Mostar: perché?

di Deganello Sara

Diario da Sarajevo – II

Un poliziotto musulmano

La prima sera che siamo uscite, a Mostar, Ljubica guidava ed è stata fermata dalla polizia. C’era una nuova legge, in vigore da pochi mesi, che permetteva di guidare l’auto solo se possessori o con delega del proprietario. L’auto era stata intestata alla nonna perché all’epoca era la soluzione più conveniente, ma ora la madre aveva la delega e lei no. Le hanno fatto la multa oltre che un po’ di paura. Ci ha portato a casa più tardi un suo amico per strade secondarie. Non siamo più andate al mare, nella casa di famiglia sulla costa croata, per paura. Un’eventuale multa al confine sarebbe ammontata a 500 euro. Troppo. La polizia ci ha fermato ancora un altro paio di volte, ma storie di questo tipo non ne abbiamo più sentite. Perché?
Ljubica mi confida, senza averne fatto parola con Edina, di pensare che il poliziotto fosse musulmano e avesse agito così dopo aver capito dal suo nome che lei era senza dubbio croata. Era risentita, quando me lo raccontava. Dopo un anno in Germania aveva deposto le barriere della prudenza e della furbizia costruite precedentemente durante la vita a Mostar nel dopoguerra. E si sentiva ripagata non certo dalla stessa moneta di onestà e ingenuità. Quello che mi lascia sconcertata è come abbia il suo solo nome averne scoperto l’etnia. Lei per farmi capire mi snocciola una lista di nomi cattolici-croati, musulmani e poi quelli derivati da matrimoni misti. Sabina e Denica, ad esempio, sono amiche di Edina e sì, sono di genitori di diversa etnia. Ljubica invece era il nome della nonna. Violetta.

Cosa c’entra la Turchia?

Sempre a Mostar mi compro una scheda telefonica per chiamare a casa. Dico loro che devo telefonare. È meglio che tu lo faccia subito, mi suggeriscono, perché poi andiamo nella zona croata e la tua scheda non funzionerà più. Ah.
Ljubica sostiene che non vi sono croati che abitano nella parte musulmana di Mostar, al contrario musulmani abitano nella parte croata. Edina non mi sa fornire dati precisi. La città non è nettamente divisa, mi ripete.
Una sera passeggiavo con Ljubica per il centro di Mostar. Avevamo appena lasciato a casa il padre e il fratello, nella parte croata, a tifare per la squadra nazionale della Bosnia-Erzegovina. Sono le partite di calcio per le qualificazioni agli europei. La Bosnia vince. Lo intuiamo dal corteo di auto strombazzanti che passano a pochi passi da noi. Siamo nel quartiere musulmano. Sventolano le bandiere. Ljubica si innervosisce. Come disturbata. Offesa. Me lo dice, alza il tono. Mi traduce che hanno detto: prendiamo la bandiera della Turchia e andiamo a fare un po’ di casino nella zona croata. Si scalda. Cosa c’entra la Turchia? Perché quando la Croazia perse un’importante partita di calcio (che lei mi riferì precisamente ma di cui non ricordo più le coordinate) ci fu un’esultanza pari alla vittoria odierna della Bosnia? Perché?
Si racconta la storiella che un tizio dica ad un suo amico: ehi, stasera giocano Italia e Serbia e Montenegro (Serbia e Montenegro è l’attuale nome di quel Paese che subito dopo la guerra si appropriò indebitamente, a detta di molti, della vecchia nomea di Jugoslavia). E quello risponde: ma cos’è, un torneo?! Io provo a raccontare da me la stessa storiella modificandola così (e pensando che la moltiplicazione dei termini la renda più divertente…): ehi, stasera giocano Bosnia ed Erzegovina e Serbia e Montenegro!! No, mi correggono, forse non la ricordi bene. Infatti non fa ridere così. La Bosnia ed Erzegovina è un solo Stato. E io proprio no, non vorrei andare a dividere almeno quello che è rimasto unito.
Qualche giorno dopo l’esperienza dei bosniaci esultanti, guardando il televideo vediamo che la nazionale croata ha perso. Edina legge la notizia e commenta con un: oh, bene. Io rimango a mezz’asta. Ma come, ma cosa dici? Sei contenta che abbiano perso? No, ma è che vincono sempre…

È solo la religione
a distinguere le etnie?

Un giorno io ed Edina andiamo alle poste locali di Blagaj, il paesino a 10 km. da Mostar in cui stiamo. Vedo una scuola e le chiedo di che etnia sono quei bambini. È una scuola bosniaca, mi risponde. Cioè sono musulmani, devo dedurre. I cattolici croati sono una minoranza e si trovano, a quanto ho capito, solo nei centri più grossi. Per questo la famiglia di Ljubica si è trasferita da Zenica a Mostar allo scoppio della guerra. Per essere maggiormente tutelata, per far parte di una comunità croata più ampia. Mi chiedo se sia solo la religione a distinguere le etnie.
Ora a Mostar hanno ricostruito la chiesa dei francescani con un campanile sproporzionatamente alto. Lo chiamano anche loro: il missile! Sull’altura che domina la città, da una parte c’è la montagna brulla (come tutto lì intorno) su cui sta scritto a sassi bianchi: noi amiamo… la Bosnia ed Erzegovina (correzione in sostituzione dell’antico Tito), dall’altra si erge una croce. Eretta naturalmente dopo o durante, non so se fosse possibile, la guerra. Una provocazione per Edina, su quella posizione così dominante. Un’esagerazione anche per Ljubica. Ma neanche la comunità cattolica ha avuto vita facile durante le violenze e le violazioni. E ha pensato di aver ragione nel farlo vedere.

Quasi nel mezzo del nulla

Mostar riposa giù nella valle scavata dalla Neretva quasi nel mezzo del nulla. Ci sono le case pietrose e antiche intorno al ponte che dev’essere stato magnifico. I viali, i bar sotto il cielo e le panetterie aperte tutta la notte a far intuire che siamo a qualche ora di macchina dal Mediterraneo aperto. Che siamo al sud. Nel mezzo, la linea. La linea che fu del fronte e che ora mantiene gli edifici distrutti e i buchi dei proiettili e delle granate. Nel centro storico ci sono segnali, a volte pure tradotti in inglese, che invitano a non parcheggiare la macchina sotto ai caseggiati particolarmente pericolanti. Edina stessa mi ha raccontato che un tegola è caduta a pochi metri da lei, una volta. Gli autobus sono gialli e nuovi. Un regalo del Giappone. Quelli di Sarajevo che sono invece quelli che la Germania non usa più (lo si capisce dalle vecchie pubblicità all’interno). Le ambulanze sono un regalo della Spagna, dell’Italia, della Norvegia… Il centro per la musica naturalmente un regalo di Pavarotti. Le barche di una riserva naturale vicino a Medjugorie sono della regione Lombardia.
Una sera siamo andate a ballare al Buna. Birra quasi regalata e bella musica. Lampadine colorate sul cortile di ghiaia. Lo sguardo sul fiume. Lì Ljubica mi indica ad uno ad uno i suoi amici: lei è stata in Italia durante la guerra, lui in Germania. Lei invece è la sua cara amica Valentina di Split, insegna fisica in un liceo. Non riesce ad ottenere il passaporto bosniaco anche se risiede da tempo, e forse risiederà per sempre, a Mostar. Ma come, chi può volerlo un documento così? Lei e migliaia di cinesi. Penso che non occorra il visto per entrare in Bosnia. Le hanno tirato i sassi una volta qui… ragazzacci. Lei è croata doc. E perché vuole restare qui?
Parliamo inglese, lei mi mette a mio agio. L’atmosfera è distesa, ma densa, aperta. Forse anche grazie alla birra. Il dolore, la distruzione… sì, ci sono stati. Ma ora sono tutti questi ragazzi qui, sotto queste luci piccole che si muovono oscillando, che danzano anche loro, sono le loro storie e le loro idee sotto il cielo ancora caldo di settembre che contribuiranno alla nuova creazione. Alla vita che sgorga di nuovo fitta. All’arte della rinascita come di fiori da un terreno bruciato. È questo che ho capito lì al Buna di Mostar come al Donnerstag di Berlino o al Town Pub di Sarajevo. Perché eravamo per un attimo proprio noi lì, a non pensare più al passato. A sentire che si può ricominciare, inventare qualcosa di nuovo. E a farlo insieme. Sarà questo che ha trovato qui anche Valentina? Qui ha qualcosa da ricostruire con pazienza, educando…

La politica ha rovinato tutto

Un giorno avevo voglia di fare una passeggiata e Edina mi ha messa in guardia, là tra i campi di Blagaj a ridosso del monte: non mi fare paura, mi ha detto, dimmi che non andrai fuori dalla strada e non ti inoltrerai al dì là delle ultime case. È ancora pieno di mine da queste parti. Io ho seguito le capre e ho fatto amicizia con la dama delle capre. Una signora un po’ ruvida e abbronzata. Penso che mi abbia detto che faceva caldo. Io le ho cercato di dire che ero italiana, che facevo visita ad un’amica. Lei mi ha stretto vigorosamente la mano. Non è il primo personaggio che si lascia avvicinare e quasi conoscere. Se sapessi il serbo-croato…
Un vecchio artigiano della Mostar vecchia fabbricava una chitarra a quattro corde, la tambura. Beh, c’era Edina che traduceva, ma questo è andato a prenderci le foto del suo soggiorno a Bolzano durante la guerra. Le foto del suo amico Fabrizio. Accogli lo straniero. È incredibile. Come ha fatto questa gente ad ammazzarsi tra sé e sé? Forse aveva ragione Veca. Forse la politica ha rovinato tutto. Di certo sono stati smossi i sentimenti primitivi dell’istinto e del sangue in un qualche modo incontrollabile che ha accecato (e azzerato) la civiltà del meticciato, la cultura.
A Mostar ci sono un sacco di negozi di cd e dvd pirata. Anzi, io non ne ho neppure visti di originali. Ti danno pure la sportina con il loro logo e indirizzo e-mail. Non ci dev’essere molto controllo in materia legislativa.
Sia Edina che Ljubica sanno dove andare se vogliono comprare gli esami all’università. Ma, come si sa, la mafia è un po’ dappertutto e qui si è arricchita soprattutto con la guerra.