Una strada a ritroso: dalla libertà assoluta alla responsabilità politica

di Stoppiglia Giuseppe

Il difficile compito dell’educatore

«Anche se i muri sono alti
il cielo è sempre più alto».
[dal film “Viaggio a Kandahar”]

«L’uomo viene al mondo
con i pugni stretti,
come se dicesse
tutto il mondo è mio;
e se ne va con le palme aperte,
come se dicesse: vedete,
non prendo niente con me».
[Talmud]

Incontri
Il mio amico Silvano è pieno di fantasia, di sogni, di inventiva. Avrebbe tutto per essere felice, ma è tentato, assillato dalla ricerca del successo, vuole sfondare, fare mille progetti, il Maurizio Costanzo Show, il contratto con la Mondadori, il teatro/cabaret, la fondazione di una casa editrice indipendente… I valori cui aspira — e che realizza nei suoi scritti — sono annebbiati dall’etica dominante. Silvano si vergogna di essere ingenuo, un sognatore, un cantastorie: vorrebbe essere considerato un furbo. Perché ingenuo non suona più come libero, genuino, autentico, ma come inetto e fallito.
I due giovani arruolati nella polizia sedevano in faccia al tramonto sulla scalinata di Piazza maggiore a Bologna. Bei ragazzi, del sud naturalmente, sani e diritti, buoni sentimenti e tutto il resto. Restammo un’oretta buona a chiacchierare, era fresco e consolante quel loro modo di sentire, così retto, così integro. Come saranno da qui a vent’anni? Signore, non permettere che oscurino le loro coscienze e proteggi le loro vite.

Responsabilità e individualismo
La responsabilità è una certa qualità della persona, come uno spessore dell’anima che si manifesta nella serietà della vita, nella coerenza che caratterizza le scelte cui una persona appare fedele fino alla fine.
Oggi si parla molto di responsabilità, con la speranza che diventi un termine attraente, capace di cancellare l’attrattiva del denaro; ma il centro dell’azione educativa è rappresentato dal benessere individuale.
Mentre trenta, quarant’anni fa vigeva l’assunto pedagogico: «Tutti si devono sacrificare per il bene della famiglia o del gruppo (partito, chiesa, associazione, azienda, sindacato)», per cui il soggetto era completamente modellato alle esigenze del gruppo in cui si trovava inserito, oggi tutto è centrato sulla felicità dell’io.
Ogni educatore è chiamato a guardarsi attorno, ad assumere la responsabilità degli altri. Che cosa fare? Non dobbiamo cercare subito qual è il progetto concreto perché ricadremmo nel tranello delle ideologie, ma cercare di interpretare il cambiamento in atto per poter incontrare chi (i poveri, i giovani, i “senza terra”) va in cerca di vita. Oggi la sola etica che esiste è quella che nasce dalla società e raggiunge la coscienza di ciascuno.
Un punto di riferimento fragile, l’individuo Il punto di partenza mi sembra debba essere indicato nella fine delle grandi ideologie, che rappresentavano sì un condizionamento delle persone, del loro modo di pensare e di vivere, ma anche un punto facile e comodo di riferimento.
La fine delle ideologie totalizzanti non ha semplicemente lasciato un vuoto, ma ha segnato una restrizione dell’orizzonte della vita, della maniera di pensarla e di guardarla. Venuto meno un quadro totale e globale, l’unico punto di riferimento obiettivo è rimasto l’individuo e il suo mondo.
Un punto su cui porre l’attenzione è proprio l’esperienza della scissione della persona. Una scissione che si può collocare tra razionalità calcolante da una parte, una razionalità tecnologica più che scientifica, ed il vissuto emotivo e affettivo delle persone. In altre parole, si potrebbe dire che all’agire non corrisponde sempre una partecipazione piena della persona, così da poter parlare di una scissione fra intelligenza ed emotività, fra verità e libertà, fra intenzione ed azione, per cui è difficile partecipare intensamente, con passione e forza a quello che per altri versi è l’orizzonte della vita. Questo ha dato origine ad una grande debolezza emotiva e relazionale, una fragilità, come si ama dire, che nient’altro è se non la fatica di appassionarsi a qualcosa, e genera una frammentazione della persona, una crisi di identità e una crisi dell’impegno. Questa scissione, inoltre, non poteva non impoverire di toni affettivi anche la partecipazione sociale. Uno non avverte, infatti, nella partecipazione ad un impegno, la bellezza, la passionalità, il fascino di quello che sta facendo.
Il tempo, oggi, non è descritto secondo un paradigma di continuità: passato, presente e futuro, dove il passato fondi il presente, che anticipi nella scelta il futuro che verrà. Il tempo è visto, più che come continuità, come salto, come rottura. Oggi è così, domani è diverso. Il futuro non dipende dal presente, e il presente dipende unicamente da me, non dal mio passato. È chiaro, perciò, che questa scissione rende difficile l’impegno, rende difficile la durata o, in termini etici, la fedeltà.

Libertà assoluta e
illusione/delirio di onnipotenza

Un altro dato da sottolineare è l’illusione della onnipotenza. Nel passato l’onnipotenza umana era legata alla scienza, alla tecnica, alla capacità di costruire, di dominare, umanizzare il mondo. Oggi l’illusione dell’onnipotenza è legata all’esaltazione assoluta della libertà, come centralità dell’io, alla riscoperta di aree poco considerate, il corpo, l’amore, le debolezze, oggi rivendicate come spazio di libertà.
La felicità dell’individuo è la giustificazione etica che serve a capire ogni cosa. Ogni persona ha il diritto di essere felice, anche se, di fatto, andando a guardare questo esercizio della libertà, l’illusione appunto della onnipotenza, si tratta di un gioco di prestigio: uno è libero di scegliere quello che vuole nel quadro che gli è dato, senza mettere in discussione il quadro, che resta quello che è.
L’esaltazione dell’individuo contro ogni pressione sociale è stata una delle ragioni, non piccole, del Sessantotto, dove l’individuo con le sue pulsioni, i suoi desideri, il suo mondo interiore, andava esaltato. Ecco allora l’autonomia e la spontaneità. «Di fatto ­ scrive E. Fromm ­ l’autonomia ha finito per ledere le ragioni di stare insieme e per produrre un’enorme solitudine». Tanto autonomi da essere soli, e la solitudine è uno dei peggiori mali del nostro tempo.
In questo contesto di illusione della onnipotenza, della persona libera, dell’autonomia fino alla solitudine, della spontaneità fino all’affermazione del proprio punto di vista come unico, si genera l’aggressività, l’insofferenza per l’altro come mio limite. Produrre una relazione richiede grande fatica, mentre quel principio di felicità è diventato felicità consumista.

Individuo e società:
un rapporto lacerato

Infine un terzo dato da considerare è la constatazione di un tessuto civile lacerato. Lacerato significa che vi è una distanza tra le attese individuali e le proposte sociali. Ciò che le persone si attendono non è sempre, anzi quasi mai, quello che la società offre. Ad esempio se il pluralismo ha un aspetto positivo perché permette di prendere atto della varietà, della molteplicità, della profondità di una realtà, di una vita, dobbiamo anche dire che il pluralismo ha fiaccato, a volte, la capacità della persona di mettersi, con il proprio mondo di valori, a contatto con la società; anche perché di fatto ci troviamo di fronte ad un pluralismo non supportato o alimentato dalla società, che ha i suoi criteri di valutazione sui comportamenti umani; e gli unici criteri di valore così importanti da meritare oggi l’attenzione della società sono quelli economico­produttivi. Gli altri valori sono indifferenti e vengono relegati nella sfera privata.
Quale percorso educativo In questa situazione di fatica educativa occorre assumere la persona, meglio ancora l’individuo ed i suoi problemi, le sue esigenze, come criterio progettuale sul quale educarci a convergere. Assumere la persona, l’individuo, non come oggetto delle dinamiche sociali, ma come soggetto.
La vera traccia di Dio su cui bisogna mettere i giovani è quella della responsabilità verso gli altri.
Scrive Balducci: «Il patto con Dio consiste nell’assumersi la responsabilità dell’universo… su questa soglia l’uomo arriva a porre non più l’antica domanda: “Noi uomini, chi siamo?” ma l’altra domanda: “Che cosa vogliamo essere?”. È questa la domanda finale, il senso ultimo della evoluzione dell’universo».
Dobbiamo imparare a pensare nella linea della giustizia e non dell’utilitarismo, tornare a mettere al centro della nostra fede la giustizia e non la verità. La giustizia è verità, ma c’è anche una verità che non è giustizia ed è quella staccata dalla realtà e dall’uomo.
È ormai voce comune, purtroppo, che la qualità che può motivare in un giovane un indirizzo di vita non è certo la responsabilità, ma piuttosto l’abilità di trionfare in un’area di competizione e rivalità, riuscendo ad impadronirsi del segreto di come, nel minor tempo possibile, si possa conquistare una fortuna capace di farti emergere sugli altri.
Chi dunque vuol fare fortuna, chi vuole emergere, esce dall’ambito politico e passa all’economico. L’ideologia liberale ha ispirato la formazione di uomini responsabili finché il valore della libertà non è stato furbescamente trasferito dalla sfera politica a quella economica, operando, in un tempo brevissimo, un capovolgimento tale per cui il rigore giuridico, proprio della società liberale, è naufragato. L’unico ente libero nell’Occidente è il capitale.

Educazione cristiana
e religiosità cattolica

Compito di un’educazione cristiana sarebbe quello di separarsi dal progetto liberista attuale, come idolatrico, antiumano, intrinsecamente corruttore, e diffondere l’idea dell’uomo responsabile.
È possibile? La religiosità cattolica raggiunge ogni ambito del vivere, ma rassomiglia più ad un fast­food che dà risposte all’immediato e rimanda le cose ultime (il senso della vita e della morte).
Le sue offerte sono così molteplici e così alla portata di mano che sembrano fatte per eliminare l’iniziativa personale di un incontro vero con il Dio Vivente.
Il nostro tempo è caratterizzato da molta religiosità che non dà il frutto essenziale, che è quello della speranza. L’indistruttibile fedeltà di Dio al patto di alleanza appare nascosto, se non cancellato, sotto nuove forme devozionali, iniziative che attraggono la gioventù per la loro somiglianza con altre convocazioni, per tutt’altri scopi.
Trovo nel mondo cattolico un’imitazione del metodo consumistico: pensare per i giovani iniziative piacevoli, sempre rinnovabili, per tenerli desti e vigilanti nell’attesa di altri programmi sempre nuovi e insieme sempre gli stessi. Il giovane che, avvertendo il bisogno di essere responsabile della propria vita, vuole uscire dalla danza, non trova una vera alternativa.

Responsabilità è…
Vivere con responsabilità è veramente “altro”. Altro dal consumismo, dalla discoteca; altro dalla religiosità immaginata dai preti, vescovi e cardinali, ma è quanto Dio ripete ad ogni uomo, quello che disse a Mosé: «Io sono con te».
La responsabilità è solo questo: un fatto, un impegno, preso da Qualcuno che chiama, che promette, che libera. La religiosità che oggi viene programmata interessa ed entusiasma, può convocare folle di giovani, senza vera risposta al profondo, lacerante dolore dei poveri, quelli che pagano duramente, con la loro stessa vita, i nostri lussi, l’impiego spensierato del denaro, giustificandolo con il “fare cose buone”. La responsabilità è per un credente il sì, irrevocabile, detto al Dio dell’Alleanza.
La cultura oggi non esiste più perché dominata dall’interesse di far crescere il denaro e questa crescita provoca non solo la degradazione dell’uomo, che da povero diventa misero, ma anche la degradazione di quelli che si chiudono in quartieri riservati, dove per entrare bisogna presentare la carta di identità. Questi sono gli schiavi della paura, che difendono la loro presunta libertà con l’esclusione.
Come educatori non abbiamo il compito di divertire i giovani, ma quello di farli responsabili di una storia. Solo lì potranno incontrare la gioia di vivere, gioia che si può trovare unicamente entrando nei conflitti e nelle contraddizioni della vita sociale.
Pove del Grappa, settembre 2002