Cartoline d’estate

di Monini Francesco

Dove eravamo rimasti?
Alla penultima guerra.
Ma mi ero sbagliato. Il seme della guerra attecchisce ovunque, incurante del solleone. Dopo il Kosovo (dopo?), e mentre milioni di italiani cercavano un posto al sole ingolfando le autostrade, c’è stata la guerra interna (interna?) in Russia: invio di truppe e stragi nel Dagestan ribelle. La guerra continua, ma i giornali hanno smesso di parlarne.
Poi, ai primi di settembre, tra un terremoto e l’altro, inizia la rappresaglia (leggi: genocidio) delle milizie indonesiane a Timor Est. Un’altra tragedia annunciata, visto che tutti sapevano che le elezioni avrebbero dato una schiacciante maggioranza agli indipendentisti. E tutti sapevano che la vittoria dei sì avrebbe scatenato le truppe regolari ed irregolari di Giacarta contro gli abitanti della ex colonia portoghese. Ultimi innocenti a morire – è sul giornale del 10 settembre – quaranta volontari della Caritas.
Tutti sapevano – sono almeno vent’anni che la lotta per l’indipendenza di Timor Est è sulla ribalta internazionale – ma nessuno ha mosso un dito per prevenire il massacro. Adesso si invoca l’intervento internazionale per scongiurare il peggio, ma intanto la Croce Rossa e il contingente ONU hanno abbandonato l’isola.
Come sempre, il peggio c’è già stato. Ma dov’era un anno fa, un mese fa, la cosiddetta comunità internazionale? E, soprattutto, esiste veramente una comunità internazionale? Dopo la guerra del Golfo, la guerra dei Balcani ed altre mille guerre locali, regionali, continentali, è lecito dubitarne.
Oppure, semplicemente, diamole un nome più vero; invece di Comunità Internazionale: “Unione degli interessi delle potenze militari nazionali e dei potentati economici multinazionali”.


Ha una faccia che non si dimentica. Una faccia da prima pagina. Infatti Il Resto del Carlino, il quotidiano di Bologna, l’ha sbattuto in prima in un giorno d’estate senza grandi notizie: una foto gigante a colori di lui che sguazza nel limpido mar di Sardegna. Con una semplice didascalia: “Lo riconoscete?”.
Ma sì, nonostante l’abbronzatura, la pancetta, la faccia rilassata e rasata di fresco è lo stesso De Lorenzo che, smunto, “ammalatissimo”, barba lunga e volto scavato, avvolto in un cappottone stile clochard, rispondeva alle domande dei giudici di Mani Pulite.
Ho ritagliato la foto. Poi ho scartabellato per ore nei giornali vecchi e alla fine ho trovato “l’altro De Lorenzo”. Ho attaccato le due foto al muro, vicine vicine: prima e dopo la cura. Tangentopoli e il suo risultato.
Ogni tanto alzo gli occhi dal computer e guardo i due De Lorenzo. E la medesima Italia. Devo anche dirvi anche a cosa penso?


Hanno portato in Italia Silvia Baraldini. Rifaranno il processo a Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Due belle notizie. Una piccola speranza che la giustizia umana può essere una cosa seria – non dico giusta o infallibile, ma semplicemente “seria” – una cosa differente dalla vendetta o dal processo alle intenzioni.
Due belle notizie funestate dalla strumentalizzazioni politiche. Un ministro della giustizia che si pavoneggia e fa pubblicità al suo micropartitino, un capo dell’opposizione che farnetica, accusando il governo di mettere in libertà terroristi ed assassini.
Ci vorrebbe una rivoluzione in una politica che ha smarrito l’etica. Ci vorrebbe, ma a volte mi accontenterei di molto meno. Per esempio, un po’ più di buon gusto.


“Gli infortuni sul lavoro non vanno in vacanza”, è il titolo di prima pagina del quotidiano della CISL Conquiste del lavoro di martedì 31 agosto.
In vacanza, da sempre, sono invece i giornali e i telegiornali. Giornali e telegiornali che si interessano di “omicidi bianchi” (una volta si chiamavano così) forse una volta all’anno, quando arriva in redazione il numero statistico di quanti nell’anno appena trascorso hanno perso la vita dilaniati dallo scoppio di una caldaia, fulminati dall’alta tensione, caduti da una impalcatura senza protezione di uno dei mille cantieri abusivi.
Non fanno notizia, non interessano la comunità nazionale, ma, per la cronaca, gli ultimi di una interminabile lista si chiamano Alfred Bardhi, operaio albanese di 35 anni morto per lo scoppio di un container alla ditta Namaco, e Mario Gandolfi, uno dei due dipendenti della raffineria API di Falconara rimasti ustionati da un tremendo incendio.
È vero, Alfred Bardhi e Mario Gandolfi sono nomi comuni, non fanno parte della famiglia Kennedy, né frequentavano Lady D, ma noi, comunità nazionale, ci meritiamo di meglio di questa informazione e di questo giornalismo pigro, pusillanime e sciocchino.


Ma alcuni sono meno di niente. A loro non è concesso nemmeno un nome. E come è possibile il ricordo senza un nome da ricordare?
Erano partiti dall’India della fame.
Muoiono soffocati dopo un interminabile viaggio nel sottofondo di un camion di commercianti di schiavi.
Li gettano in un campo di granturco nella tranquilla campagna mantovana.


Non c’è molto da aggiungere. Solo scusarmi per un diario che, mio malgrado, non riesce a raccontare quella speranza che pure continuamente nasce e non smette di interrogarci.
Ci provo, penso alla vita di testimonianza di Helder Camara che ci ha da poco lasciati, ma subito mi viene in mente il generale Celentano, cosi stolidamente fiero della sua Folgore, e al ragazzo di Siracusa ucciso da una idea idiota di Patria maschia e crudele.
Allora lascio parlare una grande scrittrice, morta da poco e da non molti conosciuta. Scrive Anna Maria Ortese: “La vita si muove, viaggia, e alta sui paesi come sulle campagne perse – mentre i convogli del tempo continuano a inseguirsi – alta sui paesi deserti e campagne mute, resta la mirabile, cara, fedele Utopia”.