L’io vagabondo, l’altro giramondo

di Stoppiglia Giuseppe

Trovarsi nella relazione

«Cercavo il mio ‘io’ e non riuscivo a trovarlo;
cercai allora Dio, ma sembrava che mi sfuggisse.
Cercai allora l’altro e trovai l’altro, Dio e me stesso»
(Saggio orientale)

Dopo l’asina di Baal, il cane
Un gruppo di sufi disse al loro amato maestro: «Vorremmo onorare il maestro che ti ha formato così egregiamente con una lapide. Chi fu?». Rispose: «Il mio maestro fu un cane». E tra la meraviglia generale proseguì: «Un giorno vidi un cane assettato avvicinarsi ad una pozza d’acqua. Ma vedendo nell’acqua limpida la propria immagine riflessa, scappò via spaventato temendo che fosse un altro cane. Più cresceva la sete, più tentava di avvicinarsi all’acqua, ma sempre l’immagine riflessa lo spaventava. Alla fine si decise: tuffò la testa nell’acqua, l’immagine sparì e bevve. Allora capii che fino a quando avessi avuto davanti a me stesso il mio ‘io’, mai sarei giunto a capire Dio» (Gabriele Mandel, Saggezza islamica, ed. Paoline. Una raccolta di quadretti di vita spirituale, legati al mondo dei sufi, i mistici musulmani, espressi in arabo, persiano e turco).

Dal loro patrimonio di sapienza e di fede su Dio, sull’uomo, sulla sapienza, sull’onestà, sull’amore, sulla rettitudine, sull’ascesi e sulla contemplazione, si possono estrarre perle di straordinaria purezza che servirebbero a smentire l’immagine di un islam integralista e fanatico. Il respiro di questi racconti è, infatti, ecumenico, sereno, intenso e pacato. La profondità è la qualità che trasfigura la quotidianità, il mistero santifica ed esalta ogni realtà, riuscendo persino a trasformare un cane in un maestro di ascesi.

La via del cuore
Il padre di Mardocheo – il futuro celebre rabbi di Lechowitz – si lamentava della pigrizia del figlio nello studio. In città giunse un rabbino. Il padre gli condusse Mardocheo perché lo correggesse. Il rabbino volle rimanere solo col ragazzo, lo strinse al cuore e se lo tenne a lungo affettuosamente vicino. Quando il padre ritornò, il rabbino gli disse: «Ho fatto a Mardocheo un po’ di morale; d’ora in poi la costanza non gli mancherà». Quando, ormai adulto e famoso, Mardocheo, divenuto rabbi di Lechowitz, raccontava questo episodio, diceva: «Ho imparato allora come si convertono gli uomini» (episodio tratto dalla narrazione dei Chassidim, gli ebrei mistici dell’Europa centrale, raccolta da Martin Buber). La correzione senza amore è sterile. La ribellione spesso nasce nei figli non per mancanza di cure, di benessere, di doni, ma per assenza di vicinanza, di ascolto, di affetto profondo.

La nostra vita, apparentemente, trascorre tranquilla: una brioche calda, le telefonate agli amici, un momento di pausa, il caffè a metà mattina, il rumore del traffico, i ricordi di quando si era bambini. Sentire che fuori piove, annusare l’aria umida dell’autunno, sentirsi capiti, amare una persona, innamorarsi di un film, comprarsi un libro, regalare un mazzo di fiori, l’odore della torta di mele che cuoce nel forno.

Intanto intorno a noi crescono muri, non solo rappresentati da ideologie inumane, ma muri concreti, fatti di acciaio e cemento, come quello odioso che sta sorgendo in Palestina. Eppure tutta la comunità internazionale, che ha salutato con gioia la caduta del muro di Berlino, oggi non protesta, e non protesta neppure per i numerosi immigrati che muoiono cercando di passare il confine, sia esso italiano, spagnolo o turco.

Possiamo dire, amaramente, che la caduta del muro tra est e ovest, ha rafforzato il muro del razzismo e dell’indifferenza, tra il nord e il sud del mondo?

Uno sguardo dentro la società
La società non sembra più inserita in una dimensione di ricerca della libertà o della giustizia, della convivenza pacifica o dei valori scoperti nel grande disegno democratico. Tutto è cancellato. Siamo chiamati a partecipare ad un grande spettacolo, alla grande fiera della tecnica, a soddisfarci il più possibile.

Le persone non sono invitate a scegliere, a riflettere su certi valori, su certe conquiste, su come cambiare il mondo, ma a pensare che così si sta bene.

Il cammino verso l’infinito, che prima aveva come contenuto la ricerca della perfezione dell’uomo, ora è trasportato sul piano della produzione infinita. Un cammino il più materialista che si possa immaginare.

L’obiettivo principale del ‘pensiero unico’ è impedire ad ogni forma alternativa di farsi strada, di concepire il mondo. Il suo modo di funzionare è una tecnologia del consenso sociale (sondaggi, campagne d’opinione, marketing, statistiche, ecc.). Il mercato, questo essere sordo, cieco e muto, domina la situazione, trascinandoci da un progetto politico che ci consentiva di pensare sul passato e sul futuro, al nulla.

La globalizzazione dell’economia è in buona sostanza la privatizzazione del mondo e che un mondo privatizzato non solo crea disuguaglianze enormi, ma anche disperazione solitaria. Non c’è più un interlocutore ‘pubblico’, ma una banda privata che governa dietro la finzione di una bandiera nazionale.

I precetti del consumo soffocano la partecipazione e distruggono la responsabilità e quando diminuisce la vita interiore, cambia la qualità interna di una comunità, cambiano i rapporti, si esaltano le espressioni esterne della vita. Tutto diventa immagine, la priorità è consegnata all’apparire.

Per superare una politica della forza
Possiamo dire quindi che la politica è finita? Che è finita la ricerca di una società più giusta e di una partecipazione cosciente del popolo?

Evidentemente no, ma la politica in questi tempi ha bisogno di elaborare un nuovo modo di pensare. Sta riproducendo, ormai senza controllo, il male da cui dovrebbe proteggerci: disordine, violenza, paura. Sono impostazioni patologiche, sono il delirio dell’egoismo umano. Per un nuovo modello di vita pubblica occorre una rigorosa critica della potenza, una rinuncia consapevole al mito della forza.

Sta esaurendosi il significato profondo di quella che veniva chiamata la politica dei moderni, quel vero e proprio ‘paradigma’, fondato sull’idea che dall’uso monopolistico del male – la forza concentrata nelle mani del sovrano – possa derivare un bene collettivo: la sicurezza, la pace, l’ordine sociale.

Per ritrovare la politica perduta sarà necessaria un’operazione simile a quella che la teologia contemporanea ha compiuto con Hans Jonas, nei confronti dell’idea di Dio dopo Auschwitz: una sorta di ‘abbassamento’, una rinuncia alla enfasi sui mezzi di potenza.

Addirittura, una critica esplicita della categoria stessa di potenza (fonte dei mali più che strumento delle soluzioni), a favore invece di logiche ‘altre’: cooperative, connettive, relazionali.

Una domanda sul futuro
«Giuseppe – è la domanda accorata di un giovane insegnante di filosofia – come si può far capire ai giovani che le fregature peggiori non sono le mancate realizzazioni delle utopie, ma la rinuncia anticipata a immaginare utopie, che poi per i giovani vuol dire immaginare quel futuro che li riguarda, da cui non possono assentarsi, e tutto questo in una scuola disastrata, come quella italiana, che affida l’educazione alla buona volontà di alcuni insegnanti?».

Rabbrividisco. Fermo il pensiero, scavo nell’anima, cerco una risposta, che fatica ad arrivare. So, però, che non servono prediche, scomuniche, lamenti, ma servono lealtà e umiltà, come sempre nei processi educativi.

Chi e che cosa può impedire oggi ai giovani di immaginare nuove utopie?

Il filosofo e psicanalista argentino, Miguel Benasayag, con un’intuizione intelligente afferma: «Oggi le crisi dei giovani – e questa è la novità – avvengono in una società essa stessa in crisi. Che succede allora quando la crisi non è più l’eccezione alla regola, ma è essa stessa la regola della nostra società?».

Credo proprio che della disillusione dei giovani siamo responsabili noi adulti, che, aderendo incondizionatamente al ‘sano realismo’ del pensiero unico, incapace di volare una spanna oltre il business, il profitto e l’interesse individuale, abbiamo abbandonato ogni vincolo di solidarietà, ogni pietà per chi sta peggio di noi, ogni legame affettivo che fuoriesca dallo stretto ambito familiare.

Il sociale è considerato un ostacolo, una scoria patetica, il cui costo è causa di regresso e di crisi, anche se poi, come dice Umberto Galimberti, «andiamo ipocritamente predicando i diritti dell’uomo con un’enfasi che trascura di intervenire concretamente sulla fame, la sete e le malattie dei diseredati…Il comportamento e l’indifferenza di noi adulti, contrabbandata per impotenza, minacciano di far apparire come ‘naturali’ quelle stratificazioni massicce di sofferenza, che invece sono l’effetto del nostro egoismo collettivo, che ci tiene lontani dalla giustizia e quindi dalla buona coscienza.

Tutto ciò, inevitabilmente lo trasmettiamo ai nostri ragazzi, che non leggono in noi nessuna tensione ideale, nessuna visione utopica che sappia guardare il futuro ai di là della semplice sistemazione dei figli… quasi non fosse loro interesse diventare adulti e, invece di inserirsi, dare un nuovo volto alla società».

Una risposta nella relazione io-tu
La gioventù avrà sempre bisogno di guide, ma la direzione vera è quella di trasmettere la capacità di leggere gli avvenimenti e farli occasione di libertà, stimolando a cogliere negli avvenimenti stessi l’offerta che racchiudono.

Come si insegna questo? Non si insegna, si comunica. «Venite e vedete», dice Gesù. Chi con la propria vita fa vedere che sa andare incontro all’avvenimento con ottimismo e con la speranza di uno che attende da tempo qualcosa, e prima di tutto la liberazione, costui è veramente una guida per la gioventù.

La parola umana che passa tra noi, dall’uno all’altro, non è un semplice strumento per passare delle informazioni, meno che mai per comandare, per manovrare o utilizzare l’altro. La parola umana qualifica l’umanità. La parola vale, se umanizza gli uni e gli altri.

«Lo Spirito non è nell’Io, ma tra l’Io e il Tu» – dice Martin Buber. Lo spazio tra l’io e il tu è il luogo dell’incontro, dell’uscita dalla solitudine, dell’accoglienza che salva dal nulla, della reciproca realizzazione e valorizzazione. Lì anche il soffrire è possibile con una prospettiva, lì sperimentiamo la maggior gioia possibile. Lì è ogni verità umana e ogni più grande verità.

«Dio è nell’incontro di due sguardi, Dio è un bacio» diceva il monaco Benedetto Calati. E chi non crede in Dio, sa che nella comunicazione vera, che è il reciproco riconoscimento, c’è la nostra verità. Dunque il problema di una comunicazione etica e giusta è il problema della verità. Non si tratta di una verità somma e ultima, a cui tendiamo come orizzonte del cammino, ma della verità minima indispensabile, che è il dire la verità.

L’educazione del cuore
L’uomo non pensa solo con la testa, con la ragione, ma pensa con la sua sensibilità, con il suo corpo, che è la parte più importante dell’uomo. La condizione predominante dei giovani, non tutti naturalmente, sembra oggi essere quella di un’insufficiente educazione emotiva. Dove i gesti non diventano stili di vita, le azioni si esauriscono nei gesti. Non è stato insegnato loro come mettere in contatto il cuore con la mente, la mente con il comportamento e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono su di loro. Quando la tempesta emotiva si abbatte sul loro cuore, ormai arido perché poco irrigato, tutto si complica, una specie di macigno comprime la vita emotiva, impedendole di entrare in sintonia col mondo. Quelle connessioni che fanno di una persona un uomo o una donna non si costituiscono e perciò nascono biografie capaci di gesti tra loro così slegati da non essere percepiti neppure come propri. Da qui il sorgere di quella solitudine, che li rende cinici e disfattisti.

U. Galimberti aggiunge: «I figli, come gli animali, sentono quando c’è la paura dei genitori, e, quando non c’è, sentono il loro sostanziale disinteresse emotivo. Soli da piccoli, affidati alla televisioni o alle prestazioni delle baby sitter, questi figli del benessere e della razionalità, crescono da prima con un cuore tumultuoso che invoca attenzione emotiva, poi, quando quest’attenzione non arriva, giocano d’anticipo la delusione e il cinismo, per difendersi da una risposta d’amore che sospettano non arriverà mai».

La società consumistica per conservarsi ha bisogno che l’uomo sia solo. Ha paura dell’amicizia, delle riunioni. L’uomo per poter essere docile e obbediente alle esigenze di mercato ha bisogno di non pensare, di non riflettere, di non ragionare con gli altri, quindi di vivere e di essere solo.

Ritorno, per concludere, alla domanda intelligente, anche se accorata, del giovane amico, insegnante di filosofia. Quando si vive e si cammina a fianco dei giovani occorre essere coraggiosi e soprattutto positivi. Saper ascoltare in silenzio, evitando la tentazione facile di dare buoni consigli. Loro sanno individuare immediatamente chi li ama.

Questo nostro mondo per loro è troppo inaridito e insensibile, troppo ‘materializzato’ e malato, aspettano perciò accoglienza e soprattutto tenerezza. Senza illusioni e senza speranze, che sono le prerogative dell’età giovanile, prende dimora in loro quel presente disincantato che non guarda né avanti, né indietro, ma semplicemente si trattiene in quella prudenza che spesso i genitori scambiano per saggezza, ed invece è semplicemente paura, neppure riconosciuta come tale, perché appena si affaccia, è subito ricacciata nel sottosuolo delle loro anime.

Pove del Grappa, novembre 2005