L’opaca evoluzione di Noni, un tempo dolce bambina

di dos Santos Isabel Aparecida

Le donne e le ragazze sono circa la metà della popolazione mondiale. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro i due terzi delle ore lavorative nel mondo sono eseguite da donne, ricevono un decimo del reddito e possiedono meno di un centesimo delle proprietà del mondo. È sulle spalle del miliardo e 600 milioni di donne d’Africa, d’Asia e dell’America Latina che questo fardello ricade più pesantemente. Per la maggior parte di loro, infatti, il lavoro quotidiano si aggira intorno alle sedici ore, mentre coltivano e trasformano gli alimenti, provvedono alla legna, all’acqua, ai vestiti, alle cure sanitarie e della casa, per soddisfare i bisogni delle famiglie che esse sostengono e allevano.
Pertanto se si tiene in considerazione il ruolo fondamentale svolto dalle mamme per l’allevamento dei bambini è facile comprendere come dall’avanzamento della loro condizione, dalla loro emancipazione e dal miglioramento delle loro condizioni di vita dipenda il futuro di gran parte dell’umanità.

Noni, ragazza Samburu

La storia di Noni, una ragazza Samburu, ci fa comprendere le difficoltà che una donna africana deve superare per vivere e per sostenere la sua condizione, quella di sorella, madre e sposa.
Noni è nata nel nord del Kenya, dove la terra è secca. La sua gente è una tribù nomade, che si sposta con le proprie mandrie, seguendo le piogge. Installa i suoi manyatta (villaggi) di capanne di paglia e rami per tutto il periodo in cui il bestiame trova pascoli in quella zona. Poi si sposta per non tornare in quell’area fino all’anno seguente, poiché l’erba cresce molto lentamente.
Le capre e le mucche sono la loro vita da esse ricavano latte e carne per nutrirsi e pellame per gli indumenti. Oltre a ciò è abitudine diffusa tra i Samburu vendere qualche prodotto al mercato per ricavare del denaro per l’acquisto di coperte per le notti fredde e di altra merce.

Guardiana di capre

Già all’età di sei anni Noni badava alle capre della mamma e alle mucche coi vitelli, come gli altri bambini del manyatta con i quali attraversava le pianure, seguendo gli uccelli del miele per trovare il miele selvatico, bacche e funghi mangerecci.
Quando suo fratello più piccolo iniziò a lavorare, ad otto anni, lei si occupò di alcune mansioni che prima svolgeva la madre sempre indaffarata ad andare a prendere l’acqua a recarsi al mercato del distretto e a badare ai vecchi nonni e ai più piccoli.
Molte erano le difficoltà che Noni, come tutti i suoi coetanei doveva saper affrontare, dagli insetti, agli scorpioni, al sole, al fuoco…
Assai raramente gli uomini erano presenti, poiché andavano a portare le mandrie a pascolare lontano, nella savana tornando soltanto poche volte.

Alla ricerca dell’acqua

Con il passare degli anni e l’irrobustirsi del corpo le ragazze Samburu dovevano andare a prendere l’acqua che spesso distava molto dal villaggio. Le pozze più vicine, infatti, quando non erano secche divenivano meta di abbeveraggio degli animali e quindi l’acqua che ancora vi si trovava non era più potabile. I bambini morivano quando la bevevano. Così si doveva camminare anche dieci o quindici chilometri per trovarne di pulita. Quella migliore si trovava nella sabbia o nel letto dei fiumi secchi i quali durante un periodo dell’anno erano torrenti tumultuosi e nel periodo di siccità dei letti di sabbia. Ma scavando un po’ in profondità era possibile trovare qualche rivoletto di acqua pulita e lavorando a lungo se ne poteva riempire un secchio.

Un progetto
governativo di irrigazione

Fu durante quel periodo che si iniziò a parlare di un progetto del governo per incanalare il torrente stagionale delle montagne del sud e irrigare parte della terra, per coltivare miglio ed altri strani alimenti. Se una famiglia voleva aggregarsi al progetto doveva vendere la maggior parte del bestiame e versare un deposito per un appezzamento da coltivare. I Samburu non vedevano di buon occhio coloro che scavavano il suolo, perché tutto ciò andava contro la loro cultura e le loro credenze. In quel periodo ci furono molte discussioni tra gli adulti del villaggio. Alcuni sostenevano che la siccità sarebbe tornata ancora, l’erba non sarebbe più cresciuta e il bestiame sarebbe tutto morto, altri sostenevano il contrario e prevedevano il ritorno delle piogge forti come non mai.
Alcuni ancora dicevano che vendere il bestiame significava vendere il diritto di nascita, questi gridavano nelle riunioni che ciò significava vendere la terra che sempre era stata loro, e che sarebbe stato sciocco dare tutto ciò che si possedeva per incassare ciò che sarebbe passato tra le dita come la sabbia.

Cambia la vita

Il padre di Noni decise di vendere il bestiame e versò il suo deposito per aggregarsi al progetto agricolo; si tenne solo alcune capre e poche mucche in agonia. Costruì una casa di legno e di fango di tre camere. La loro vita stava cambiando. Con quel poco denaro rimasto suo padre decise di iscrivere suo fratello alla scuola elementare del villaggio più vicino. Un funzionario diede loro alcuni consigli riguardo alla semente da utilizzare e così di mese in mese lei e sua madre continuarono ad imparare a coltivare, guardando come facevano i vicini che essendo di una tribù sedentaria erano abituati a zappare e avevano braccia forti come le gambe dei Samburu abituati a camminare.
La vita di Noni cambiò: non faceva più chilometri per prendere l’acqua che ora trovava buona e abbondante nel vicino pozzo, ma al tempo stesso non danzava più e non ricordava gli usi della sua tribù. Suo padre la darà in sposa ad uno sconosciuto, come era già successo a sua madre, e lei crescerà i suoi figli ma non come fecero i suoi genitori poiché Noni insieme alla siccità perse anche la sua cultura.