C’è un tempo per correre e un tempo per camminare

di Realdi Giovanni

Festina lente

Mani insicure

Osservo una foto di Paul Ricoeur, spentosi pochi giorni fa, ritratto a Parigi nel 2003. È seduto su di una elegante sedia antica, lo schienale decorato con damascato a fiori e alle spalle, sullo sfondo lontano, un ritratto enorme, una scena di caccia, o forse di battaglia. Sembra una delle stanze Vaticane, quelle che si affiancano alla Sistina e che in questi mesi avranno visto il viavai agitato di guardie svizzere e l’incedere (leggero?) di un nuovo pontefice. Chi sa che cosa ha detto il filosofo francese alla notizia di questa importante nomina – mi son chiesto. Avrà osservato il suo interlocutore con l’occhio fisso dei vecchi, magari un arguto giornalista arrivato chissà come, e avrà forse sospirato, con gran delusione dell’astante: ormai la cosa non mi riguarda più.

Ma quest’immagine mi affascina. Un finissimo teoreta e docente universitario, una delle teste pensanti più vive e meno inquadrabili del novecento, una capacità grandiosa di aprire nuovi significati, di introdurre nessi inediti, di catturare sensi non visti: i radi capelli bianchi spettinati, la pelle cadente del viso composto in un’espressione vaga, lontana, il collo della camicia largo e il primo bottone aperto, una cravatta scelta da care mani altrui, una giacca ampia, quasi una versione dignitosamente pubblica di una veste da camera, le mani insicure, un po’ gonfie, grandi, come quelle del mio nonno paterno, in cui la vera sembrava sparire.

Il corpo a settant’anni

Quasi un arrendersi, un ritrarsi, insieme al rimpicciolirsi geriatrico del corpo. Forse dello spirito, o della volontà.

Mi trovavo alla stazione di Padova, una mattina di fine maggio, dopo un caffè con un’amica in partenza. Il traffico premeva, nella strettoia del parcheggio-auto. Costretto all’attesa, mi fermo ad ascoltare i vicini. Scendono da un pesante veicolo della serie vivo-in-città-ma-vedi-mai-che-mi-compro-casa-sui-colli, lei più che quarantenne, leggera abbronzatura, elegante al punto giusto, lui, più che settantenne, il passo insicuro, i biglietti del treno in mano. Lei gira intorno all’auto che aveva già iniziato a parlare da un pezzo, immagino da quando aveva inserita la chiave nell’accensione, all’inizio del breve tragitto. La voce martellante, fredda, rovesciava raccomandazioni sull’uomo, suo padre, fermo fuori, appoggiato alla portiera. Senza sosta. «E tieni i biglietti con te. E non fermarti a parlare con nessuno. Non dare soldi. E poi pettinati. E stai attento quando vai in bagno. Anzi: non andarci proprio – lui la guarda interrogativo – sì, non andarci, che poi ti macchi i pantaloni. Non ti sei accorto, ieri? Avevi una patacca proprio là, all’altezza…, sì, insomma, lì», indicando l’inguine dell’anziano. Lui la guarda e poi si guarda le braghe, lentamente. E non risponde.

Io però devo andare, la coda sfanala. Ripenso alla scena, alla testa dell’uomo, al rallentatore. Alla pazienza cui è fisiologicamente costretto, mentre i sensi lo confondono, il mondo gira troppo in fretta, la reazione dell’impulso dato agli arti si fa attendere, inaffidabile. Penso – me lo permetto – a quell’altra infinita pazienza, di quando lui la cullava nelle notti già calde di maggio, quarant’anni fa.

Giovani per sempre (?!)

In fondo tutta la fragilità di Karol Woytila, impudicamente sezionata dai media di massa in questi mesi, può essere incontrata quotidianamente, lungo i marciapiedi delle nostre città. Ma di queste singole presenze non è bene dar conto. La senescenza allungata del passato pontefice sembra funzionale suo malgrado all’immagine diametralmente opposta: questo è un mondo fatto di risposte, veloci, esatte, puntuali. Bisogna essere lesti, leggeri e scattanti: la mente lucida e rinfrescata dal supradyn, il corpo turgido, sazio di yogurt, pronto a produrre. I lenti avranno la compiacenza di farsi da parte, per lo meno di non intralciare. Guardate al papa, che resiste sempre, che non si sa dove trovi la forza, che va avanti nonostante tutto… Non interessa la sua debolezza, se non come segno di forza, di vittoria. La prima metà del ragionamento – la precarietà – sfugge via, è un pretesto per la seconda: c’è bisogno di giovinezza, di un papa mescolato ai boys. Fermarsi al limite, questo è difficile. Mi son trovato impacciato a rallentare il ritmo del passo, a cercare di non mangiarmi le parole, accompagnando mia nonna per le strade di Padova: accorciare la falcata, perché quel suo, e poi mio, ritmo è in realtà il più bello.

Tengo di fronte agli occhi una vignetta di Altan. Un vecchino seduto su di una panchina, le mani arrotolate al bastone, le spalle cadenti, il naso a penzoloni, come quelli tipici di questo disegnatore: «Non ditemi una cosa di destra o di sinistra. Ditemi una cosa carina».