Politica estera? Amore per una Terra divisa

di Masina Ettore

La notizia

“Nel 1321 – si legge nella cronaca del monastero di Santo Stefano di Condom – cadde in febbraio moltissima neve. Furono sterminati i lebbrosi. Cadde di nuovo molta neve prima di metà quaresima; poi venne una grande pioggia”. Carlo Ginzburg, dalla cui meravigliosa Storia notturna traggo questa citazione, commenta: “Allo sterminio dei lebbrosi l’anonimo cronista dedica la stessa distaccata attenzione riservata a insoliti eventi metereologici”.
Sono passati più di sei secoli e mezzo e la miseria spaventosa in cui versano i tre quinti dell’umanità è soggetta nei nostri giornali, e ancor più nei nostri telegiornali, alla stessa confusione sui criteri di importanza di una notizia. Noi viviamo in un’epoca meravigliosa e terribile ma, a stare ai mezzi di comunicazione di massa, questa realtà non è percepibile. Tutte le notizie sono omogeneizzate da una nebbia fitta che sbiadisce i contorni.
Quindici giorni fa in Pakistan è stato ammazzato un ragazzo di quattordici anni che guidava una rivolta di piccoli schiavi, i tessitori di tappeti con dodici, tredici, quattordici ore di lavoro al giorno in ambienti malsani. Quando si dice “schiavi” si usa la parola esatta: quel ragazzo era rimasto otto anni incatenato a un telaio. Come lui, ci sono in Asia almeno cento milioni di bambini: ottanta milioni sono indiani, lavorano nelle miniere o sono costretti ad altre fatiche massacranti. Si calcola che, complessivamente, nel mondo, i bambini in tenera età (anche tre o quattro anni) costretti al lavoro siano duecento milioni. Almeno otto milioni di bambini sono costretti alla prostituzione ma il dato vale per la sola Asia. La mutilazione o macellazione di bambini per procurare ai ricchi o ai figli dei ricchi pezzi di ricambio per i loro organismi è ormai più che un sospetto. A queste atroci realtà ha dedicato recentemente una sua sessione il Tribunale dei Popoli, una filiazione della Fondazione Basso.

Oggi, come tutti
gli altri giorni

So bene, per non piacevole esperienza personale, che quando si fanno questi paragoni si è immediatamente accusati di sensazionalismo, di sentimentalismo, di moralismo, ecc. Ma perché non farli, questi paragoni, se essi svelano la grande falsificazione della realtà planetaria nella quale ci troviamo immersi?
A me pare che un giornale che volesse raccontare la verità dovrebbe scrivere ogni giorno: “Oggi, come tutti gli altri giorni dell’anno, sono in viaggio, spesso in condizioni terribili, duecento milioni di persone alla ricerca di lavoro. Oggi, come ogni altro giorno, centinaia di migliaia di poliziotti e di soldati vigilano ai confini degli stati del Nord per bloccare il cammino di queste disperate speranze. Oggi, come ogni altro giorno, viene bruciata in Amazzonia una superficie silvicola grande come il territorio del Comune di Roma. Non è un fenomeno soltanto brasiliano. Ad Haiti, a causa della miseria, oggi, come tutti gli altri giorni, sono stati tagliati seimila alberi e ormai la copertura vegetale del territorio è ridotta ad una proporzione che sta fra il 7 e il 17%”.
Un quotidiano veritiero doovrebbe ricordare che ogni giorno l’Europa produce più di cinquecentomila tonnellate d’immondizia, un quarto della quale è composto da commestibili, mentre l’Organizzazione mondiale della Sanità e la F.A.O. avvisano che diciotto milioni di profughi africani sono a rischio di morte per fame. Dovrebbe, infine, quel fantomatico giornale, ricordare che due miliardi di persone non hanno acqua potabile mentre nel solo stato della California (venticinque milioni di abitanti) ci sono circa cinquencentomila piscine.

Politica illusoria

Anche se non sembra, sto parlando di politica internazionale.
La politica internazionale italiana, europea, americana – del Nord-Ovest, per intenderci – affonda qui le proprie radici: nell’evitare di affrontare i problemi planetari. A questo modo essa si configura come una politica illusoria, intenta a porre ordine in quell’esigua porzione di globo terrestre in cui vive il terzo privilegiato dell’umanità; e di riflesso a indurire le condizioni degli altri due terzi, mediante gli stessi trattati con cui i paesi benestanti mediano i loro rapporti (penso, per esempio, al NAFTA, che ha suscitato l’insurrezione, per legittima difesa, degli indios del Chiapas).
Ho detto “politica illusoria” perché essa guarda soltanto ai tempi brevi, rifiutando di contamplare un futuro gravido di veleni e di minacce.
Le ragioni di questa politica dissennata, che rischia di consegnare ai nostri nipoti una Terra invivibile, sono molteplici.
In primo luogo c’è il rifiuto dei cittadini e delle cittadine dell’area cosiddetta “del benessere” di accettare l’angoscia che deriva dallo spettacolo dell’infinita miseria di una parte tanto grande del pianeta. Noi tendiamo a percepire ogni spettacolo di dolore come un’aggressione al nostro equilibrio psicologico. Questo è inevitabile: tanto più quanto siamo sensibili, tanto più riusciamo a immedesimarci in chi soffre, noi siamo sollecitati da uno spettacolo insolito, particolarmente se sgradevole, a un mutamento che ci appare minaccioso. Per questo siamo abituati a scotomizzare la realtà, cioè a tagliarla a fette, a guardare tutto ma a vedere soltanto ciò che ci inquieta. Ora, amputando una parte dell’esperienza, sottrae l’individuo anche da esperienze assai significative e persino gioiose (ne parlerò più avanti) e produce una distorta percezione del mondo in cui si vive.
Può accadere, naturalmente, anche il contrario. L’accettazione della realtà, vissuta senza una attenta, profonda, delicata revisione del nostro equilibrio psichico e delle nostre scelte etiche (quella che in termini religiosi si chiama “conversione”) può ingenerare durezze: il medico e il personale paramedico che si occupano di malati terminali, per esempio, senza un sostegno psicologico o forti e sempre rinnovate opzioni morali, dalla visione di una umanità che soffre senza speranze di guarigione e che dunque sconfigge ogni giorno la loro professionalità sono talvolta trasformati in persone che appaiono senza carità né calore umano.

Meccanismi democratici
e problemi planetari

Ma torno alla politica estera, se mai l’ho, come non credo, abbandonata. Per assurdo che possa sembrare, proprio la democrazia, o meglio i meccanismi della democrazia, determinano una politica estera che difficilmente può essere realistica. Le cadenze elettorali sono assai ravvicinate: in Italia quasi a getto continuo. I vecchi partiti o i nuovi comitati d’affari che li vanno sostituendo se vogliono il voto degli elettori devono offrire nei loro programmi la soluzione a breve scadenza di problemi che riguardano direttamente il cittadino, cioè interferiscono con la sua quotidianità.
I problemi di una politica estera a llivello planetario (l’unica politica estera degna di questo nome) sono di assai difficile soluzione, generano angoscia psichica perché contengono aspetti di tragicità ma anche perché appare evidente che non possono essere risolti senza un mutamento o almeno un ridimensionamento radicale dei nostri consumi, del nostro modo di vita. Perciò i partiti non ne parlano mai in campagna elettorale, e chi lo fa viene penalizzato.
Nel 1992 nessuno dei deputati, di qualunque partito, che più si erano occupati nella legislatura precedente dei problemi della politica estera è stato rieletto; nel 1994 il fenomeno si è puntualmente ripetuto.

I “magnifici sette”

Non c’è da meravigliarsi allora se il nanismo culturale della nostra classe politica, cioè dei politici professionisti, è tale che in parlamento i dibattiti di politica estera non sono più di uno all’anno e comunque vengono totalmente disertati. Avviene oggi ma avveniva anche alla fine degli anni ’80: era in atto la rivolta rumena e contemporaneamente (e non a caso) gli Stati Uniti stavano invadendo Panama, esperimentando nuove armi. L’Associated Press annunziava: “La capitale sembra una immensa palla di fuoco”. Alla Camera eravamo sette deputati, sette su seicentotrenta, a discutere con il nostro ministro degli esteri la possibilità di interventi in favore della pace.
Peggio ancora avvenne nel febbraio 1991. Quando l’Italia entrò, di fatto, nella inutile se non infame guerra del Golfo, un terzo dei deputati italiani non era in aula: e si trattava di uno dei momenti più alti (o più bassi) della nostra storia nazionale, con la violazione patente dell’articolo 11 della nostra Costituzione. Aggiungo che neppure la curiosità scuote questo disinteresse: quando Nelson Mandela venne per la prima volta in visita al nostro Parlamento non si trovarono più di sette deputati disposti a incontrarlo.
In queste occasioni i parlamentari a cui avevate dato il vostro voto, come si sono comportati? Lo sapete?

Astensione, glaciazione

Un altro paradosso interessante è che la caduta del muro di Berlino e il dissolvimento dell’Unione Sovietica hanno ulteriormente nanificato la cultura politica dei nostri parlamenti. La presenza del cosiddetto “impero del male” da un lato provocava enormi guasti (per esempio, la stagnazione della “guerra fredda”, con l’osceno spreco di immensi capitali dedicati agli armamenti; o le immonde guerre imperialiste nel senso preciso del termine, come quella totale in Vietnam e quella di “bassa intensità” nel Salvador) ma imprimeva alla società mondiale la necessità di un certo dinamismo. La miseria dei popoli ex coloniali, infatti, riceveva una certa tutela (anche se spesso del tutto pretestuosa) da parte dell’internazionalismo comunista. Il pericolo di mutamenti nei paesi del Sud della Terra non provocava soltanto l’intervento del Pentagono, della C.I.A. e dell’F.B.I.: costringeva l’Occidente anche a più positive revisioni politiche e all’utilizzo, o comunque al gradimento, di mediazioni da parte delle medie “potenze”, per esempio l’Italia di Andreotti, la cui politica estera acquistava da ciò un qualche senso che non fosse quello del semplice appiattimento sotto l’ombrello della NATO. Oggi il deterrente russo è crollato (Eltsin è un alleato scomodo ma non certo per le sue istanze internazionaliste) e nella politica estera del Nord-Ovest è cominciata una glaciazione, una astensione dall’impegno che rende la comunità internazionale incapace di risolvere perfino i conflitti tra etnie, come dimostrano la permanente tragedia della ex Jugoslavia e la vanificazione dell’importanza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Sopra-vive
il Fondo Monetario

Delle grandi agenzie dell’ONU (o, meglio, collegate con l’ONU) una, tuttavia, ha non solo conservato ma aumentato negli anni la sua presa sulla situazione internazionale. Si tratta del Fondo Monetario Internazionale, che si potrebbe definire il “ministero del Tesoro dell’ONU”. Attraverso la pressione che questo organismo impone ai governi dei paesi indebitati e necessitanti di nuovi finanziamenti per pagare non già i debiti (ormai astronomici) ma gli interessi sui debiti, il Fondo obbliga gli stati del Sud a misure che portano inevitabilmente (a breve e medio termine) a un ulteriore impoverimento delle classi popolari in vista di dubbi risultati a lunghissimo termine.

A questa situazione fa riscontro quella parte della politica planetaria che è non meno importante di quella ufficiale, dei governi. È la politica economica, svolta dalle grandi imprese multinazionali e, in maniera ancora più inquietante, dai grandi gruppi finanziari il cui fine è quello di fare soldi a qualunque costo, anche a costo di demolire rassicuranti economie capitaliste. Su quest’ultimo fenomeno (tanto nefasto anche per l’Italia) è la stessa Wall Street a chiedere interventi legislativi, ma la situazione è ancora del tutto instabile e io non mi azzarderò a tentare di descriverla. Dirò semplicemente che oggi esistono alcuni immensi centri finanziari (secondo alcuni, non più di venti in tutta la Terra, secondo altri anche meno…) in grado di spostare telematicamente capitali pari al Prodotto interno lordo di una media nazione dando origine a vere e proprie bufere monetarie dalle quali traggono enormi guadagni.

Il dominio economico

Meno difficile mi pare descrivere invece la presenza delle multinazionali.
Attraverso una serie di investimenti diversificati, le maggiori società per azioni del Nord (Giappone compreso) sono riuscite a dare vita a una “globalizzazione” del pianeta, cioè a un dominio economico internazionale così cogente da rendere soltanto apparenti i confini delle varie nazioni. Le multinazionali o transnazionali hanno per molti anni piazzato i loro investimenti in regioni del mondo in cui il costo del lavoro era il più basso possibile, dunque in paesi in cui la capacità e la forza contrattuale dei sindacati era minima o addirittura inesistente; e perché questa situazione fosse stabile hanno sostenuto le peggiori dittature (per esempio, la Fiat ha creato l’enorme stabilimento Betim di Belo Horizonte all’epoca della crudelissima dittatura brasiliana) o persino hanno dato origine a colpi di stato: il democratico Arbenz e la democrazia guatemalteca e Salvador Allende e la democrazia cilena, tanto per fare altri esempi, sono stati massacrati rispettivamente da un colonnello Arns e da un generale Pinochet sponsorizzati, l’uno dall’United Fruits Company, e l’altro dall’ITT, la più grande multinazionale americana dell’epoca.

La Triade
e il resto in “esubero”

Tuttavia le strategie appaiono radicalmente mutate negli ultimi anni. La Triade (cioè la Superpotenza economica costituita da Nordamerica, Europa Occidentale e Giappone) sta concentrando il 95% dei suoi investimenti nella sua propria area geografica. Considera un “esubero” il resto del pianeta… Ciò avviene per varie ragioni. La prima è che innovazioni tecnologiche hanno ridotto il costo del lavoro a quote che si aggirano sul 10% del costo del prodotto assemblato, cosicché non è più tanto importante avere mano d’opera a bassissimo prezzo. La seconda ragione è che le innovazioni tecnologiche richiedono una manovalanza selezionata che è più facile reclutare e addestrare nel territorio in cui risiedono le società “madri”. La terza ragione è che il grande capitale ormai si è attestato su produzioni di alta tecnologia che non trovano mercato nei paesi solo retoricamente definiti “in via di sviluppo”. Dunque questi paesi non servono più, possono scomparire dalla scena.
Un tragico gap tecnologico (cioè una differenza di livello di conoscenze e di strumentazioni) va delineandosi fra i paesi della Triade e i paesi del cosiddetto Terzo Mondo.

La soglia del dolore

Non si possono quantificare le sofferenze che nascono, e che aumenteranno, nel mondo-esubero. Chi ha il coraggio di penetrare nel Sud nelle sue realtà umane sa quanto sia insensato credere che quelle popolazioni siano abituate alle sofferenze e quindi abbiano soglie del dolore diverse dalla nostra. I neuroricettori sono eguali; eguale l’anima. La loro sofferenza è del tutto identica alla nostra, soltanto più impotente. La immensa massa dei poveri è vittima, più o meno inconsapevole, ma comunque inerme, di una guerra che non conosce paci. Noi dobbiamo renderci conto che, lo vogliamo o no, stiamo dall’altra parte.
Nella condizione atroce di tanta parte del genere umano, nella divisione dell’umanità in due parti sta, a mio avviso, il connotato essenziale della nostra epoca. Il che vuol dire che la nostra generazione (la quale conosce la realtà planetaria come nessun’altra generazione precedente e la cui filosofia è da tempo approdata alla definizione della inalienabilità dei diritti umani) sarà sottoposta a un duro giudizio dalla Storia o, per chi accetta di dirsi cristiano, da Dio.
Io credo perciò che teologia, spiritualità, cultura, uso della tecnica, modelli scientifici, teorie economiche, sistemi di governo, tutto sia chiamato in causa da questo peccato mortale collettivo.

Quale alternativa?

Non vorrei concludere senza avere delineato anche qualche possibile via di uscita dal cupo pessimismo che è un’altra possibilità che ci viene concessa, naturalmente, ma che ci inchioda alla dimissione dalla fragilità umana e dunque dalla dignità più alta che una creatura umana possa vivere.
Io credo fortemente nell’impegno in prima persona.
Non credo nella possibilità di evadere alle nostre responsabilità. Che la si chiami Gea, come in certi modelli scientifici, o Pacha Mama, come la chiamano gli indios, la Terra è un’unità alla quale siamo indissolubilmente legati. Possiamo fingere di non saperlo: ma noi continuiamo a berne il latte, soltanto il latte di questa immensa meravigliosa madre piò saziarci. Se questo latte è striato di sangue o porta con sé veleni chimici (così come il latte delle madri del Costarica nelle zone in cui le multinazionali usano antiparassitari vietati nel mondo occidentale) noi, qualunque sia la nostra riccheza o la nostra scienza o il nostro potere, viviamo male. Possiamo voltare il capo, come Caino: ma ci rimane dentro qualcosa di morto che è una parte di noi stessi; e marcisce.
Molti dei “mali oscuri” che ci segnano io credo vengano da questo non voler vedere. Credo che talvolta moriamo di una specie di fame psichica o etica che i consumi materiali non possono placare proprio perché sono l’antitesi del nostro rapporto di figli e di fratelli. Mentre poi io sono certo – ed è una certezza gioiosa, perché tante volte collaudata – che chi si fa prossimo alle immense sofferenze dei poveri ne riceve doni immensi: il pane di una speranza di cui non sappiamo più coltivare il grano, una creatività, una vitalità, una capacità di lotta che si tramutano in feste e in canzoni.
Io condivido la convinzione di padre Balducci che sia possibile far emergere dal nostro intimo, come la storia ci chiede, quell’homo ineditus, cioè mai visto prima nella storia, absconditus, che si cela in ciascuno di noi. Chi più profondamente è riuscito a scandagliare l’umanità – diceva Balducci – ha intravvisto quell’homo absconditus, quelle potenzialità umane che possono innovare la terra e salvarla. Balducci citava, per esempio, il Levi-Strauss che ha scritto: “L’umanità è ricca di possibilità impreviste, ciascuna delle quali, quando apparirà, non mancherà di sbalordire gli uomini”.
Vogliamo provare a essere così? Non è vero che il capitalismo ha vinto per sempre. Egli si avvolge nelle proprie contraddizioni. Il libero mercato significa per i ricchi condanna a una competizione senza limiti. Ma ormai l’economia verifica che i limiti esistono, il liberismo stritola i suoi stessi portabandiera.

Ricordo due vecchi saggi un giorno, sul limitare di un immenso conflitto, si interpellarono a vicenda. “Caro professore – scrisse Albert Einstein – cosa possiamo fare davanti a questa umanità in pericolo?”. “Caro professore – rispose Sigmund Freud – quando Tanathos (cioè l’istinto di morte) cerca di erigere i suoi trionfi, Eros (cioè l’istinto di vita, l’amore) deve mobilitarsi, compiendo non professioni di buoni sentimenti ma atti, anche simbolici, di riparazione”.