La sirena delle cinque

di Casagrande Maurizio

Sotterranei di casa Sodani
Roma, «anni ’50, paese­fabbrica a qualche chilometro dalla città» (p. 10), interno di una casa­quartiere (nella Lombardia di un Gadda sarebbe stata, forse, una cascina o una casa popolare lungo i Navigli) adibita a magazzino, laboratorio e alloggio per i lavoranti. Una sinistra entità non meglio precisabile, che ha dimora nei «sotterranei di casa Sodani» (p. 14), s’annuncia per insidiare, dagli oscuri recessi delle cantine, l’esistenza di una bambina, del suo piccolo mondo e dei compagni di gioco. Lei è coraggiosa, ha nome “Barbara” come la patrona delle polveriere e vorrebbe vedere in faccia il nemico, ma l’orrore del vuoto finisce sempre per sopraffarla e fino al fondo di quella scala non si spingerà mai.
Non siamo precipitati all’interno dell’ultimo incubo di Stephen King ­ benché di un incubo si possa davvero parlare ­ né un redivivo commissario Ingravallo s’appresta a svelarci i misteri irrisolti di Via Merulana (irrisolti e insolvibili? Via Merulana quale allegoria del Paese? Una lettura possibile, col senno di poi…) e tuttavia qualcosa di gotico e gaddiano, insieme, aleggia nelle pagine dell’ultimo libro di Barbara Balzerani, La sirena delle cinque (Jaca Book, 2003). In particolare, l’atmosfera da racconto gotico o da fiaba, ma senza lieto fine, che si respira nell’incipit (la cantina inquietante, il senso di reclusione) risulta particolarmente intonata al contesto, quello cioè di un dramma che ha travolto un’intera «generazione di senza fissa dimora» (p. 45). La metafora però può valere anche quale anticipazione di un destino ­ la reclusione, appunto ­ prefigurato confusamente nell’infanzia attraverso l’immagine dell’antro umido e buio (la cantina), ricettacolo di tutta la malvagità del mondo. Dunque, l’immaginario infantile assunto quale visionaria proiezione dell’agens in un futuro che vincola l’io narrante a una duplice o triplice catena (e in tema di gioghi, della più varia natura, può dire la sua anche il Priano della silloge Nel raggio della catena, Edizioni Atelier, Borgomanero, 2001): quella a più ergastoli, ad una pena cioè ­ con buona pace di Foucault e Beccaria! ­ la cui fine non è nemmeno pensabile; quella alla solitudine antropologica e all’impossibilità di sviluppare la componente “politica”, nel senso più pieno del termine, propria ad ogni uomo (Aristotele insegna); quella, ancora, alla doppia marginalizzazione in quanto donna e donna negata nella propria vocazione alla maternità (il ritorno all’infanzia, al ricordo quasi ossessivo dell’infanzia, si può leggere anche così); quella, infine, al silenzio: della cella e, altresì, quello imposto da una ghettizzazione di “secondo livello”, vale a dire dal sistema editoriale e della comunicazione.

Compagna luna
Il racconto, non a caso, prende le mosse dall’infanzia ­ un’infanzia perduta e perdutamente rincorsa, come in Leopardi. Del resto, la Balzerani stessa, nel suo libro d’esordio (Compagna luna, Feltrinelli), dialogava con la luna come possono fare unicamente i poeti, i folli o i reclusi — e l’infanzia, con la giovinezza, ritornano più volte nel corso della narrazione, segno di un rapporto non interamente risolto (con il padre, la madre, il fratello minore).
Una bambina sensibile che ha alle spalle una famiglia alienata dal lavoro e logorata da un matrimonio non a tutti gradito, una sorella che fa le veci della madre, operaia in una fabbrica di munizioni, un padre che muore prematuramente “mangiato” dalla fabbrica in cui lavorava, un quartiere popolare, un’infanzia simile a quella di tanti altri (basterebbe una lettura della silloge Cinque sassi ­ Edizioni della cometa, Roma, 1993 ­ del polesano Marco Munaro per averne un’immediata conferma), ma con un epilogo diverso dagli altri. Un libro, insomma, che nasconde/rivela un groviglio di nodi e nel quale non è assente una sottile vena lirica. È possibile arrivare alla poesia dall’interno di un carcere, sembrava chiedersi Milo De Angelis nel suo intervento sull’ultimo numero di Poesia (Milo De Angelis, Appunti sulla poesia in carcere, Anno XVI, Ottobre 2003, n° 176, Crocetti, Milano, pp. 43­44)? È possibile: questo libro ne costituisce una prova.
Rimasta a lungo nell’ombra, l’oscura entità si palesa all’altezza del capitolo Polveri (pp. 35­37): il suo nome è “fabbrica”, la sua voce una sirena, una sirena che “urla”. Una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, che ci restituisce qualcosa non solo di un’Italia proletaria sulla via di una rapida industrializzazione, ma anche una chiara eco di pagine intere della nostra migliore letteratura, pagine del Pasolini romano e delle sue borgate piuttosto che del “donzel” ancora un po’ naïf di Versuta, oppure di Volponi, Balestrini, Ottieri e di altri, fino a Zanzotto, intellettuali, scrittori e poeti che hanno letto con occhio critico le rapide trasformazioni del Paese ispirate alla logica disumanizzante della realtà industriale e della fabbrica. Ma c’è anche qualcosa di più, c’è l’attenzione vigile del pedagogo o dell’antropologo che coglie un cambiamento epocale già nel mondo dell’istruzione, all’interno cioè di una scuola che seleziona e pronuncia giudizi inappellabili su base di classe, di censo, educando i giovani alla «complicità col più forte» (p. 37). Sarà poi cambiata davvero la scuola, da allora, verrebbe da chiedersi. E pronta arriva la risposta: «Creature bollate, nate in tempi feroci in cui ancora non si scrivevano lettere alle professoresse né si cercavano motivi di ingegno e di orgoglio fra gli ultimi banchi» (p.
36). È la scuola di ieri, ma chi ci lavora ha l’impressione di leggervi in tralice anche quella di domani: l’idra risorge e l’incubo si rinnova, né varranno ad esorcizzarli le invenzioni di un maghetto alla Potter. È ad un’altra scuola che dovremo mandare il nostro mago, ché la magia nera non viene nemmeno scalfita dalla sorella biancovestita e ai nostri tempi s’addice, piuttosto, il tono apocalittico di un Tolkien.

La barriera del tempo
Ma lo spazio chiuso di una cella, per un paradosso soltanto apparente come insegnano Leopardi e i Romantici, apre prepotentemente a nuove dimensioni e infrange ogni barriera o confine, fisico o culturale che sia, come dimostrano le pagine di Ritorni.
La prima a venire infranta è la barriera del tempo (incluso il tempo fittizio della semi­libertà: Guerra, pp. 63­67), vissuto con Bergson e con Proust nella dimensione ciclica della memoria piuttosto che in quella orizzontale e banale della semplice successione dei giorni. Con la memoria irrompono i ricordi: quelli dello zio Rigon, ad esempio, inscindibilmente legato alla sua terra di stenti e di emigrazione (nel vicentino), anche nel cognome (p. 40); oppure il ricordo dell’incontro con un altro emigrante conosciuto su una spiaggia e originario di Casablanca (p. 39), quasi inavvicinabile nella sua regale dignità. Cadono a questo modo anche le barriere artificiose dell’appartenenza e delle differenze etniche e l’auctor viene a ritrovarsi confermato nella propria identità, nella comune esperienza straniante (ma liberante) dello sradicamento e della perdita di sé. Per altre vie e attraverso un percorso più tortuoso, l’esperienza e la visione del mondo di un recluso vengono a intrecciarsi, così, alla lezione di vita di uno scrittore marginale, e pertanto emarginato, quale l’istriano Fulvio Tomizza. In questa geometria senza confini c’è spazio anche per un gesto implicito di tenerezza nei confronti del grande patrimonio culturale e linguistico dei dialetti (quello dello zio Rigon, ma non solo) e uno spazio anche maggiore viene riservato agli ultimi fra i reietti: una giovane slava di origine Rom, detenuta e negata due volte nella propria essenza ­ di nomade e di donna ­ dalla servitù all’eroina: l’inferno del carcere, vissuto dall’interno, lascia così intravedere alcuni dei suoi gironi al viaggiatore che si disponga a farsi prendere per mano da una guida sicura. Da pagine come queste diventa trasparente, altresì, la ratio di una scelta di vita tanto controcorrente e le ragioni 17 l i b r i
stesse di una coerenza per molti ancora incomprensibile: «I deboli del mondo hanno tutti la stessa faccia» (p. 41). Dunque, è la passione per la giustizia a ispirare le parole e le azioni della Balzerani, oggi come ieri e se la scelta dei mezzi non sempre è stata ortodossa da parte sua, sui principi che hanno ispirato la sua azione non è lecito discutere: sono gli stessi che inducevano una figura come Francesco d’Assisi, scampato in extremis alla condanna della gerarchia ecclesiastica quale eretico, a rompere con la logica mercantile del suo tempo (e di ogni tempo); sono quelli che portavano un giovanissimo Rimbaud dapprima all’adesione alla causa dei Comunardi parigini, poi al rifiuto senza riserve dell’Occidente e della cultura che ne era l’espressione; sono, ancora, le idealità che muovono, oggi, migliaia di militanti del movimento Noglobal o uomini della statura del Subcomandante Marcos nella ferma rivendicazione dei diritti degli indios del Chiapas. Si tocca con mano in queste pagine la marginalità e l’esclusione sulle quali cresce fiorente il privilegio dell’intero Occidente e la forza di tale istantanea diventa ancora maggiore dal momento che ad ispirarla non c’è alcuna intenzione di denuncia: è la realtà che parla questo linguaggio e la scrittura della Balzerani si dà come fedele registrazione e disponibilità all’ascolto, qualità rare e sicuramente affinate dall’esperienza del carcere. D’altra parte, conferme autorevoli a simili spaccati della società non sarebbe difficile trovarle (citeremo, per tutti, l’esemplare volume dell’uruguagio Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina, Sperling & Kupfer, Milano, 1999, ancora attualissimo per quanto “datato”), se si considera per un istante la condizione di totale precarietà e abbandono per milioni di bambini di strada nel mondo. In questo anelito di liberazione che ha in sé qualcosa di genuinamente religioso vengono infrante anche le barriere imposte nei secoli al corpo, soprattutto se femminile: la via d’uscita, allora, può essere un salto nel vuoto di una rampa di scale (Fuga, p. 45­46), oppure la tardiva, paziente e tenace riappropriazione della propria fisicità nello spazio verde, pur limitato, concesso dai regolamenti (Corpi, p. 47­49). E tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tale percezione della durata non azzera l’attenzione al presente o il senso della storia, che anzi irrompe in un quotidiano eterodiretto attraverso «le immagini del primo ponte distrutto in terra slava» (Guerra, p. 63).
A suggello del libro, nel cupo scenario apocalittico della guerra balcanica, la telefonata di un amico (Erri De Luca) che chiama da Belgrado per testimoniare il prezzo doloroso imposto dalle leggi del progresso e della democrazia alle genti slave. Così, la memoria si accende ancora una volta per contrapporre ad una guerra impersonale e disumana un’altra guerra che un residuo di umanità lo conservava nel distinguere, ad esempio, fra un “obiettivo” da colpire e i figli che costui teneva per mano, rinviando l’azione a un momento più favorevole.
La sirena delle cinque, in conclusione, non ha valore in quanto è stata scritta da un’ex brigatista e il libro non è — né si propone di esserlo — la bandiera di una fazione che si contrappone ad un’altra; ha valore piuttosto, e un valore incommensurabile, in ragione del fatto che l’autore è una donna che ha fatto diretta esperienza dell’esodo (e della violenza, dell’errore, certo!) — l’esodo dal mondo ma anche da se stessa, dagli affetti, dalla normalità della vita di tutti — per attraversare un deserto il cui estremo orizzonte non ha mai fine e che ci riguarda tutti, perché di tutti è la questione cruciale sul destino dell’uomo e del mondo, come di tutti dovrebbe essere l’interrogativo sull’equità e commensurabilità di una pena che non concede spazio ad alcuna speranza.
Tale condanna senza appello assume ai nostri occhi, dopo quasi vent’anni di carcerazione, il senso di una nuova forma di alienazione, un plusvalore di risarcimento (in senso marxiano) che la società impone — appropriandosene per capitalizzarlo in odio — a chi ha già pagato il proprio debito, espropriando così due volte la vittima della propria umanità o di quel che ne rimane. Ancora, vogliamo leggere la parabola umana della Balzerani (o della Baraldini, o di altre/i) nel segno di quella secolare esclusione cui il mondo occidentale, greco e cristiano, ha confinato nei secoli la donna, una condanna alla marginalità contro la quale ha lanciato i suoi strali affilati, nel complesso della propria opera, la poetessa di Perugia Anna Maria Farabbi, senza con questo volerne fare a tutti i costi e surrettiziamente la paladina dei diritti delle donne.

Barbara Balzerani
La sirena delle cinque
Jaca Book, Milano, 2003