Linea d’ombra

di Realdi Giovanni

Lei dischiuse il suo addome
e lo svuotò dell’odio,
poi incise il mio ventre
e vi stipò la crudeltà.

Ora il sonno è per me un souvenir
impolverato
ed ingiallito al sole.

Sigillerò le palpebre questa sera,
strette strette.
Accosterò le mie labbra.

Nei miei ricordi tu sei
la luce tiepida dell’estate.
Nei miei ricordi tu sei
la notte fonda dell’inverno.
Tu mi ricordi tutto.

Fatti vicina
e appoggiati a me.
Fatti più vicina
e appoggiati ancora a me.

[Yakudoshi, Abat-jour]

Con il nostro carico di molti libri e qualche maglietta portiamo Macondo nel veneziano, a Donosonoro, rassegna di gruppi musicali organizzata dall’Avis locale. Ci barcameniamo tra chiacchiere e birra, mentre nell’aria calda si alternano voci convinte. Yakudoshi è una formazione lombarda e il titolo del disco presentato è una sorta di brindisi «al diavolo che ha allietato i nostri giovani giorni». Nervose, le sei canzoni si costruiscono una nicchia sonora, volutamente lontanissime dal qualsiasi colorato e televisivo Disco dell’Estate o Festivalbar di sorta. Prendetevi del tempo, stateci ad ascoltare – sembra il messaggio – non siamo facili, non dateci dei facili, abbiamo il serbatoio pieno e molto da dirvi. Stiamo parlando – comunicando – ma dovete flettervi, adeguarvi, perché non parliamo la lingua dei tutti, ma la nostra e solo la nostra.
Da qui, nel titolo dell’album: l’immagine del Diavolo, icona del Male, affiancata ai Giorni Lieti dei giovani. Che cosa significa? Impiegare la metacategoria della provocazione è un po’ come lavarsene le mani, relegando la cosa in una delle stanze dello scantinato patologico del disagio, altra categoria che indica, addita, ma non si mette in colloquio. I testi, come quello sopra riportato, sono incastrati tra l’esperienza buia di un male e una fitta di luce che dà un’apertura sul tempo: il disagio tangibile dell’insonnia, fatta di uno stomaco gonfio, stufo di ingoiare cose brutte, lascia il passo ad un contatto fisico, ad una vicinanza che salva. Tu mi ricordi tutto: c’è la consapevolezza del dolore ma anche di stagioni più serene, di eventualità altre, da conservare nel gesto dell’appoggiarsi l’una all’altro.
Mi suona in testa questa possibilità: l’abitudine a non essere troppo ascoltati, presi in considerazione. Non mi riferisco a qualche agente discografico, catena di distribuzione, etichetta musicale. Ma alla personalissima esperienza di trovarsi a parlare da soli, al muro, ad un albero.

Parlo più con gli alberi che con le persone
Alice mi aveva confidato proprio questo: mi trovo più a parlare agli alberi che alle persone. Quest’albero mi piace, dice, abbracciando un pino marittimo, e mi porterò a casa questa pigna: guardala, è perfetta.
Sgusciata fuori dal liceo, si trova sospesa nel vuoto della scelta del dopo maturità: prendere in mano le mie possibilità per lanciarle nella direzione giusta. Ma esiste questa direzione giusta? Tra i tabelloni dei voti dell’esame di stato si aggira uno spettro: è quello del Destino. Mi sono trovato a parlare di filosofia con alcuni di questi maturandi e in tutti, chi più chi meno, c’è la sensazione che la propria storia sia già stata scritta. Avviene come in quei fumetti di Paperino in cui il lettore aveva la possibilità di cambiare la trama scegliendo una direzione nuova ad ogni bivio; così questi ventenni si mettono di fronte alla propria trama cacciando ad occhi chiusi una mano nel sacchetto della fortuna: starò scegliendo la strada giusta? Come se essa fosse già segnata, senza e prima di noi, e a noi non restasse che seguirla, senza metterci mano, senza poterla modificare, arrendendoci alla nostra evidente serenità…

Non c’è problema
Il Destino è una delle figure di questo nostro tempo. Siamo immersi in una gigantesca Soluzione dei problemi: dai cartelloni sorridenti sulle strade, che augurano osceni un buon lavoro in Europa all’Uomo delle Sicurezze, agli spot televisivi che consigliano ogni cosa al momento giusto. Perché farsi dei problemi? C’è una risposta per tutto, basta comprarsela, o al limite raccoglierne qualcuna di già usata, di seconda mano.
È indicativo di questo, penso, il fatto che il cruccio da affrontare, spalancate le aule scolastiche, non sia il dubbio – dove andrò? – ma la noia – dovunque vada è lo stesso: sottratta ogni Crisi, murato ogni bivio, interrato ogni tribbio.
Perché allora, se in fondo ci è richiesto solo di adeguarci, conserviamo una sacca di resistenza? La campana di vetro che hanno preparato ci avvolge come in quei souvenir pronti da capovolgere, con la neve di polistirolo. E se la Risposta unica non ci piacesse? E se non ci bastasse stare nel Giusto, perché abbiamo nostalgia del Bello?
L’esperienza notturna di una località balneare del ferrarese, giorni fa, ha qualcosa di onirico. Mi ci trovavo con alcuni amici più giovani, in apertura dei loro quindici giorni di mare. Corso Italia si snoda seguendo la costa Adriatica: i bagni diurni, dalla Rotondasulmare al Tahiti, con il buio aprono le porte sul retro per accogliere pianobar e cocktail serali. Delusi dal bagnasciuga, controllato a vista da Guardie Giurate stravaccate sui mosconi, ci siamo concessi una passeggiata: seduti ai tavolini quaranta-cinquanta-sessantenni rimbalzano l’occhio spento dal bicchiere appiccicoso al sedere delle ragazze in passerella, un improbabile claudiobaglioni viene devastato alle tastiere – voglio andar via – mentre adolescenti ciucciate in pantajazz bianchi al ginocchio ciondolano i sederoni sulle ginocchia dei maschi del branco, ubriachi più di gin che di testosterone, bambini agonizzanti di sonno sprofondano nei passeggini spinti per inerzia da coppie ammutolite e tristi, poco lontano un deserto luna-park felliniano spinge le giostre vuote a giri solitari, le soubrette del tirassegno appoggiano l’abbondante seno al bancone, ammiccandomi: anche se sbagli, regalo qualcosa alla tua fidanzata.
Non sto forzando i toni, questo è il problema. Osservo i ragazzi mentre torniamo all’appartamento: hanno sguardi puliti, incoscienti, sembrano ricordarmi che in fondo ognuno cerca il divertimento come può. Ma a me rimane un senso di brutto nello stomaco ed è forse per questo: non posso che scorgere in questi amici la bellezza e non posso nemmeno evitare di cogliere il contrasto.

Contrasto
Tra le soluzioni possibili c’è anche il Divertimento unico e monocolore. Monocolore è il destino che ci hanno preparato; monocolore il discorso di chi ha sempre qualcosa da suggerirci e non si dà alcun tempo per ascoltare. In tutto questo assoluto Rispondere sono immerso nella categoria del Giusto, del Corretto. Ci vogliono convincere che questo è il migliore dei mondi possibili. E qui sta il trucco, la fandonia, come i limoni di Genova. Posticci. Lo sforzo globale perché nulla sia fuori posto tralascia un’altra categoria, che ha vita propria. Quella della Bellezza. Il mondo delle risposte è irrimediabilmente brutto: ogni fantasia per soluzioni divergenti ne è espulsa. Ma se possono convincerci che la Risposta è giusta, non riusciranno mai a farci dire che è anche bella. E una possibile manovra di contrasto, un gesto resistenziale, forse, stanno nel cercare quello che sentiamo realmente bello, come la luce tiepida dell’estate, come la vita che ognuno può costruire per sè, come la pigna di Alice.