Il gioco dell’oca delle parole

di Realdi Giovanni

Un malcostume verbale

Segno, simbolo. Valore, principio. Due coppie di parole che condividono una medesima meccanica: la possibilità di essere scambiate, permutate l’una con l’altra, senza apparente dolore.
Nel parlato e spesso anche nella pubblicistica questi termini vengono scambiati, veloci etichette buone per rimandare a un presunto ‘succo del discorso’. Ma dove sta?
I segni dei tempi, dell’epoca che cambia, del malumore diffuso, della nostra fede, stradali, permanenti o sbiaditi, indelebili sulla pelle, condivisi. I simboli dell’occidente, delle comuni radici europee, della nostra cultura ebraico-cristiana, ostentati, traditi, offesi e rappresentati. I valori che ci fondano, che dobbiamo difendere, che ci caratterizzano, che segnano la nostra diversità, superiorità, che non sono più quelli di una volta, che non ci sono più. I principi della vita civile, della Carta costituzionale, della convivenza sociale, richiamati, invocati, smarriti, fatti oggetto di questione, di tutti e di nessuno.
Quattro parole che si muovono: hanno come una vita propria, alata, svolazzano tra gli scaffali dei libri, uccelli variopinti e diffidenti. Poi qualcuno tende loro una trappola: sa che amano posarsi sulle penne stilografiche, sulla macchina da scrivere, sulla tastiera del computer. E qui li cattura! Li prende per il collo e li attacca alle proprie righe, stretti tra le proprie parole. Fermi, inchiodati al terreno, come quelle oche destinate a ingrassare, perché di loro interessa solo il fegato.

Martello senza falci

Fare filosofia col martello: in una certa fase della sua vita, Nietzsche invitava a disfarsi delle «menzogne di vari millenni» e il suo Zarathustra diventa un monito pubblico, perché più che le idee, sono gli uomini a dover essere trasformati. Le certezze dell’intelligenza occidentale vanno smascherate e con loro rivelata la menzogna: non è il concetto a muovere la terra, ma la natura, l’istinto, il coraggio individuale.
Pronipoti niceani, abbiamo ereditato solo due fettine di quel succoso frutto proibito: l’assenza di assoluti e la potenza degli istinti.
E allora, se c’è bisogno di audience, il carisma di mastro lindo rende necessaria una nuova costruzione di assoluti, di Valori, che l’istinto di conservazione spinge il singolo a difendere con i denti da tutti i diversi possibili.

‘Perché lo slogan è fascista di natura’
([D. Silvestri)

A margine delle querelles elettorali, faccio cenno in classe alle questioni discusse in un’assemblea di istituto in cui i ragazzi hanno ospitato due possibili senatori della Repubblica. A me l’ingrato compito di far da mediatore: chiedo ai presenti di farne un’occasione ‘politica’, riprendendo l’aristotelico ‘comando di uomini liberi su uomini liberi’. La discussione è regolare finché non sono i ragazzi a prendere la parola: le prime due domande segnano l’epilogo dell’intera vicenda e sguinzagliano la violenza degli slogan. «Come pensate di accordarvi con chi vuole il matrimonio omosessuale» e «Che cosa farete con gli extracomunitari»: due tra le decine di problematiche sociali, i PACS e l’immigrazione, vengono ridotte ancora una volta a chiacchiera da sala da biliardo. In controluce, dietro alle agitate domandine si intravedono schiere di coppie di gay e lesbiche che invadono i comuni e come gli orchi di Saruman devastano il piccolo orticello del fosso di Helm, sbranando ciò che rimane della normalità, oppure sull’altro versante eserciti di maghrebini e slavi a fatica tenuti a bada da manganelli consenzienti, pronti a realizzare l’unico obiettivo: violentare le nostre donne e occupare le nostre cattedrali.
Insomma, paura.
La senatrice della passata maggioranza non perde l’occasione e aizza il popolo di baby-elettori con la triade sacra famiglia-protezione-occidente. Il senatore ulivista è costretto all’angolo e balbetta una difesa, ma le sue argomentazioni non si rivolgono alla pancia e cadono in terra. L’ottanta per cento plaude alla performance televisiva della signora e attende il televoto.

Aria fritta

In classe non è diverso. C’è una iniziale disponibilità a riprendere in mano i temi discussi in assemblea, ma le tesi non possono essere sottoposte ad analisi, perché più forte è l’intransigenza di chi non ammette, non vuole, non concepisce, non tollera. Azzardo un’ipotesi con i ragazzi: è legittimo considerare difficili, persino sbagliati, alcuni cambiamenti, ed è altrettanto legittimo ritenere che molti sono quelli che non li vogliono, ma è altrettanto necessario immaginare che questi cambiamenti avverranno, inesorabilmente, e lentamente entreranno nella vita comune. Questo pensiero suona minaccioso: il futuro visto così è invivibile, impensabile, colorato a tinte fosche, consegnato irresponsabilmente all’anarchia morale, alla dispersione dei… valori.
Ma che cosa sono questi valori? Luigi Lombardi Vallauri, una decina di anni fa, ci provocava, imberbe gruppo Fuci di Padova: le questioni di cui discorrete, puntualmente declinabili con la ‘a’ accentata (moralità, laicità, ecclesialità, dignità…), rientrano nello spazio dell’aria fritta. Sono parole alle quali non sta dietro alcun oggetto. Non sono segni di alcunché. Aggiungo io: sono unicamente simboli.
Che cos’è un simbolo? È un elemento semantico che nella sua povera presenza rimanda ad altro, apre un immaginario, una serie di percorsi mentali e culturali, emotivi ed esistenziali. Preso per se stesso, il simbolo può anche non dire nulla, come qualsiasi coccio spezzato, di per sé destinato al Secco non riciclabile.
Il simbolo porta in sé una richiesta potente: va tradotto, spiegato, condiviso. Il simbolo è fedele a se stesso solo se apre una conversazione, uno spazio di fiducia in cui chi se ne fa portatore impiega le proprie capacità per rivelare al ‘diverso’ i significati che il simbolo stesso racchiude.

Babele

L’alternativa è violenza. Prendiamo per esempio il crocifisso presente nelle aule scolastiche: è tra gli elementi che moltissimi dei ragazzi che incontro difendono con forza, simbolo di un’appartenenza religiosa al quale non è possibile rinunciare. Ma la paura di perdere questo elemento ha l’effetto di trascinare il simbolo-crocefisso verso il segno-crocefisso e di sovrapporre il secondo al primo: il crocifisso fa parte della nostra cultura, fondata sui valori cristiani, quindi non può essere rimosso. Il crocifisso è un fatto, non va messo in discussione e il perché è ovvio. L’incredibile capacità che ha il linguaggio di creare un ponte tra le persone e la forza dei simboli di costruire luoghi di racconto reciproco vengono abbandonate. Un segno può non essere spiegato, perché deve essere utile, impiegabile ed efficace: non posso chiedermi perché mai e in quali sensi la H mi indica la direzione dell’ospedale o la P la possibilità di sosta dell’auto.
Ma non posso non chiedermi che cosa rappresenta per te un uomo morto in croce, non posso non sapere come mai un odioso strumento di tortura e di morte divengano meraviglioso segno di luce per la tua vita.
Con le spalle protette dai Valori possiamo dar voce alla nostra paura e piantare come chiodi le parole o le immagini assolute: Crocefisso, Vita, Famiglia, Matrimonio, Cultura occidentale. Non c’è tempo per le spiegazioni e comunque ognuno ha il suo linguaggio: le rovine della Torre ci circondano e urliamo per trovare qualcuno che ci capisca.

Mosto e vino

Ma tutto questo non è più di tanto. In fin dei conti la tracotanza di Babele non ha l’ultima parola. Altrove si legge di una difformità di linguaggi che stupisce i presenti, senza atterrirli. La lista è musicale e affascinante: Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, della Frigia, della Panphilia, del Ponto, dell’Asia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei, Cretesi e Arabi. Qualcuno perfino ci ride sopra: saranno ubriachi di mosto e di vino. Se mai sono pieni di spirito gli apostoli che raccontano a tutti, a ciascuno nella propria lingua, la liberazione da loro vissuta. Avranno parlato di valori? Del Valore di Gesù Cristo? Azzardo: no. Gli apostoli hanno conosciuto un ottimo motivo per vivere, IL motivo per vivere: Cristo è assunto come principio, non come valore. Non una cosa alla quale condurre, una verità della quale far oggetto di persuasione, un sistema morale da realizzare, ma un punto di partenza per incontrare il mondo, una sovrabbondanza da spartire, l’ottima occasione per raccontare e farsi raccontare.