La crisi della politica

di Allegretti Umberto

L’emergere del privato e la funzione etica della politica

C’è oggi, senza dubbio, una "crisi della politica". Non è solo una crisi italiana, ma mondiale; occorre però ammettere che in Italia essa sta toccando uno dei suoi vertici.
Forse le generazioni precedenti hanno collocato sulla sfera politica un’enfasi troppo esclusiva. Forse, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, e anche in questo quello italiano è stato un caso esemplare, si è affidato alla concezione e alla pratica della politica un ruolo risolutore od orientativo sulla generalità dei problemi, e non solo i problemi sociali ma anche, in qualche modo, i problemi individuali. E poiché la politica non è stata all’altezza delle attese, nei decenni seguenti, specialmente nelle convinzioni dei giovani, essa ha visto incrinata la sua priorità nell’orizzonte umano e ­ quel che più importa ­ ha subito un vistoso collasso di quei contenuti e di quelle forme che, almeno teoricamente, davano sostanza alle sue finalità costitutive e alla sua ricchezza strutturale.

Le pretese dell’economico, la guerra
La sfida più dichiarata alla politica proviene dall’economia. Fermo restando che le connessioni tra politica ed economia restano molteplici, nel nostro tempo siamo di fronte alla pretesa dell’economia di rendersi indipendente dalla politica. E anzi, nell’inevitabilità di quelle connessioni, di affermare la propria superiorità rispetto alla politica, di dettarle le sue leggi, a loro volta supposte ineluttabili e assolute. Così l’autonomia delle decisioni di investimento e di produzione, la libertà di movimento dei capitali finanziari, la concentrazione in poche mani di attività di alto interesse collettivo (incluse quelle concernenti l’informazione e la comunicazione), la sovranità dell’impresa nell’imporre le sue condizioni al lavoro, perfino l’autonomia degli operatori nel rapporto col territorio e con l’ambiente, con la salute e con le minime condizioni di vita degli uomini e delle donne, sono pretese e spesso ottenute in luogo di quei limiti e di quei vincoli — di provenienza politica e di natura giuridica — che un lungo e sofferto itinerario di conflitti e di mediazioni, svoltosi tra il Settecento e il Novecento, aveva elaborato come una conquista di civiltà sopra il regno della pura forza della tecnologia e dell’economia moderne. Accade così che i grandi "diritti" dell’uomo, frutto lento e incompiuto di lunghe lotte, siano a parole proclamati ed esaltati come valore massimo, in realtà subordinati alle "necessità" dell’economia, e questo in tutto il mondo, inclusi anche per buona parte i paesi che consideriamo più evoluti. L’altra aspra, appariscente, sfida alla politica viene dalla rinascita della guerra. Solo chi crede che la guerra sia la politica condotta con altri mezzi (e la politica la guerra fatta con altri mezzi) può ritenere che il ricorso allo strumento bellico sia una forma, benefica o comunque autentica, di politica. Al contrario, esso segna la negazione, e quindi il fallimento, della politica: il sopruso perpetrato dalla forza contro le risorse, l’intelligenza, la capacità di relazione, dell’uomo.

La volontà di supremazia individuale
Più a fondo, e più generalmente, la crisi della politica risiede nel trionfo del privato. Sono una prepotente volontà di supremazia del privato — individuo privato, interesse privato, decisione privata — che si fa valere ai danni dell’elemento collettivo e comunitario, le affermazioni di autonomia dell’economico; e anche la guerra lo è, come appare chiaro sia nei casi di guerre mosse da motivazioni, magari non dichiarate, quali l’accaparramento o il controllo di risorse fondamentali per l’economia, che in quelli di operazioni condotte per il proprio successo politico, come l’offensiva preparata da Bush contro l’Iraq. Sono un trionfo del privato la contrapposizione tra bene dell’individuo e bene della società e la dissociazione della persona dalle sue responsabilità collettive, visibili in tanti comportamenti; il rifiuto di solidarietà, di ricerca dell’uguaglianza, di partecipazione ai carichi comunitari, che sorregge tante manifestazioni di attività economica e di attività urbanistica ed edificatoria, che conduce a un confronto spesso crudele con l’immigrazione, che ispira moltissimi atteggiamenti in materia ambientale e di consumo, così come anche in campo familiare e affettivo; o che induce alla pratica dell’evasione tributaria e di infinite forme di illegalità grandi e piccole. E che magari (come accade in alto grado in Italia) addirittura spinge a ridurre gli strumenti per esempio quelli in mano ad una magistratura che sia, come deve essere, indipendente ed efficiente ­ per contrastare le illegalità. Siamo, come è chiaro, di fronte a fenomeni molto diffusi, che costituiscono in misura (sembra) crescente altrettante manifestazioni della crisi della società dell’Occidente.

Le responsabilità politiche del degrado
Tutto questo è rifluito direttamente sui contenuti e le forme dell’attività politica, poiché essa non è stata estranea a questi sviluppi, ma anzi li ha appoggiati e favoriti, ha ristretto la sua capacità di incidenza e di controllo, si è conformata ad essi e li ha ingigantiti. Non si può certo dimenticare che un grande apporto al dilagare dell’economia privatistica, della supremazia della finanza speculativa, ovviamente della guerra e dell’individualismo più acuto e lo smantellamento di tante regole siano stati dati da decisioni e da azioni politiche precise, tradotte conseguentemente in norme e istituzioni giuridiche risultate determinanti per il consolidarsi di queste tendenze.
Il nostro Paese, come si diceva, è uno degli esempi più vistosi di tutto questo. I comportamenti individuali e collettivi vanno troppo spesso nel senso indicato; e la legislazione e le decisioni politiche introdotte in questi ultimi tempi, o ancora in discussione, li aggravano e pretendono addirittura di dare loro una legittimità. Non è possibile né necessario fare qui un elenco che ciascuno può ricostruire da sé, e che comprenderebbe ognuna delle realtà sopra rievocate. Siamo di fronte, infatti, non a singole smagliature di un quadro, ma a un intero programma di trasformazione in senso involutivo (mentre lo si spaccia per impegno di modernizzazione e di libertà), che si fa sempre più organico e che viene perseguito sempre più fortemente, contro il quale occorre, quindi, una reazione complessiva.
L’andamento delle cose presenti potrebbe essere infatti ipoteticamente accettato, se i frutti negativi non fossero sotto i nostri occhi. Diseguaglianze all’interno delle singole società nazionali e tra i popoli, oppressione dei diritti elementari di uomini e donne, sofferenze enormi provenienti da fame, conflitti, sciagure ambientali risultanti largamente di origine umana, deterioramento delle garanzie, una volta non messe in discussione almeno in linea di principio, di legalità e buon ordine della vita sociale, vanno crescendo anziché diminuire col progresso tecnico e l’aumento della ricchezza complessiva; l’incapacità di controllo della vita del mondo e delle singole società (e della nostra, sulla quale abbiamo più diretta responsabilità) sembra arrivata vicino ad un culmine intollerabile.

La funzione imprescindibile della politica
Forse, allora, dobbiamo riconoscere che la politica, il diritto, le regole sociali, sono una componente indispensabile e importante della vita dell’umanità. Senza di esse è impossibile confrontarsi con la dimensione sociale dell’essere umano, rispetto alla quale costituiscono un "luogo" caratterizzante, anche se non il solo. E poiché l’uomo, la sua vita, la sua individualità, hanno, intrecciata con la dimensione personale e singolare, una simultanea dimensione sociale, il rispetto di vincoli giuridici, le regole sociali, le istituzioni, gli sono necessari. La personalità umana germina nelle relazioni familiari e affettive, si esprime nell’amicizia e nei rapporti interpersonali anche conflittuali, si immerge e si modella nei gruppi piccoli e grandi; ma appunto, quando si tocca il gruppo grande, più o meno grande, si sbocca inevitabilmente nella relazione politica, a livello locale, nazionale, e, oggi, a livello continentale e globale. La politica come insieme di rapporti nella città, piccola o grande ("polis", in greco) che, senza togliere autonomia alle altre realtà, quella strettamente individuale e le diverse realtà sociali, le comprende, in qualche modo, nel suo cerchio più vasto e quindi ne è condizionata ma a sua volta le condiziona intensamente.

I criteri etici della politica
Da questo vengono i contenuti e le forme della politica, di una politica correttamente ordinata e non ridotta a pratica di puro potere. Contenuti di giustizia nella distribuzione dei beni della vita, di ordine, di pace e di legalità, di rispetto e valorizzazione delle culture e delle identità, di buon rapporto — divenuto oggi particolarmente critico — con l’intera biosfera. Forme che diciamo democratiche ("demos" è eguale a comunità o popolo) perché i soggetti della politica devono corrispondere ai suoi fruitori e dunque tutti devono potersi esprimere, partecipare, decidere, nella vicenda mai compiuta delle cose umane.
Ridare forza a relazioni sociali e a un diritto, che non siano solo strumento di rapporti contrattuali elaborati e mantenuti dai privati a servizio dei propri privati interessi, a regole richieste da obiettivi di socialità e solidarietà, e quindi alla politica come ricerca di rinnovate relazioni tra gli esseri umani, ispirate a pace e giustizia su tutte le scale, dalla locale alla planetaria, pare quindi un obiettivo richiesto dal nostro tempo e dalle condizioni, anche e in particolare, del nostro Paese. Si tratterà di una politica, e quindi di regole, non autosufficienti né assorbenti; che anzi richiedono, per la loro elaborazione e per una fedele attuazione, convinzioni etiche, impegno nella società, attività economica intelligente e rispettosa del bene comune, autonomia, democrazia e partecipazione di tutti; e che vivifichino le prese di posizione e le operazioni politiche con tutta una ricchezza di riflessioni e di azioni che facciano affidamento sull’energia di ogni individuo e sulla sua responsabilità, opponendosi, invece a quella rassegnata delega ad alcuni (o, nei casi estremi, quasi ad uno solo) da cui non può venire che male e prevaricazione.