Percorsi diversi per lo sviluppo economico?

di Di Felice Massimo

Economia, scienza deprimente
Le tragiche previsioni di T. R. Malthus, che a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo misero in allarme le società occidentali perché vedevano nella propensione naturale a procreare la causa della fine dell’incremento del reddito pro capite e l’inizio di calamità, carestie e guerre, ebbero come unico effetto quello di dare all’economia l’etichetta di «scienza deprimente». A guardar bene l’insieme delle teorie economiche del nostro secolo, soprattutto quelle relative allo sviluppo economico, non si può certo dire che tale scienza abbia fatto, dal punto di vista dell’indole, dei grandi progressi. Per molti aspetti la «depressione» sembra essere stata contagiosa ed aver coinvolto anche altre scienze che, insieme all’economia, ci riportano un’immagine apocalittica di questa fine di millennio.
È tuttavia fuori di dubbio che, per quanto concerne la realtà economica, esistano dei motivi di preoccupazione oggettivi, comunemente accettati, come dimostrano ad esempio i cambiamenti subiti dall’andamento del commercio internazionale che, mentre per tutto il XIX secolo aveva costituito il motore della crescita e dello sviluppo, nel ventesimo secolo sembra essersi definitivamente fermato, generando dei cambiamenti strutturali nella mappa della distribuzione della ricchezza e nelle relazioni internazionali.
A chiunque voglia addentrarsi nella problematica suggeriamo la lettura del testo di R. Pomfret, Percorsi diversi per lo sviluppo economico, fra arretratezza e crescita accelerata: come evolvono le economie dei «paesi in via di sviluppo», edito da Il Mulino. Va subito detto che il testo fornisce un quadro sintetico, ma forse proprio per questo estremamente interessante ed utile, delle idee e delle teorie relative allo sviluppo economico nella seconda metà del nostro secolo ed in particolare a partire dagli anni ’40, data che segna, secondo l’autore, la nascita dell’idea dell’esistenza di una serie distinta di paesi necessitanti di una analisi economica particolare. Prima di tale data, infatti, tale necessità sarebbe risultata incomprensibile, queste regioni sarebbero state studiate come un problema coloniale o come economie precapitaliste mentre soltanto con la fine della seconda guerra mondiale e con la nascita di un Nuovo Ordine Economico Internazionale inizieranno a prendere piede le analisi specifiche su quell’insieme di paesi, la maggior parte dei quali con un passato coloniale alle spalle, che saranno presto definiti sottosviluppati, del Terzo mondo, o, più ottimisticamente, in via di sviluppo.

L’impossibilità dell’obiettività di giudizio
La scelta di affrontare le problematiche dello sviluppo e del sottosviluppo dal punto di vista teorico dà al testo una visione che va ben oltre il tema dell’evoluzione dello stato delle economie dei paesi del sud del mondo e che comprende l’analisi critica del mutamento del concetto di sviluppo e del fine ultimo delle scienze economiche. Oltre a questo il testo ha una serie di pregi che ne giustificano la lettura e che carpiscono l’interesse del curioso. In primo luogo il rifiuto dell’obiettività, dote non sempre diffusa tra gli economisti, esplicitato nella premessa in cui si effettua una esplicita opzione di fiducia nei meccanismi di mercato. Come dire, si chiarifica per correttezza intellettuale e metodologica, il punto di vista dal quale si muovono le considerazioni. Data la impossibilità dell’obiettività di giudizio, il lettore attento saprà, sin dall’inizio, che verranno ricostruite le tappe della storia dello sviluppo a partire da un determinato punto di vista, che tenderà a sottolineare le cause che hanno determinato la non ottima riuscita delle ricette neo­liberali nei paesi «in via di sviluppo», più che metterne in discussione gli assunti di base.
Un altro punto estremamente interessante è dato dalla scelta dell’analisi storica delle diverse teorie economiche, che fornisce al lettore un sintetico quadro d’insieme che permette di avere una visione dell’evoluzione degli approcci teorici e dei risultati da questi apportati in seguito alla loro applicazione nei diversi paesi. Il testo, dopo una breve esposizione critica sui concetti e sugli indicatori utilizzati per la misurazione dello stato di salute delle economie, dedica un capitolo ai pionieri dell’economia dello sviluppo, nel quale vengono passate in rassegna le principali teorie che hanno costituito la base su cui si è evoluta la disciplina. Da Rostow a Rodan, a Nurkse, Myrdal e Hirschman, vengono ricostruiti gli approcci iniziali messi in stretta relazione con il contesto storico­sociale dal quale prendevano forma; in seguito vengono affrontati alcuni degli argomenti più tipici: l’industrializzazione, l’agricoltura e il commercio internazionale, nei quali vengono ripercorsi sinteticamente i principali argomenti che hanno fatto la storia recente della disciplina: il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo economico, il modello di Lewis, il modello di crescita di Solow, la riforma agraria, la rivoluzione verde, il dibattito sulla sostituzione delle importazioni etc. Il tutto suffragato da una serie di «studi di casi» che, in ogni capitolo, aiutano il lettore a storicizzare le teorie affrontate e a coglierne il loro impatto empirico.

La teoria della dipendenza e quella dei bisogni primari
Dopo aver constatato il diverso impatto che le teorie economiche elaborate in occidente hanno avuto nelle varie aree geografiche del pianeta, viene dedicato un capitolo, sia pur il più breve, alla così denominata «critica radicale» dove in poche pagine vengono affrontate la teoria della dipendenza e quella dei bisogni primari attraverso lo studio del caso della Tanzania e di quello di Cuba.
Il testo viaggiando, sia pur soltanto con le pagine, da un continente all’altro ci permette di cogliere un aspetto importante che ha un valore storico non indifferente: i limiti empirici e storici, e pertanto anche teorici, dell’applicazione dei modelli economici occidentali, concepiti e considerati nel corso degli ultimi decenni come vere e proprie «formule magiche», la cui corretta applicazione avrebbe riprodotto benessere e sviluppo in qualunque angolo del pianeta. Particolarmente intressante risulta il capitolo che segue quello sull’Ordine economico internazionale e che affronta il tema delle Fonti estere di capitale nel quale, dopo aver identificato due problemi centrali delle strategie di sviluppo, ossia quelli relativi alla scelta di quali settori devono essere sostenuti maggiormente e all’opportunità o meno di seguire una strategia di sviluppo aperta (ossia basata su investimenti esteri) o tendenzialmente chiusa (come voleva il modello della sostituzione delle importazioni diffusosi soprattutto negli anni ’50 e ’60), vengono analizzati gli aiuti allo sviluppo valutandone la quantità nel corso degli ultimi decenni e soprattutto la loro qualità. Se ne coglie un quadro estremamente interessante. Il testo si conclude con un capitolo sull’ambiente e lo sviluppo sostenibile che riflette le preoccupazioni presenti nell’immaginario collettivo della società civile internazionale accomunata, indipendentemente dal proprio credo, dalla propria cultura e dalla nazione di appartenenza, dall’interesse nei confronti dell’ecosistema e del bene comune.

Dopo l’euforia sviluppista degli anni cinquanta
Complessivamente il libro riesce ad offrire al lettore una visione generale di quello che è stato il dibattito sullo sviluppo economico, focalizzandone gli aspetti e le contrapposizioni principali ­ industria o agricoltura, capitale fisico o capitale umano, protezionismo o apertura commerciale, pianificazione o mercato ­ dai quali è possibile scorgere, alla luce di un cinquantennio di esperienza, il fallimento dell’inutile tentativo di trovare un «unico modello» economico valido «a priori» che coerente con una determinata visione teorica, sia essa liberale o collettivistica, venga considerato esporta­ bile in qualunque contesto e situazione.
Va colto qui un limite non indifferente. Dopo l’euforia sviluppista degli anni cinquanta ci si è andati piano piano accorgendo di una amara verità: la modernità, o meglio ancora alcuni preferirebbero riferirsi alla post­modernità, non solo non ha risolto il problema della povertà ma lo ha aggravato.
Analizzare le cause che hanno determinato tale drammatica situazione risulta estremamente importante a patto che si tenga presente che le spiegazioni prettamente economiche ci aiuteranno solo in parte nell’analisi degli eterogenei aspetti della problematica. Bisognerebbe forse ricominciare le analisi dalla consapevolezza dei limiti di ogni costruzione teorica e della specificità di ogni cultura. Ogni popolo un proprio ritmo e un proprio ideale di felicità Ogni popolo ha una sua musica, un proprio ritmo e un proprio ideale di felicità al quale tendere che continuano a manifestarsi in forme diverse negli spazi del pianeta. Ridurre pertanto il problema dello sviluppo ad un triste dibattito su teorie economiche significa compiere una amputazione, condannarsi a non comprendere e rimuovere la realtà dei numerosissimi insuccessi e delle smentite che la storia e gli indicatori economici hanno offerto sul piano dello sviluppo.
Si apre qui una riflessione importante sulla necessità di un rapporto dialettico tra la teorizzazione pura, la costruzione dei modelli astratti e la comprovazione empirica dei risultati da essi realmente apportati, capace di non perdere di vista il fine ultimo e il senso stesso delle scienze economiche, che oltre all’elaborazione pura e alla speculazione teorica dovrebbero concorrere alla realizzazione del benessere materiale dell’individuo e dei popoli.

R. Pomfret, Percorsi diversi per lo sviluppo economico, fra arretratezza e crescita accelerata: come evolvono le economie dei «paesi in via di sviluppo» Il Mulino, 1995, pp. 366.