Nessuno vuole migliorare il mondo, tutti vogliono arricchirlo

di Stoppiglia Giuseppe

Sulla giustizia ha prevalso la libertà selvaggia

«Ciascuno porta una strada
nella sua coscienza,
chi verso il potere,
chi verso la libertà.
Ad ognuno la scelta».
[Evgenij Evtusenko]

«La fede non si perde.
Essa cessa di informare la vita ».
[Georges Bernanos)

Un Lama che viveva novecento anni fa, in una caverna nell’ovest del Tibet ed era chiamato il “saggio matto”, venne visitato da un suo discepolo che gli chiese: «Che cos’è il silenzio?». Il Lama non rispose; uscì dalla grotta e prese a camminare, seguito in silenzio dal giovane allievo. I due non parlarono mai, non discussero di nulla: camminarono e camminarono, finché non si persero.

Toni Cortese, un amico che parte
La melodia dell’Inno alla Gioia di Beethoven, che si muoveva dentro i brevi intervalli di quell’ispirazione che sempre ci innamora, era in quel momento poesia del mondo, il canto del ringraziamento e della riconoscenza. Non diceva altre parole se non una preghiera che scorreva dalla memoria dell’infanzia e si fermava a contemplare il dono della vita.
La voglia di cantarla ci era venuta, quasi per una carezza di vento, a consolare la commozione per la morte dell’amico Toni Cortese, per vent’anni fianco a fianco, a scommettere testardamente sull’educazione degli adulti.
Ho perfino pianto, perché mi tormentava un groppo di parole trattenute. Veniva da lontano il suono di una campana e portava qualcosa lontano. Non sapevo cosa, ma lo sentivo.
Non ha fatto in tempo, Toni, ad inveire contro la morte: lo ha preso alle spalle. Ha inveito solo contro il dolore. Senza respiro, incerto nel passo e smarrito nello sguardo, con lampi d’ironia. A chi sta morendo si fa fatica a stare vicino perché è assente, ma non puoi stargli lontano perché è presente.
Accadde così, in un pomeriggio afoso di luglio, di cantare in tanti per un amico che partiva, tra le cime della montagna. Ci tremavano il cuore e l’anima, nello stupore del silenzio.
Ora riposa e vigila nel cimitero di pietre bianche di Pieve di Torrebelvicino, tra le sue montagne, sparso tra le nuvole questo appassionato educatore, festoso testimone del vangelo.
C’è una verità della cronaca, piccola, parziale, descrittiva; e c’è una verità piena, totale, liberante. Toni l’ha cercata con amore e intelligenza. Con uguale passione è stato amoroso interprete dell’evangelo non scritto, nascosto nel cuore dei poveri.

Il messaggio più diffuso oggi
In un mondo come il nostro, dove sembra che i più forti abbiano sempre ragione, siamo tutti più poveri.
Nessuno vuole più migliorare il mondo, tutti vogliono arricchirlo e pensano che sia la stessa cosa. Arricchitevi!: è il messaggio più diffuso e più ascoltato. È un’istigazione a delinquere, nobilitata dall’etica protestante, incoraggiata dalla doppia morale cattolica e tutelata dalla legge a tutti gli effetti.
Gli avvenimenti di Genova mi sono piombati addosso con la violenza cieca, il cinismo infame e la follia disumana di una bufera vorticosa e devastante. Nello stesso tempo, però, ho assaporato il gusto dell’irrompere di una forza nuova, tinta di speranza.
Certamente vista da quel “luogo” la politica è un surrogato scadente, una tecnica dedita a svilire le idealità che la nutrono, lontanissima da chi vi ripone fiducia. Eppure si diceva che era il sale della terra, non si capisce se sia cambiato il sale o sia cambiata la terra.
«Il movimento non violento ha avuto a Genova una sua impressionante validità… Ha riportato una sofferta vittoria, non soltanto rendendo esplicite in sede culturale le crudeltà della globalizzazione, ma anche verificandone la ferocia strutturale che essa assume ai suoi vertici. Una esigua zona “rossa”, con un gruppo di privilegiati arcidifesi dalle proprie forze armate e, fuori, tutte le contraddizioni della società moderna» (Ettore Masina, Lettera n. 75, agosto 2001).

Un errore del movimento a Genova
A Genova, però, è accaduto anche altro, e cioè il movimento dei movimenti, che potremmo definire per una globalizzazione delle possibilità ad essere felici, nella ricerca di un protagonismo più visibile e riconosciuto, è andato troppo vicino all’avversario (i sostenitori del liberismo) e ha dovuto incassare un grave colpo.
L’ avversario, manipolando un gruppo di ultraviolenti, ha puntato a rovinare l’immagine mass medianica del movimento, occupando lo schermo televisivo e le pagine dei giornali con lo spettacolo delle distruzioni violente. «Volete rovinare la nostra festa? Noi rovineremo la vostra!». Purtroppo, andando a segno il colpo, il movimento ha perso una parte del credito che stava guadagnando rapidamente e diffusamente. Uno sbaglio (rimediabile) è stato mettersi a dipendere dal sistema dei mass media per la propria esistenza simbolica. Tutti i mezzi di questo mondo sono secondari rispetto alla capacità di praticare relazioni vive, forti: relazioni dove ci sia scambio di cose essenziali (sapere, amore, piacere…) che ci facciano cambiare in meglio, dandoci più libertà e più gusto di stare al mondo.
Infine, occorreva respingere l’aspirazione a diventare interlocutori dei sedicenti grandi, entrando nell’idea di rappresentare gli interessi di tanti altri e pretendere di farli valere con i detentori del potere.
Gli interlocutori di un movimento non sono i potenti, ma le innumerevoli persone silenziose che possono essere contagiate. La forza dei movimenti cresce finché essi spingono gli interessati a farsi protagonisti delle proprie vite e a negare ogni involontaria complicità col dominio.

La fattuale società capitalistica
Nessuno mi sconosce che la società capitalistica sia la più fattuale della storia. Ma non appare disposta ad accogliere le giuste istanze delle sue vittime. Una ricostruzione della società può nascere solo dai bisogni reali e questo ci obbliga a spingere lo sguardo su quella parte dell’umanità.
Oggi si preferisce parlare di solidarietà: la parola giustizia fa paura, come se fosse violenta. Solidarietà vuol dire essere uniti in una sorte comune. È vero. Ma la solidarietà si realizza, l’esclusione è bandita, solo se è praticata la giustizia. Rendere a ciascuno il suo, in proporzione ai bisogni di chi riceve e alle capacità di chi contribuisce.
La libertà selvaggia (Kant) ha prevalso sulla giustizia, anche su molti che vorrebbero non accettarne le conseguenze economiche e sociali peggiori. Prima che economica, la giustizia è il rispetto assoluto della persona umana, del mistero alto che essa è. La giustizia è criterio dell’uso della libertà.

Il culto della forza economica
Per l’attuale destra (modelli Tatcher e Reagan) la libertà dei forti già liberi, approvati dai loro ammiratori, è un valore assoluto, e chi non può competere deve vivere una vita inferiore: è una libertà escludente.
Anche il berlusconismo è una forma del culto della forza, che è la caratteristica delle destre ignobili: nel fascismo la forza fisica e militare, nel nazismo la forza razziale distruttiva, nel berlusconismo la forza economica. La polemica energica e profonda, a livello etico e culturale, contro questa ideologia, è condizione di sopravvivenza e di riscatto per la democrazia.
Democrazia reale è il potere distri16 controcorrente buito, non consegnato e concentrato; l’abilità pregiudicata nel fare gli affari propri è l’opposto della capacità politica, che è invece l’impegno per il bene altrui, di tutti, più del proprio.
«Dobbiamo ancora renderci conto dei costi che comporta vivere senza alternative, senza guide e parametri, lasciando che le cose vadano come devono andare e dichiarando che le conseguenze sono tanto inevitabili quanto impreviste» (Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale).

Occorre una scelta concreta di giustizia
Il volto rigato di sangue e macerato di tutte le rinunzie che si presenta nel mondo impoverito, e il volto marcato dallo smarrimento del mondo senza parametri imprimono carattere d’urgenza alla risposta ispirata dal pensiero laico o dalla fede religiosa.
Una persona responsabile non può lasciare che le cose vadano come devono andare senza impegnarsi per aiutare ad uscire dall’attuale condizione umana.
La stessa Chiesa non può rimandare una risposta che sia vera alla gioventù perduta in un mondo senza parametri etici. Non può giustificare con le solennità e le feste l’assenza di un’etica calata nella vita reale ed autenticata di scelte concrete di giustizia. Non può non assumere un’opposizione chiara e coerente ad un potere che autorizza l’accumulazione di beni e lo sperpero allegro del denaro, succhiato ai poveri.
L’escluso rientra come portatore di un comando ineludibile: tu non mi ucciderai. Nessuno deve poter uccidere il fratello in nome di Dio o della ragione. Non deve essere più possibile rifugiarsi nella lontananza, inseguendo una logica di verità che, quando tocca terra, diventa logica di morte.

Una speranza nuda
Sono temi che non si possono svolgere nella fredda solitudine della ragione, ma solo ricevendo l’investitura dell’altro asimmetrico.
Io non sono come Tommaso. Anche se non aveva toccato, aveva visto! Io non ho mai avuto apparizioni e non ho mai sentito la presenza di Dio. Altri dicono di averlo incontrato, almeno fugacemente, e conservano in sé, come una grande forza, la luce di questi istanti. Non dubito della loro sincerità, ma la loro esperienza non è la mia. Io non ho visto.
Gesù ha detto: «Beati quelli che credono senza aver visto». Allora sono beato? Sì, io sono modestamente felice di avanzare senza prove né appigli di alcuna sorta. Io non ho la fede, l’accolgo fragile, tremante, senza possederla. La fede non è una credenza che porterebbe soltanto un sapere. Come scrive Pascal, «la verità fuori dalla carità non è Dio… è un idolo…».
È tutto il mio essere, spirito e cuore, parole e azioni, dono e perdono, è tutta la mia vita che si apre a Colui che viene umilmente nell’intimo…
Mi piace avanzare così, incerto, sempre più votato alla speranza nuda.
Pove del Grappa, agosto 2001