Il rumore dell’erba

di Monini Francesco

Uso molto la macchina, ma non ho l’autoradio. L’avevo una volta e, distratto come sono, nel cambiare cassetta nel mangianastri, mi sono trovato con le ruote all’aria.
Da allora, pur amando i suoni e le voci, in macchina sono in compagnia del silenzio. E mi trovo molto bene così. Come mio padre, che l’autoradio non l’ha mai voluta, e mi diceva che nei viaggi in macchina pensava ai suoi progetti di ingegnere e trovava le soluzioni migliori.
Se gli diamo spazio, il silenzio ci ripaga. Mentre i miei occhi seguono meccanicamente la strada, ecco: una immagine lontana che riaffiora, un sogno che torna a galla, un ricordo profumato, un piccolo particolare che sembrava senza importanza, ma che ora cambia radicalmente l’interpretazione che ho dato a questo o a quel fatto. E con il silenzio, tra un tentativo di bilancio e uno scampolo di esame di coscienza, arrivano in fila indiana i volti e le parole degli uomini e delle donne che ho incontrato. Mi parlano in silenzio e io, in silenzio provo a rispondere.

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«Lo sai quando è ora di mietere?» – mi spiegava vent’anni fa Federico, un amico portato via dall’Aids – «Devi andare sul campo, stare in perfetto silenzio e ascoltare: quando il grano è secco e maturo, le spighe agitate dal vento si toccano e fanno tac tac».
Federico, scappato dalla Milano della droga, aveva trovato un provvisorio rifugio in un angolo di Umbria. Lì era diventato contadino, pastore, stalliere e mungitore. Lì aveva imparato a riconoscere i suoni sommessi della natura che il rumore della sua vita randagia aveva fino allora coperto ed occultato.

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Accendo la televisione e sono investito dalle grida. Sarà colpa della campagna elettorale? Macché, l’urlo sembra essere l’ingrediente base della stragrande maggioranza dei programmi.
Urlano – evidentemente è una clausola inserita nel contratto – giornalisti ed intrattenitori. E urlano, ancora di più, gli ospiti: la gente comune che arriva a coronare il proprio sogno di qualche minuto di passerella televisiva. Per l’occasione hanno avvertito parenti, amici e vicini di casa, tutti precettati davanti al video a seguire la performance del loro eroe.
Non si va in televisione per fare bella figura. Si va in televisione semplicemente per essere visti (ricordo in un racconto di Stefano Benni la triste storia di quel povero e derelitto avventore del Bar Sport, il solo in tutto il bar che non era mai stato ripreso dalla tivù). Non importa nulla se l’ospite è goffo, strambo, impacciato, se è vestito come un burino, se parla sgrammaticato. Anzi, compito dei selezionatori è trovare ospiti talmente strani da riuscire a muovere la curiosità e l’ilarità degli annoiati telespettatori.

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Se poi non si trovano persone che rispondano alle caratteristiche, si possono sempre costruire personaggi in laboratorio: scimmie ammaestrate per il grande circo televisivo.
Basta dare un’occhiata ai programmi e ci si accorge che anche gli ospiti seguono un copione. Non sono persone vere di una Italia reale – per una volta, e per fortuna, la realtà è meglio di quanto si vede in televisione – sono invece comparse che recitano a soggetto. Ad ogni comparsa è assegnata una piccola parte: una battuta, una barzelletta, una scemenza, una smorfia.
Succede così che lo stesso ospite che il lunedì, su Retequattro, era un marito tradito ed inconsolabile, lo rivediamo su RaiDue il martedì, magari con un abile cambio di cravatta, nella parte dell’inventore di una rivoluzionaria pentola cuocitutto.

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E i bambini? I bambini sono più che mai gettonati. Una volta la massima aspirazione di due genitori teledipendenti era la ribalta dello Zecchino d’oro, oggi le alternative per raggiungere un briciolo di gloria televisiva si sprecano.
Non è necessario avere in casa un piccolo genio – in quel caso rivolgersi direttamente a Mike Bongiorno – basta avere un figlio telegenico, che non se la faccia sotto e, soprattutto, capace di mandare a memoria il compitino assegnato dagli autori del programma.
Questa, ad esempio, è la domanda rivolta da un bambino di sei sette anni ad una giunonica Anna Falchi nel programma spazzatura Chi ha incastrato Peter Pan?. Chiede il bambino: «Ma al tuo fidanzato (il campione di moto Max Biaggi n.d.r.) piacciono di più le curve della pista o le tue curve?». Risate in sala e falsa sorpresa di Bonolis, il presentatore che con Funari si contende il Telegatto della volgarità.
Chi ha incastrato quel bambino? Chi l’ha convinto a mandare a memoria una battuta, con tanto di doppio senso e di pessimo gusto?
E, visto che si parla tanto di come proteggere i bambini dalla scene di violenza quotidianamente trasmesse, perché intanto non proibire la messa in onda di programmi con protagonisti bambini ammaestrati come quelli di Paolo Bonolis o Carlo Conti?
Resiste stoicamente un programma divertente ed intelligente come L’albero azzurro, amatissimo dai bambini ma che arriva solo una volta alla settimana. Poi c’è la Melevisione. E poco altro. Quel poco che mi trattiene da prendere a randellate il televisore.

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Per fortuna, con buona pace dei programmisti a caccia di scimmiette ammaestrate, i bambini continuano a fare domande. Domande vere e prodotte in proprio. Domande buffe, ma anche domande difficili, scomode, imbarazzanti. Come quando tirano in ballo il nostro comportamento di adulti: è incredibile la loro capacità di cogliere le contraddizioni tra il nostro dire e il nostro fare!
Ma per ascoltare i bambini occorre fare un po’ di silenzio. Spegnere la televisione, chiudere il giornale, interrompere un lavoro, fermare il corso dei nostri importantissimi impegni, sgombrare la mente dai nostri pensieri adulti.
La stessa cosa per gli anziani. Ripetono cento volte la stessa cosa come un disco rotto? Ma forse quella cosa non l’abbiamo mai ascoltata veramente. Forse quella cosa è più importante delle mille novità che ci propina il mercato della vita.

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Non c’è molto spazio per il silenzio.
E, guarda caso, non c’è molto spazio per bambini ed anziani.
Non c’è tempo da perdere, così almeno ci hanno insegnato, perché la vita è una lotta e la Storia incalza.
Eppure questa volta ho buttato via quello che avevo scritto sui grandi avvenimenti riportati dall’informazione: crociate e crociere elettorali, crisi di governo, referendum disertati e italiani sfiduciati. Ho buttato anche le polemiche arbitrali e i grandi interessi delle squadre che si quotano in borsa, le glorie della Ferrari che ammantano di rosso un paese che va sempre più a destra, le mille versioni del terzo segreto di Fatima che rimpiccioliscono un Giubileo che non scuote le coscienze e non tocca il portafoglio.
Mi è tornata in mente una cosa scritta da un poeta. Magari, ho pensato, non era solo una pura fantasia, una bella immagine lirica. Forse è vero che, facendo silenzio, si può sentire il rumore dell’erba che cresce?