per il week-end. Avanza verso di essa un gruppo di tre persone: lei bionda, poco più che ventenne, sorridente e stanca. Lo sguardo rimbalza dagli occhi della madre, che tiene per mano, a quelli dell’uomo italiano che è venuto a prenderle. La donna ha i lineamenti spigolosi e densi dell’est, un bagliore orgoglioso negli occhi chiari. Porta uno zaino e una borsa, che depone in macchina. Lui è gentile e imbarazzato, ascolta la ragazza parlare con la madre e cerca di cogliere qualche parola, che forse inizia ad imparare. Poi vanno a prendere un caffè.
Tre percorsi qualsiasi, come tanti, che hanno punto di incontro a Padova in questi giorni della merla. La parola “extracomunitari” si sfonda, non riesce a contenerli. Una figlia parte verso l’Italia e lascia una madre a casa. Un uomo incontra una ragazza e riesce a sentirsi meno solo. Poi, sistemate le carte, la madre viene ospite della figlia, per incontrare e conoscere la sua fortuna. Si affaccia una parola altrettanto rischiosa: “progetto migratorio”. È troppo lunga e pesante per essere costretta nel termine “extracomunitario”: è un partire che conserva un bagaglio di perché e insieme un arrivare che apre a nuove cose. È l’intera freccia del tempo personale di una donna e di un uomo che si affacciano sulle nostre strade. “Extracomunitari” è parola troppo povera. Taglia fuori questa freccia, ne conserva solo un frammento di esclusione e si trova masticata da chi è deputato a gestire la situazione, sia egli vice-premier, ministro della repubblica, o assistente sociale di provincia, e non ha mai annusato il mantello fuori dalla porta.