Ultimo saluto a Giuseppe Stoppiglia

Pove del Grappa, Chiesa parrocchiale di San Vigilio,
giovedì 26 settembre 2019
Letture:
Lettera ai Romani, 8,3-9
Vangelo di Giovanni, 11,17-27

Caro Giuseppe,
sì, caro Giuseppe, incomincerò così, caro Giuseppe, ma non si può incominciare così una omelia.
E per questo l’omelia riuscirà male. Però, questo inizio mi serve per avere presente con chi sto parlando e per chi sto parlando. Non so se lui mi ascolta: ho lasciato a casa i suoi auricolari; non so se Giuseppe sarà d’accordo con questo inizio.
Dice Marta a Gesù: «Se tu, Signore, fossi venuto prima, Lazzaro (Giuseppe) non sarebbe morto».
Però Giuseppe aveva 82 due anni e quindi non se ne poteva aggiungere altri. Aveva già vissuto la sua vita.
Ma Gesù poteva alleviare le sue ferite, poteva alleviare le sofferenze, i sintomi di una malattia che lo imprigionava; Gesù quella volta con Marta si è messo a piangere; e che altro poteva? perché Gesù conosce la condizione umana e sa che non c’è scampo al dolore, alla sofferenza, alla prigione del corpo. E per questo Gesù, conoscendo la condizione umana, si è messo a piangere.

La condizione umana. Però la nostra vita non è per la morte, ma per la felicità. Nasciamo non per la morte, ma per la gioia, lo diceva sempre Giuseppe. Anche Gesù lo dice nelle beatitudini. Per questo ci raccogliamo attorno ai nostri morti, pensando alla vita e ai sentimenti della vita, alle cose che ci hanno unito. Che ci hanno fatto bene. Che ci hanno reso contenti.

I greci scrivevano che gli uomini sono mortali; e la tragedia nasce a fronte di questa affermazione ineluttabile. Noi sappiamo che la morte è un distacco, un abbandono e per noi che restiamo, stiamo lì a guardare per terra e in cielo, se qualcosa ancora si muove. La rigidità della morte. La leggerezza della vita, che però resta difficile, leggera, ma difficile. A meno che gli uomini non la complichino, e allora diventa pure cattiva, sì, proprio così, diventa cattiva.
Adesso per me, e forse per molti che hanno conosciuto Giuseppe, tutto è fermo; come quando aspetti la corriera che porta tuo marito, tuo figlio e la corriera non passa. Tutto si muove, ma il cuore è fermo in attesa. In ansia. E la corriera non passa.

Gesù dice a Marta: «Tuo fratello Lazzaro risorgerà».
E Marta risponde come si trovasse a un esame di catechismo: certo, dice Marta che è vestita a lutto, certo che risorgeremo, ma nell’ultimo giorno; e intanto mio fratello sta lì dentro; Giuseppe sta lì davanti a noi: morto per sempre.
E Gesù insiste, ma cambia discorso; Gesù dice: «Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore, vivrà».
Gesù tenta di aprire una speranza; ma di quale speranza parla? Pare che Gesù salti direttamente il tracciato della vita qui in Terra. E allora la nostra domanda è: dobbiamo forse aspettare fino alla fine del mondo per trovare la vita e la gioia di vivere?
Per questo ogni volta mi chiedo: cosa significa credere? Ma cosa significa credere? Gesù vuol dire a Marta, e lo dice oggi a noi: tu vuoi subito il miracolo, e il miracolo lo avrai, ma intanto fermati, raccogliti, non correre.
Gesù dice: «Chi crede in me osserva i miei comandamenti»; che poi i comandamenti non sono molti; anzi i comandamenti sono uno soltanto: ama il fratello, non fargli del male, prenditi cura di lui, che è inerme e precario.
Credere vuol dire osservare il comandamento dell’amore; credere significa non riporre il proprio cuore nel denaro; credere vuol dire amare la vita degli altri; credere vuol dire amare la Terra che abitiamo; credere vuol dire amare gli altri a costo della nostra vita.
Chi ama la propria vita – dice Gesù – non è degno di essere mio discepolo.
Se questa è la nostra fede, se noi crediamo in queste parole, la nostra vita continua, e continua con un senso alto, che è la relazione, la creatività, l’invenzione, la nuova sapienza.
A quel punto la vita assume nuova qualità; non è un tirare a campare; o meglio non è solo un conservare, arraffare, combattere contro l’altro, che mi ruba il pane, che mi ruba il lavoro. Non abbiate paura diceva Giovanni Paolo secondo.

Oggi noi siamo qui a raccogliere il saluto di Giuseppe, perché vorremmo trattenerlo; ma lui oramai ha combattuto la sua battaglia, con gli uomini e anche con me, che avrei voluto trattenerlo; ma lui desiderava vivere intensamente. A volte chiedeva aiuto, ma non a me, che sapeva incapace; al massimo io ero buono per prendermi cura di lui, ma lui desiderava la vita, la vita di relazione con gli altri, con le persone, con il mondo; per questo amava il Brasile, perché era un paese giovane, pieno di entusiasmo, anche se adesso la crisi politica, economica, lo tiene in scacco.
Quando tanti anni fa ho conosciuto Giuseppe, Giuseppe era un uomo forte; e se sono qui ora a ricordarlo, a commemorarlo, è perché lui mi ha preso per i capelli, e mi ha portato nella strada della vita. La mia allora era una vita tormentata e Giuseppe mi ha fatto conoscere cosa vuol dire vivere; vivere nella serenità, amare le persone, vivere la tenerezza, sapere conoscere la misericordia. Sentire il dolore e la gioia degli altri. Gustare il
cibo della tavola con gli amici; amare la luce del sole e per questo desiderare che anche gli altri abbiano la stessa gioia di vivere; tutto questo e altro vuol dire la vita eterna.
Che cosa è la vita eterna se non la vita che oggi viviamo per la gioia che ci dà Dio Padre che sta in cielo, che ci offre il caldo ed il freddo, la luce e la notte; ma ci offre anche la possibilità di ascoltare i fratelli e di parlare con loro, alla pari; di sentire e di farci carico della gioia e del dolore degli altri. Perché questa è la vita eterna. Poi ci sarà la vita che Dio ci dona, ma la possiamo, la dobbiamo costruire fin da adesso.

A un bimbo al quale dai sempre quel che chiede, quel che desidera, quel che brama, poi si annoia, e non riconosce il bene che gli dai. Così sarà la vita di poi; non è un compenso, ma una nuova apertura, un nuovo orizzonte, una nuova frontiera; ma abbiamo le scarpe per andare oltre.
Nel battesimo siamo stati sepolti in Cristo e risorgiamo con Lui. Questa non è solo una speranza, ma è anche un impegno; dice Gesù: non abbiate paura, non abbiate paura della vita degli uomini e delle donne precarie, inermi. Sono nostri fratelli che vivono di poco e chiedono solo di vivere in pace e giustizia. Questa è la nostra resurrezione. Giuseppe lo ha sempre detto. E ha fatto in modo che le persone fossero consapevoli del senso della loro
vita e delle loro scelte.
Anche nel sindacato non ha puntato solo alle rivendicazioni salariali, ma al senso critico delle scelte di vita; alla qualità della vita, alle relazioni armoniose.
Per questo noi oggi siamo qui, per salutare un amico che resta tra di noi, un maestro che ha messo sempre al primo posto la persona e non la legge, l’amore e non la paura.
Giuseppe me lo diceva sempre: tu Gaetano pensi solo alla legge, dai ragione alla legge; non senti la voce che si alza da Terra.
Alziamo i nostri piedi incontro al Signore che viene.
Beati coloro che ascolteranno la sua voce e metteranno in pratica le sue parole.

Gaetano Farinelli
prete e viandante