La parola e il libro, l’ascolto e la ricerca

di De Benedetti Paolo

La Scrittura cresce con colui che la legge

Che cos’è la Bibbia? Partiamo da lontano. In Deuteronomio 4,12, Mosè dice al popolo: «Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate voce di parole, ma non vedevate immagine alcuna se non una voce». In Neemia 8 si narra che durante la festa di Sukkot del 444 a.C. (forse, o forse mezzo secolo più tardi), Esdra, sacerdote e scriba, «portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazza [non nel Tempio!] davanti alla porta delle Acque, dallo spuntar della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere; tutto il popolo porgeva l’orecchio a sentire il libro della legge» (Neh 8, 2­3).
Nel primo caso (saremmo intorno al 1240 a.C., se si trattasse di storia) parla Dio, e il popolo è atterrito (Es 20,18­19); nel secondo caso, ottocento anni dopo, c’è un libro, e «tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge» (Neh 8,9), parole che sentiva per la prima volta.
Il terzo caso è il nostro, di ebrei e cristiani, che sentiamo leggere ancora dal libro la parola di Dio nei nostri templi, e nonostante le definizioni auliche del rito (ascolto, proclamazione, annuncio) e la solennità dell’atto, non siamo atterriti e non piangiamo.
Non piangiamo neppure quando leggiamo il libro per conto nostro, con gli occhi, per meditazione o studio.
Che cosa è successo? Le spiegazioni sono tante: gli antichi piangevano più facilmente di noi, l’elemento religioso, in certe culture come quella ebraica, era molto più centrale e operante, ecc. Ma il punto teologicamente più problematico e critico è un altro: la differenza tra il sentire la parola di Dio per la prima volta, e sentirla per la millesima volta. Non è un "meno", non è un "peggio". L’ha previsto — se così si può dire — Dio stesso quando, per bocca di Mosè, nello Shema’, dopo il comando iniziale «Ascolta» (cfr. Deut 5,1), ordina a Israele: «Questi precetti che oggi ti do… li ripeterai ai tuoi figli» (Deut 6,6­7).

Dall’ascolto alla ricerca
Ecco che allora all’ascolto subentra la ricerca. O meglio, l’ascolto diventa ricerca, lo Shema’ si fa midrash. Ripetere, in ebraico, è insegnare e studiare, e studiare è ricerca. Ricerca dei settanta sensi (più uno, il mio) che secondo la tradizione rabbinica si celano in ogni parola detta da Dio, e ricerca anche, per noi oggi, come ermeneutica teologica e come critica biblica. La frase di Gregorio Magno «La scrittura cresce con colui che la legge» significa molte cose: che nessuno è padrone del senso, che non la si legge due volte alla stessa maniera, che — per sviluppare una tesi di Lévinas — in qualche parte della Scrittura sta in agguato e in attesa un senso, una parola diretta proprio e solo a me, che gli autori umani della Scrittura (ma questo accade per tutte le grandi opere letterarie) non capirono fino in fondo ciò che scrissero, infine che le nostre scienze bibliche — rovesciando tante certezze e demolendo tanti fondamentalismi — ci svelano qualcosa di più circa i tortuosi e affascinanti modi divini di incarnarsi nelle culture. Diciamo pure che oggi leggiamo la Scrittura meglio dei nostri avi (leggiamo meglio non significa però che la viviamo meglio), e meglio la leggeranno i nostri posteri.

La storia di rabbi Sussja
Ma non dimentichiamo la storia, narrata da Buber, di rabbi Sussja, che quando ascoltava dal Grande Magghid suo maestro le parole «E Dio disse», era colto da una specie di estasi e da una tale agitazione che doveva uscire e non sentiva il resto della lettura. «Ma ­ commenta una altro maestro citato da Buber — la verità, vi dico, la verità, vi dico, è questa: quando uno parla in spirito di verità e un altro accoglie in spirito di verità, allora basta una sola parola, con una sola parola si può sollevare il mondo, con una sola parola si può riscattare il mondo» (M. Buber, I racconti del Chassidim, Garzanti, Milano 1979, p. 281).
Perché nessuno corre fuori da una chiesa estasiato, gridando: «E Dio disse»? Perché — come narra una antica storia rabbinica e come narra anche Luca 24 a proposito dei discepoli di Emmaus — le parole della Legge e dei profeti, accostate fra loro nell’ascolto, non diventano fiamma o non ardono nel nostro cuore come avveniva nella casa di rabbi Avujà e sulla strada per Emmaus?

Paolo De Benedetti
docente universitario,
università di Milano