Á“ssios Loukás e la tomba di Vassilissa
A Á“ssios Loukás il vento canta. L’ho sentito e lo posso testimoniare.
Sono arrivato tra quelle montagne aspre e allo stesso tempo accoglienti in un giorno di sole pallido e di pioggia appena spruzzata come acqua santa. Non sembrava nemmeno che la Grecia fosse di casa. Accompagnando i miei ragazzi, straniti e confusi come sempre, anch’io ho tradito la mia confusione, restando silenziosamente a bocca aperta.
La chiesa bizantina dell’XI secolo aspettava e vegliava in una condizione di fissità amorevole, fissa nella sua storia e in una tradizione profonda e radicata, ma amorevole e rasserenante come il clima che comunicava. Non conoscevo e continuo a non conoscere l’ortodossia, ma, come sempre più spesso mi accade, l’istinto trascendentale mi ha sospinto all’insù e mi ha portato ad ascoltare la voce interiormente rispettosa del silenzio. «Sai, a Á“ssios Loukás anche il silenzio parla» – mi hanno detto al mio ritorno in Italia e io ho condiviso con entusiasmo.
Succedono cose strane a Á“ssios Loukás: il vento canta e il silenzio parla. Tutto si srotola in uno stato di apparente sopore e di fuggevole rilassatezza.
Spigolare il rosmarino
Ho lasciato tutti su un terrazzo esterno del monastero e poi mi sono incamminato verso il belvedere centrale, passando accanto a un monaco dalla lunga coda di cavallo, che spigolava il rosmarino. Mi è venuto il desiderio di aiutarlo, esattamente come ogni tanto sento il desiderio di lavare i piatti.
Sono atti semplici, naturali e quotidiani, che sgorgano dalle mani degli uomini, senza che per questo si debba avere per forza una vocazione o un’attitudine. Attraverso di essi è possibile scoprire un’umanità immediata, quasi una comunione con l’umanità di Dio. Dalla staticità delle figure dei mosaici bizantini alla manualità del lavoro di chi spigola un cespuglio di rosmarino c’è tutto il senso del Dio che si china sulla dimensione terrena dell’uomo e dell’uomo che si eleva alla dimensione sacrale di Dio. In questo contesto cadono i giudizi, le forme astratte, le opposizioni, le divisioni ed emergono finalmente i volti autentici della libertà umana.
Poi è arrivato il vento. All’improvviso si è infilato tra le montagne ripide e spoglie, ha sfiorato i sassi bruciati dal sole ed erosi dalle acque, si è insinuato tra gli ulivi e le loro fronde, è penetrato tra gli aranci, è risalito sui pendii che dividono Á“ssios Loukás dal mare e ha fatto irruzione verso l’eterno fatto natura e fatto uomo. In quel momento l’ho sentito cantare: un suono prima cupo e poi sempre più morbido, dolce, tenue, finanche tenero. Mi ha accarezzato il volto e io mi sono detto: «Finalmente!». Lo aspettavo dall’inizio del viaggio e lui è arrivato cantando.
Mi sono adagiato con lo sguardo sulla valle e ho scrutato gli ulivi, ho sentito improvvisamente il profumo delle olive, del finocchio selvatico, della lavanda e del rosmarino, ho avvertito il sapore forte e affascinante della «pheta», il formaggio di capra ricoperto di un olio denso e fragrante e di cipolle lacrimanti. Per un attimo mi è sembrato di dimenticare la mia sottile infelicità, non tanto perché io mi sentissi finalmente felice, ma semplicemente perché, in quel momento, mi sentivo associato a un mondo così semplice e al tempo stesso così ricolmo di contrasti.
In fin dei conti la Grecia è una terra di contrasti violenti e apparentemente insanabili, dove una terra asciutta ed essenziale si mescola con una ricchezza spirituale e intellettuale straordinaria, dove un passato di glorie e di civiltà si confronta con un presente modesto e quasi povero. Questi contrasti ci appartengono, anzi, mi appartengono e si coniugano con la mia esistenza: aspra e asciutta fuori, ribollente e inquieta dentro.
Ho ascoltato quella canzone inattesa in religioso silenzio e con un pizzico di autocompiacimento per avere finalmente trovato quello che speravo.
Il vento e il silenzio
Poi è arrivato il silenzio. All’improvviso il vento ha cessato la sua corsa e, dietro di esso, si è insinuato proprio il silenzio, contraddistinto dalle sue parole sottili, raffinate, perfino austere, ma senza vergogna. È bello sentire parlare senza ascoltare il timbro assordante delle voci degli uomini. Soffocano e infastidiscono.
Il silenzio di Á“ssios Loukás invece si è spinto dentro le pieghe della coscienza e ha interrogato i miei desideri, riconoscendoli per quelli che sono ed emergendo da un contesto assolutamente sacrale, come può essere soltanto uno sperduto monastero ortodosso della Beozia greca. Ho partorito il desiderio e, in quell’angolo così remoto e trascendentale, ho pensato a Vassilissa. E l’ho fatto senza vergogna.
Vassilissa è esistita soltanto nella storia piacevole e nostalgica di un film di Salvatores. L’ho sempre trovata un personaggio splendido e irripetibile. Prostituta in una sperdutissima isola dell’Egeo durante la Seconda Guerra Mondiale, si trova a lavorare soltanto con un manipolo sgangherato di soldati italiani occupanti, dimenticati e abbandonati da tutti. Per di più uomini senza un soldo in tasca, visto che in quel contesto il denaro non serviva. Ma Vassilissa si dà per piacere e per carità cristiana. Gratis.
Poi un giorno finisce per sposare un soldato timido, complessato, sostanzialmente solo e alla ricerca di un amore impossibile e inesistente.
«Non l’hai mai fatto?» – «No» – «Vuoi che lo facciamo?» – «Non lo so» – «Come non lo sai?» – «È che non lo so» – «Vuoi che proviamo?» – «Non lo so». Noi non lo sappiamo mai.
Il giorno della loro dichiarazione d’amore resterà nella storia di quegli ulivi secolari. «Minchia, ragazzi. Adesso non si può più…» – sibilerà alla sua truppa lo spaccone e velleitario sergente di quell’esercito improbabile. «Ha detto che lo ama…».
Vassilissa morirà giovane, ma al soldato il suo amore fulmineo riempirà provvidenzialmente la vita. Lui non lo sapeva mai, ma lei sì.
La Grecia svela senza remore né incertezze questo incontro tra il sacro e il profano, tra la spiritualità più ardita e le passioni più umane. I numi dell’Olimpo hanno lasciato in eredità agli uomini le loro giuste debolezze e il cristianesimo ha dato un senso straordinariamente infinito a questa terra così angolata e avara.
Ho lasciato la Grecia portando con me i passi percorsi sotto la Stoá di Attalo, come i genuini filosofi del tempo, lo sguardo al tempio di Efesto, la salita affannosa al Partenone, la soggezione misteriosa di Micene, il rumore appena percepito della monetina che cadeva tintinnante nel Teatro di Epidauro, il fascino dell’oracolo di Delfi.
Il cimitero di Vassilissa
Però c’era qualcosa che mi mancava e che, a un certo punto, ho rivisto come in un sogno. Però, grazie a Dio, non era un sogno.
Proprio a un certo punto, dietro una di quelle infinite curve, ho intravisto un piccolo cimitero con un gruppo di tombe bianche, di croci bianche e di foto bianche per il tempo e per quel vento che canta sempre. L’occhio è caduto su una tomba e su una fotografia.
Stavo per gridarlo e per uscire dal finestrino dell’autobus in corsa: «Vassilissa! Ho trovato la tomba di Vassilissa!». Mi sono trattenuto a stento. I miei alunni potranno pensare che il loro insegnante è un assai triste e anche un po’ sfigato, ma non possono convincersi che sia anche matto.
Tornerò in Grecia. Non posso restare lontano.
Andrò a Á“ssios Loukás, dove il vento che canta e il silenzio che parla si mescoleranno al Dio vivente, mentre questi scende tra i cespugli del rosmarino e i mosaici bizantini di quella chiesa dolcissima. Poi la tolleranza austera di Á“ssios Loukás mi darà il permesso di andare a deporre un fiore sulla tomba di Vassilissa.
Magari lei mi chiederà: «Vuoi che lo facciamo?». E io sarò molto imbarazzato. È che io proprio non lo so. Noi non lo sappiamo mai.