Quando gli uomini divengono pietre

di Lizzola Ivo

Ogni piccola e ogni piccolo d’uomo viene al mondo in un mondo in cui la convivenza è “istituita”: in linguaggi, pratiche, norme e simboli. Ogni istituzione “forza” la vita ma, insieme, è un sostegno che ne permette lo sviluppo. Sempre inedito. Le istituzioni certamente non sono, allora, dei fini, ma non sono neppure solo dei mezzi per l’autorealizzazione individuale. Sono piuttosto forme, in cui prende una prima configurazione l’esistenza di donne e uomini: accolgono e sostengono la nascita e il primo sviluppo, sostengono la presa in cura, attrezzano le responsabilità, riconoscono il valore: indicano finalità e dedizioni.

Luogo di consegna e convivenza
Nelle istituzioni avviene l’incontro, l’eredità, la consegna tra i giovani e gli adulti, tra i padri e i figli. In esse si dà una prima forma alle pratiche, ai progetti di vita: dentro le regole, i principi, i linguaggi che le istituzioni serbano, e ridefiniscono. Ed è nelle istituzioni che quelle regole e quei principi, quei linguaggi si “provano”, si verificano, si dicono di nuovo, si criticano… non distruttivamente, auspicabilmente in uno spazio comune, in cui sia possibile la parola di ognuno, di ogni diversità. Senza temere conflitti, permettendo a chi è giovane di assumere parola, progetto, responsabilità, figura. Perché si possano così tessere nuovo consenso e rinnovata forza di legame. Le istituzioni educative hanno, poi, un’importanza decisiva. È in queste che si svela la capacità d’una convivenza: di operare consegne e di farsi abitabile; di saper aprire “luoghi di deposito” (di senso, di energia di legame, di nuove risorse ideali, emotive, progettuali, di memoria, di futuro); di fare sentire attesa e promessa ai più giovani attraverso “pratiche di nominazione”, chiamate alle responsabilità, alla assunzione di cura.

Per una pratica della memoria
Ritessere legame sociale chiede una pratica diffusa di nominazione. Chiamare per nome da dentro “i depositi” di comunità, della storia, delle memorie è questione anche di qualità della consegna. Ed è questione di capacità di connettersi con la memoria delle generazioni e dell’umanità, di senso del debito, e della vicinanza fraterna ai sogni e alle prove di donne e uomini dei tanti passati vicini e lontani. Memoria sentita e coltivata nella pratica scolastica attraverso i racconti e le testimonianze di donne e uomini incontrati tramite la letteratura e l’arte, la musica e la storia… Nelle quali assumere “ciò che resta” dell’avventura umana, ciò che resiste e per cui si dà la vita (testimone è supertestes, non solo testis). E delle quali ascoltare ciò che si muove nel profondo di donne e uomini e tra di loro, accomunandoli, nessuno immune, nello sforzo di contenere o ridurre il male e di fare spazio al bene. Da sempre gli uomini abitano immagini e rappresentazioni. Attraverso le immagini gli uomini hanno aperto all’abitabilità un mondo comune, una promessa di futuro, desiderabile. Queste sono le rappresentazioni della speranza, o della rinascita, dell’attesa. Le rappresentazioni degli uomini, però, hanno anche compreso e rinchiuso il mondo riportandolo continuamente a una “origine”, che include il noi ed esclude gli altri. Queste sono le rappresentazioni della totalità che nega l’altro e la comunità dei diversi. Abitare un mondo di immagini espone al rischio di abitare un mondo virtuale. Ma gli effetti (i gesti, le decisioni, le parole…) dell’abitare un mondo virtuale sono, comunque, sempre ben reali. A volte tragicamente reali. Nella post­modernità delle comunicazioni e della tecnoscienza, della razionalità critica e del mercato, si dà una nuova, tragica, produzione di miti e di rappresentazioni della purezza e dell’origine. Per ri(con)durre le realtà a queste immagini inventate, per mancare il rapporto con la realtà e con le persone, serve la forza, e una sorta di immunizzazione morale.

Immagini per la conservazione e la vendetta…
«Gli uomini divengono pietre» ci dice Simone Weil (L’Iliade il poema della forza), annichiliti e pietrificati dallo sguardo dei “guardiani della verità e del bene” per i quali la storia diviene “storia sacrificale”, luogo di vittime e di idoli: sacrificati i primi sugli altari dei secondi. Il nome dei giovanissimi viene a volte schiacciato dal peso della consegna di immagini e rappresentazioni: dal compito di realizzare sogni di un passato fantasticato, di vendicare le offese ricevute, di conservare e perpetuare purezze originarie… In questi anni sarà importante volgere uno sguardo non immediato a queste situazioni che sono anche al cuore della trasformazione e del travaglio dell’Europa, mentre paiono o sono fraintese come “periferiche” e “locali”. Uno sguardo che provi a superare una rappresentazione solo politica del fenomeno. Pericolosissime e soprattutto false sono queste “pratiche di nominazione” perché dal nome non attendono novità, nuova linfa, non si aspettano un inedito e creativo riaprire i sogni, non sono disposte ad accettare amnesie. Il nome è chiuso dentro appartenenze e fedeltà totali. Con violenza, e reso violento. Sono i più giovani ad essere maggiormente esposti ai riti di consegna che semplificano la complessità, che offrono una sintesi tra pienezza del gesto, legame al passato, appartenenza ai guardiani del vero, opposizione al presente.

… oppure per accogliere la speranza degli altri
Rappresenta una sfida anche culturale ed educativa l’istanza di morte che con indicibile e violenta nettezza si presenta nei gesti di chi funzionalizza la vita (nonostante il frequente e blasfemo riferimento al sacro) tanto da fare del suicidio il “mezzo tecnico” per arrecare quanta più morte possibile ad altri. Come trovare parole giuste, di vita? Come riconquistare le menti, la calma interiore? Qui nelle regioni del mondo terrorizzate e attraversate dall’ansia sorda, e là tra i disperati, i rifugiati dei campi, gli sradicati e i miseri. Riusciranno, qui e là, donne e uomini vulnerabili a leggersi dentro, a educarsi ad ospitare le memorie e le speranze d’altri nelle proprie? Atteggiamento necessario per operare gesti forti e permanenti di inclusione, di attenzione: gesti il cui valore simbolico attraversi spazi interiori e territori culturali, in modo anche sorprendente, inedito. Attivando pensiero e riflessione, quel pensiero che invece l’istituzione della violenza blocca, cristallizza, pietrifica. Per scagliarlo. Gesti diffusi e interiori, semplici e difficili. Da apprendere nelle pratiche quotidiane. Come un digiuno, serio, istituzione che attraversava e ancor oggi attraversa la quotidianità richiamando a sorgenti profonde, comuni: di riconoscimento della vita donata e dei beni da ridiffondere. Luogo casto e umile d’incontro tra grandi esperienze religiose, mistiche e laicamente civili.

La funzione educativa della scuola
Quando la violenza si reimpone, con le forme nuove e antiche del dominio totale sulla vita e sulla morte, occorre chiederci dentro i luoghi della formazione che apporto stiamo dando dentro e fuori di noi, alla sua esplosione, e che apporto stiamo dando dentro e fuori di noi alla crescita della pace e della giustizia. Dentro le nostre culture, i nostri saperi, le nostre utilizzazioni delle tecnoscienze. Troppe volte nella storia dell’umanità, come nella storia di noi occidentali, e nella storia di ognuno di noi, abbiamo proiettato il male sull’altro. Abbiamo costruito e trasmesso storie, racconti, strutture psicologiche e simboli per farlo. Costruendo anche l’immunità dal male e dalla colpa per identità e tradizioni. L’intensità con cui nelle scuole si vive la Giornata della Memoria dal momento della sua istituzione, la forte dimensione di riflessività negli incontri dopo l’undici settembre e sulla guerra ci svelano adolescenti che non rifuggono dai percorsi educativi, che chiedono di fare i conti e, in qualche modo, di portare il male dell’umanità, di riconoscerlo come potenzialmente presente in sé. Crescendo come donne e uomini che cercano l’intreccio tra tempo noetico, tempo sociale e tempo storico, che cercano di non dissociarsi dalla storia dell’umanità. Perché questa storia dell’umanità non sia “storia sacrificale”, di idoli e vittime: con queste ultime sacrificate sugli altari dei primi.