Ancora sul dialogo interculturale… per finire

di Demarchi Enzo

Torno ancora una volta – per finire… se ne sarò capace – sul dialogo tra persone appartenenti a culture diverse (in concreto: europei e brasiliani), ricollegandomi a quanto già scritto in Madrugada n. 16 (aprile 1995), pp. 5-6. Avevo allora fatto notare che dei differenti modi di intendere l’esperienza umana, mi sembrava che i brasiliani privilegiassero il fatto di viverla soggettivamente, gli europei invece quello di pensarla oggettivamente. Ora, questi due modi di intendere la comune e fondamentale (e identica) esperienza conoscitiva e comunicativa dell’uomo si riflettevano puntualmente nel modo di parlare: linguaggio inteso soprattutto come comunicazione di qualcosa (europei) e linguaggio come comunicazione di qualcuno a qualcun altro (brasiliani).

Io-tu e io-ciò
Davvero, parafrasando il filosofo del dialogo, Martin Buber, la parola fondamentale (Grundwort) del brasiliano è “io-tu” (relazione tra persone), quella degli europei è “io-ciò” (relazione soggetto-oggetto). È dalla gamma dell’intersecarsi e del divergere di questi aspetti del parlare che si manifesta quel diverso atteggiamento nei confronti dell’esperienza umana da cui deriva una differente modalità culturale. È una specie di intenzionalità profonda che caratterizza la persona, manifestandone, oltre che la visione-percezione, il gusto e il sapore della realtà nel suo aspetto oggettivo (modo in cui si presenta in sé la persona) e nel suo aspetto personale (modo con cui la persona la accoglie e si colloca in essa). Anche qui bisogna però fare attenzione a non irrigidire le differenze in contrapposizioni, quasi che i brasiliani siano incapaci di parlare oggettivamente della realtà o che gli europei trascurino il fatto di rivolgersi a delle persone. Più semplicemente si potrebbe dire che il nostro parlare, anche trattando di persone, tende a evidenziare “cose”; il loro parlare, anche trattando di cose, tende a evidenziare “persone”. È chiaro che si tratta di evidenziazioni o sottolineature; in realtà i due aspetti non si possono separare.

Parola positiva e parola simbolica
A questo punto, fissando maggiormente l’attenzione sulla “parola” del linguaggio umano comune, potremmo rilevare una caratteristica di particolare importanza: noi europei facciamo di preferenza uso della parola positiva, mentre i brasiliani fanno spontaneamente uso della parola simbolica. La parola positiva dice rigorosamente ciò che una cosa è per se stessa; quella simbolica dice sempre anche “altro” da ciò che la cosa è, scoprendo in essa legami e riferimenti col “tutto” del mondo e della vita, col mondo delle persone, col mondo delle realtà invisibili…
E poiché oggi, nell’ambito culturale dell’Occidente, è la parola positiva a trionfare, intendendo i gradi del sapere come un’ascesa al punto culminante della “ragione scientifica”, non sarà male insistere sul valore della parola simbolica.

Tempo e corpo
Così, per esempio, parlare del tempo in modo simbolico vuol dire (al di là della misura-calcolo degli orologi e dei calendari, al di là della misura-calcolo del tempo cronologico o astronomico) farne un vissuto, qualcosa che dice costantemente riferimento a stati d’animo, attese, desideri, paure dell’uomo. Così pure il corpo non è solo strumento-macchina per prestazioni varie, non è solo “cosa estesa” in opposizione a “cosa pensante” (mente), ma anche parabola vivente dell’io, espressione viva e originaria dell’essere personale in solidarietà e simbiosi col corpo dell’universo. “L’uomo ha in comune l’esistere con le pietre, il vivere con le piante, il sentire con gli animali, il ragionare con gli angeli”, diceva una massima antica, ripresa dalla filosofia-teologia medievale e compendiata dalla filosofia umanistico-rinascimentale nella nozione di microcosmo. Coniugando poi tempo e corpo arriviamo a quella formidabile espressione umana che è la musica e la danza, regno per eccellenza del “simbolico”. Come dimenticare, a questo proposito, l’apporto culturale dato dai negri nelle Americhe a questo mondo espressivo-creativo dell’uomo?
Pur riconoscendo il valore della parola positiva nel campo scientifico-tecnico e operativo-produttivo, occorre dire – e gridare forte, se necessario – che quando viene emarginata la parola simbolica, ci si appiattisce inesorabilmente sull’unidimensionalità dell’esistenza, traendo il significato stesso del parlare-operare oggettivo. La parola positiva, infatti, è possibile in quanto la realtà viene ricondotta nell’ambito dell’osservazione sensibile e della razionalità, ma questo è solo un ambito della coscienza umana, che ne comprende molti altri: basti pensare a parole originarie come quelle della meraviglia, della preghiera, della speranza, della creazione artistica… rientranti tutte nel genere della parola simbolica. La verità delle cose deve sempre essere riconosciuta come oggettiva e inventata, scoperta come personale.

Semplicità di relazioni
Da queste scarne riflessioni teoriche – poche variazioni del tema fondamentale dell’esperienza umana nella sua veste soggettiva e nel suo contenuto oggettivo – passo ad alcune annotazioni ricavate dai ricordi del vissuto in terra brasiliana. Le relazioni personali dei brasiliani, una volta superata la timidezza, erano più immediate delle nostre e d’una semplicità davvero disarmante. Davanti a loro ci ritrovavamo infatti armati e bardate di strutture logico-concettuali e di volontà di azione pratica. Ho accennato alla timidezza perché la nostra franchezza, chiarezza, decisione – qualità che riconoscevano e stimavano – diventava talvolta qualcosa di pesante, per non dire “brutale”, nei confronti della loro sensibilità, estremamente attenta alle reazioni emotive della persona. Verrebbe la voglia di dire che noi eravamo troppo ricchi di “super-ego”, troppo squadrati nelle nostre tradizioni di pensiero che, senza volerlo, diventavano impositive.

Istinto-ragione e sentimento-intelligenza
Penetranti e delicati nel saper cogliere gli stati d’animo, si manifestavano invece un po’ allergici al “nostro” senso di disciplina, ordine, efficienza. Mentre noi separiamo con facilità l’istinto dal sentimento (col risultato di un’aggressività naturale nel dibattere e sostenere idee) trasferendo una carica istintiva alla ragione calcolatrice in fatto di organizzazione e di tecnica nell’esecuzione di un lavoro, in loro appariva viva la sintesi sentimento-intelligenza, riuscendo tante volte più intuitivi (e meno metodici) di noi. Per questa loro capacità cordialmente intuitiva, erano più pronti di noi a captare valori e a commuoversi di fronte a certi ideali, a penetrare e comprendere realtà psicologiche e condizionamenti sociologici, a vivere-pensare-agire con e per gli altri, a interessarsi con grande versatilità ai più svariati argomenti e progetti…

Versatilità e instabilità
Questa versatilità e vivacità aveva la sua contropartita in quella che noi denunciavamo come instabilità o incostanza quando si trattava di affrontare con metodo e di cercare la soluzione di problemi di ampio respiro. Tale incostanza era più che altro uno smarrirsi di fronte a cose e ad azioni che non davano sufficiente spazio al sentire della persona. Allo stesso modo, quando sembrava si stancassero facilmente di una serie di ragionamenti complicati, non era la serietà del discorso che veniva rifiutata, ma la sua forma logica priva di mordente emotivo: il discorso “maìçante” (una mazzata! Interessanti al riguardo i termini spesso sinonimi di “aborrecedor”, “amolador”, “chato”, “arrazoador”, per dire la noia, il fastidio, la sciatteria di chi parla infilzando un ragionamento dopo l’altro). Quando invece gli obiettivi venivano umanizzati, “personalizzati”, si assisteva a una commovente generosità, capacità di sacrificio, perseveranza nell’impegno. Del resto, quando si parla di incostanza o instabilità, bisogna anche saper vedere il rovescio della medaglia, cioè una grande capacità di accettare, di amalgamare tutto in sintesi nuove, impensate, creative. Aspetti negativi (incostanza, instabilità) e positivi (intuizione, versatilità, gusto del nuovo) sono egualmente derivanti da fattori sempre presenti, che non dovremmo mai dimenticare, quali la storia del colonialismo, l’eterogeneità e la fusione razziale, ecc.

Lavoro e amicizia
Ci sono due realtà che i brasiliani non riescono facilmente a dissociare: lavoro e amicizia. Noi siamo abituali a un lavoro frutto di calcolo in vista della resa obiettiva e del profitto individuale. Il loro senso della gratuità e della “convivenza” li induce invece a fare anche del lavoro un’azione finalizzata al vivere insieme. L’aiuto gratuito che più persone si scambiano tra loro in occasione di un dato lavoro (raccolta, preparazione di un campo per la semina, costruzione di una o più case) che risulta a vantaggio di uno solo o di pochi, i quali per tutta ricompensa provvederanno semplicemente alle spese di una festa o di una celebrazione comune (anziché pagare “secondo giustizia” i singoli lavoratori), è un’abitudine di derivazione india ancor molto radicata nell’animo della gente semplice (“mutirão”). Giustamente chi ha scelto di “rinascere latinoamericano” (cfr. P.Casaldáliga-J.M.Vigil, Spiritualità della liberazione, Cittadella Ed., Assisi 1995, p. 28) fa notare che “tutto (in America Latina) favorisce quell’atteggiamento di gratuità che il supertecnicizzato Primo Mondo scomunica così superbamente… o rimpiange tanto […]. Ogni politica o movimento sociale che siano veramente qualcosa di nostro (latinoamericano) potranno sì volere la modernizzazione legittima, la trasformazione economica o la programmazione delle imprese, ma dovranno pure salvaguardare a ogni costo la nostra gratuità e la nostra ospitalità senza sacrificarle agli idoli dell’individualismo, dell’efficientismo e del profitto” (o.c., p. 99-100).

Sostanza e modi personali
Nei rapporti con i brasiliani sembrava talvolta a noi europei che badassero più alle maniere (del dire e del fare) che alla sostanza delle cose, senza distinguere ciò che obiettivamente esige sincerità, lealtà, responsabilità.
Sennonché, anche qui, per loro il modo con cui si parla o si agisce è immediatamente espressivo della persona e della sua intenzione nei riguardi dell’altro. Anche nella pratica di certe “convenzioni” (il saluto rituale, il fermarsi a conversare senza fretta…) il brasiliano coglie l’attenzione della persona, per cui i “modi” di comportarsi non sono mai qualcosa di puramente convenzionale o di moralmente dovuto. Così una franchezza senza considerazione di chi ci sta davanti sarà scambiata per brutalità; la lealtà senza riguardi diventa duro legalismo; la responsabilità che non guarda in faccia alle persone, un moralismo gretto e miope. Per i brasiliani è difficile intendere una “sostanza” ridotta a “cosa”, fosse anche la più sublime. Quella che noi diciamo sostanza non può esimersi dalla verità dei “modi” personali con cui viene accolta ed espressa.

Sincerità
A proposito poi di sincerità, per noi, come al solito, essa è una cosa da dire o da manifestare; per loro un atteggiamento da vivere nei riguardi di un altro. Da parte nostra si lamentava la suscettibilità brasiliana, da parte loro la nostra durezza. La suscettibilità era la reazione esagerata di una sensibilità indifesa, la malattia di un cuore troppo scoperto, e questo i brasiliani lo sanno bene. Quello che anche noi dobbiamo sapere è che abitualmente difendiamo il nostro “intimo” con una corazza di cui sembra che i brasiliani non dispongano (torna in ballo il… “super-ego”). Così, ad esempio, le nostre ironie, con un certo distacco e pesantezza di toni nei confronti della persona, possono essere facilmente fraintese e feriscono gravemente. Il brasiliano è suscettibile anche di fronte a verità che implicano giudizi perentori e rigide discriminazioni. In ogni caso, gli sarà estremamente difficile accettare, riconoscere per vero ciò che offende la persona perché detto senza riguardo, in maniera sfrontata o anche solo sgarbata.

… per finire, riassumendo…
Nelle osservazioni teoriche e in quelle relative a comportamenti e atteggiamenti pratici, tutto il discorso gira intorno ad una distinzione fondamentale che si potrebbe così riassumere: in ogni dialogo occorre saper coniugare i pensieri razionali (pensieri della testa) con i pensieri umani (pensieri del cuore). Oppure, in termini più intonati al dialogo interculturale: alla riflessione sulle cose bisogna costantemente associare il rispetto delle persone. Si raggiungerà così quella completezza e profondità umana indispensabile alla conoscenza di una verità che sia dimora comune del “sé” e dell'”altro”.