Decrescita, una proposta polemica e politica

di Rossi Achille

La parola «decrescita» è un termine polemico per suggerire che non si può continuare a vagheggiare una società della crescita illimitata della produzione e dei beni di consumo. Lo impedisce la constatazione che il mondo è un sistema limitato, che le materie prime si esauriscono, che il pianeta si surriscalda, che nessuna invenzione tecnologica potrà permetterci di superare la degradazione dell’energia certificata dalla seconda legge della termodinamica.

Una fiducia acritica nella scienza

Eppure il sistema economico dominante è strutturalmente fondato sulla crescita permanente e continua, perché il suo obiettivo centrale è la massimizzazione del profitto. Negli ultimi quattro secoli di storia europea l’economia si è sganciata progressivamente dalla società, è diventata il cuore del sistema e ha prodotto una crescita abnorme e compulsiva i cui effetti distruttivi sono sotto gli occhi di tutti. Una società della crescita illimitata non è più sostenibile perché il pianeta non ce la fa a rigenerarsi: lo spazio bioproduttivo che ogni essere umano ha a propria disposizione è di 1,8 ettari; attualmente noi siamo già, mediamente, a 2,2 ettari. Il pianeta non ci basta più, ce ne vorrebbero altri 5 per generalizzare il sistema di vita occidentale. «Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle o un economista», recitava l’esergo di un libro recente sulla decrescita. Difficile non essere d’accordo.

L’obiezione di coloro che restano saldamente ancorati all’immaginario dello sviluppo e prospettano un’economia del futuro basata su fattori immateriali e sull’ecoefficienza sembra più fondata sulla fiducia acritica che la scienza risolverà i problemi del futuro, che su una analisi dei dati reali. Per quanto il mondo dei computer possa sostituire i trasporti, non bisogna dimenticare che la cosiddetta società della conoscenza ha una grande voracità d’energia: per realizzare un solo computer ci vogliono 1,8 tonnellate di materiali, di cui 240 chili di energia fossile. Anche l’ecoefficienza è un’ottima cosa perché permette di risparmiare energia e di diminuire l’impatto sul pianeta, ma sembra illusorio delegare solo a essa il carico del cambiamento, senza prospettare una trasformazione radicale del sistema. In assenza di questo, le tecnologie più efficaci e più pulite provocano l’aumento dei consumi, come insegna l’esperienza.

Crescita economica e benessere sociale

I teorici della decrescita fanno notare che il benessere creato dalla crescita illimitata è largamente illusorio perché non c’è equivalenza fra crescita del prodotto interno lordo e benessere della popolazione o, per essere più esatti, tra crescita dei consumi e felicità. E hanno buon gioco nel mettere in luce le ripercussioni sulla vita fisica e psichica delle persone del sistema innaturale nel quale sono costrette a vivere: l’aumento esponenziale del consumo di antidepressivi, di droghe, la percentuale crescente di suicidi nei paesi più industrializzati, il degrado del tessuto sociale corroso da un individualismo crescente. In un libro dal titolo illuminante, Come non essere più progressista… senza diventare reazionario, JeanPaul Besset scrive: «Nella misura in cui la crescita progredisce sull’insieme dei fronti della società, il disagio individuale aumenta: stati depressivi, sindromi di fatica cronica, tentativi di suicidio, turbe psichiche, atti di demenza, ricoveri forzati, consumo di antidepressivi, di tranquillanti, di sonniferi, di antipsicotici, di stimolanti, additivi di ogni genere, assenteismo al lavoro, a scuola, ansietà, condotte a rischio…».

Non basta però mettere in risalto i guai provocati dall’ideologia dello sviluppo; è necessario indicare concretamente cosa pretende di essere la decrescita. Mi pare che la definizione più limpida sia quella formulata da Serge Latouche: «…un progetto politico che consiste nella costruzione al Nord come al Sud di società conviviali autonome ed econome».

La condizione previa per fornire le gambe a un simile disegno mi sembra quella di immaginare il mondo in un altro modo. È necessario decostruire il mito rappresentato dal funzionamento del sistema economico dominante, perché ci è stato colonizzato l’immaginario e ci hanno inculcato che la realtà s’identifica con quel che il sistema ci presenta.

Ripensiamo la produzione

Oltre a prendere congedo dall’immaginario della crescita, occorre ripensare la produzione. Il paradigma dell’accumulare, per possedere, per consumare non aiuta a creare delle società veramente umane. Ci vuole una produzione che soddisfi le necessità collettive più che i bisogni individuali, che risponda ai bisogni veri e non a quelli indotti dalla pubblicità. Nell’ottica di riduzione che caratterizza la decrescita forse andrebbe preso in considerazione il decentramento delle grandi strutture, che sono anche grandi divoratrici di energia.

Naturalmente è compito della politica rendere concrete queste tracce di percorso: niente di peggio che l’ideologizzazione di un’unica via di decrescita.

Il pericolo più incombente mi sembra, comunque, quello di continuare a colonizzare il sud del mondo con il nostro modello. Senza una rivalorizzazione delle economie locali continueremo ad assistere alla marcia trionfale della globalizzazione e all’impoverimento endemico di larghissimi strati di popolazione mondiale.

In definitiva, però, perché un progetto di decrescita possa decollare, deve fondarsi sulla scelta della semplicità volontaria da parte delle persone. Una scelta che diventi stile di vita, come sottolinea bene un grande amico di Ivan Illich, l’iraniano Majid Rahnema: «L’era economica, come tutte quelle che l’hanno preceduta, non è eterna. Le crisi profonde che la investono a tutti i livelli, le minacce che pongono all’avvenire stesso del pianeta fanno già presagire l’avvento di un’altra era. La fioritura di nuove forme di povertà conviviali sembra così l’ultima speranza degli esseri umani per creare società fondate sulla felicità dell’essere di più, piuttosto che dell’avere di più».