Spiritualità in America latina

di Demarchi Enzo

Autori “doc”
A scrivere, di comune accordo, un libro sulla spiritualità in America latina – Spiritualità della liberazione, trad. presso Cittadella Ed., Assisi 1995 – sono “due temerari autori europei (spagnoli)” che da tempo cercano di “rinascere latinoamericani” (p. 28): Pedro Casaldáliga, da ventott’anni brasiliano di adozione, vescovo di São Félix do Araguaia, nel Mato Grosso e José Marì­a Vigil, ex professore della pontificia Università di Salamanca, da sedici anni partecipe, come pastore e teologo, dell’avventura spirituale, culturale, umana e politica del Nicaragua. Va subito detto che essi hanno sposato in pieno la “causa” di quella spiritualità della liberazione che si vuole caratteristicamente latinoamericana e tuttavia capace di parlare cattolicamente, anzi ecumenicamente, a tutti.

Spiritualità vissuta
Il libro non espone teorie sublimi, non è un trattato di teologia della spiritualità, nemmeno di una spiritualità esclusivamente e rigidamente cristiana. È invece un libro di spiritualità vissuta, e quindi incarnata (“inculturata”) nell’oggi dell’America latina; una spiritualità cristiana, certo, e in senso forte, di un cristianesimo di lotta (cfr. pp. 264 ss), di liberazione, appunto: un cristianesimo che ha la macroecumenicità di Dio stesso (cfr. pp. 296 ss). Si tratta di una spiritualità cristiana capace di abbracciare (e di rispettare!) “tutta la spiritualità umana, nel suo versante più intimamente personale e nelle sue implicazioni più comunitarie e sociali” (p. 27). Senza dimenticare che “hanno uno spirito anche quelli che non hanno il nostro spirito. Hanno spiritualità anche quelli che non hanno una spiritualità cristiana, perfino quelli che dicono di rifiutare le spiritualità…” (p. 37); questo perché lo spirito di una persona è “ciò che vi è di più profondo nel suo essere: le sue “motivazioni” ultime, il suo ideale, la sua utopia, la sua passione, la mistica di cui vive, con cui lotta e da cui sono contagiati gli altri” (p. 33 e 38).

Spiritualità umana e cristiana
Il libro si divide in tre capitoli (suddivisi a loro volta in numerosi sottotitoli). Il primo illustra ed esemplifica la distinzione tra spiritualità umana fondamentale e spiritualità esplicitamente cristiana. Distinzione, non dicotomia o, peggio, esclusione: c’è un’unica storia umana che è storia di salvezza, animata dal medesimo Spirito, anche quando non conosciuto o non riconosciuto come tale. La spiritualità umana fondamentale, o etico politica, “esiste in ogni persona (…) e attinge alle fonti della vita, storia, realtà sociale, prassi, riflessione, sapienza, contemplazione… in una parola, a tutte le fonti della ragione e del cuore” (p. 51). Il secondo capitolo, Lo Spirito liberatore nella “patria grande”, è dedicato a questa spiritualità e presenta quindi caratteristiche antropologiche e storico-culturali come valori umani atti a delineare una fisionomia spirituale dei popoli latinoamericani. Così si potranno leggere sottotitoli come: indignazione etica, allegria e festa, ospitalità e gratuità, solidarietà, ecc. Viene spontaneo confrontare tali qualità con quelle tipiche del nostro mondo europeo-occidentale: ci sembrerà forse di ritrovare qualcosa che abbiamo dimenticato in qualche angolo della coscienza e a cui aspiriamo con nostalgia (cfr., per es., In contemplazione, pp. 111-113). Il terzo capitolo parla della spiritualità esplicitamente cristiana o evangelico-ecclesiale, quella che si realizza nelle modalità della fede rivelata, “nello spirito di Gesù liberatore”, come dice il titolo. È la parte più estesa e approfondita del libro (pp. 143-359). Vi sono dette appassionatamente e semplicemente cose “antiche e nuove”, animate dal “soffio” vivificante e trasformante di una fede inculturata in un continente oppresso e povero. Accenno solo ad alcuni degli spunti per noi più significativi.

Il Dio cristiano e la lotta contro gli idoli
“La questione che ci si pone e ci tocca più profondamente (in America Latina) non è tanto se siamo credenti o atei, ma di quale Dio siamo credenti e di quale Dio siamo atei. Il nostro problema non è se esiste o non esiste Dio, ma quale sia il vero Dio: discernere tra il Dio vero e la moltitudine degli idoli (…). Ancor oggi, cristiane sono le maggioranze oppresse d’America Latina e cristiani si dicono pure i loro oppressori. Diventa evidente che gli idoli del potere e del denaro sono attivi ed esigono molte vittime, anche se camuffati sotto parvenze cristiane. (…) Ci dichiariamo atei di fronte agli idoli, anche quelli che hanno nome cristiano. Ci uniamo all’ateismo di tutti quelli che rifiutano gli idoli” (pp. 152-153). Se possono sembrare parole forti, lo si deve solo al fatto che si ricollegano paradossalmente alla più genuina tradizione biblico-monastica (cfr. le penetranti riflessioni di Enzo Bianchi, della comunità ecumenica di Bose – Biella, in Il radicalismo cristiano, Gribaudi, 1985, pp. 15-16) e che forse… sono diventati deboli i nostri palati. Ci sono idoli per credenti e non credenti; l’idolo infatti è quello che pretende di sostituire Dio e al tempo stesso schiavizza l’uomo; ed è sulla pelle dell’uomo che si gioca ogni discorso su Dio.

La sequela di Gesù
“Il Nuovo Testamento non ci dice tanto che Gesù è Dio, quanto che Dio è Gesù. Ciò significa che tutto ciò che noi possiamo sapere di Dio lo dobbiamo imparare da Gesù; che non possiamo manipolare la rivelazione che Dio ci fa in Gesù correggendola a partire da quello che già pensavamo… bensì dobbiamo, al contrario, correggere la nostra idea di Dio in funzione di ciò che Gesù ci manifesta di Dio” (p. 154). “Il problema non consiste per noi nella de-mitizzazione della figura di Gesù, ma nella sua de-manipolazione (…). Ciò che si vuole in America Latina nel tornare a Gesù è che non si possa presentare Cristo in connivenza con gli idoli (…). Per noi quindi “tornare a Gesù”, rivendicare insistentemente il “Gesù storico” non è un esercizio intellettuale, né una mania per l’archeologia o per le catacombe, bensì fedeltà appassionata, zelo per il ricupero dell’autentico volto di Gesù, dell’autentica e normativa rivelazione di Dio, del genuino carattere cristiano di Dio e della Chiesa…” (pp.147-148). E ancora: “Essere cristiani è essere seguaci di Gesù… Siamo il suo corpo storico adesso (…). Nel corso della storia la sequela è stata travisata ed offuscata da una duplice tentazione: quella di codificare in dogmi dottrinali il mistero stesso del Gesù storico con la “rivoluzione” spirituale che portava con sé, oppure quella di ridurre a una sorta di mimetismo – imitazione – quella che lungo i secoli sarebbe dovuta essere sostanzialmente eguale e costantemente diversificata, una sequela responsabile, creativa, profetica” (pp.186-187). Non si tratta qui evidentemente di rifiutare i dogmi, ma di non fare della “dottrina di fede” un comodo sostituto del “cammino di fede”: questo comprende quella, non necessariamente l’inverso. Nemmeno si tratta di scegliere il Gesù della storia contro il Cristo della fede; al contrario, è in gioco la concretezza storica della nostra fede in Cristo.

Alcuni lineamenti del volto di Gesù, quale emerge oggi in America Latina

  • Gesù, rivelatore di Dio e profondamente umano: “Tutto nella sua vita diventa per noi esempio di umanità conquistata. Solo Dio poteva essere così profondamente umano”;
  • annunciatore e realizzatore del Regno, e denunciatore dell’antiregno: “Tutto ciò che Gesù ha praticato tende a realizzare la volontà di Dio – il Regno – nella storia stessa, nella sua situazione concreta (…). Denuncia gruppi sociali che sfruttano il popolo nell’ambito sociale e/o religioso… si scontra anche col Tempio e con la religione oppressiva” (cfr. pure Regnocentrismo, pp.163-175);
  • uomo povero e incarnato tra i poveri, uomo di conflitto: “La sua buona notizia per i poveri fu al tempo stesso cattiva notizia per i ricchi. Prese inequivocabilmente partito per i poveri e gli esclusi”;
  • uomo libero, compassionevole, ecumenico: (limitandoci al tratto ecumenico) “Figlio di un popolo che si sentiva “eletto”, Gesù non ha una mentalità settaria; è venuto anzi ad abbattere il “muro della separazione”. Proprio a modello la condotta del samaritano scismatica… presenta l’amore ai poveri come criterio ultimo di salvezza”;
  • via, verità e vita: “I vangeli ci presentano Gesù come uomo in cammino verso la “sua ora”: la Pasqua… Egli è stato, come nessun altro in vita, la “speranza contro ogni speranza”… Per questo è giunto ad essere per tutti non solo la Via e la Verità, ma anche la Risurrezione e la Vita” (pp.190-195).

Il Cristo risorto è lo stesso Gesù che passò facendo il bene, che “patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto”. Ci sentiamo interpellati: nei nostri atteggiamenti e nelle nostre azioni si vedono i tratti del volto di Gesù? Lo si vede nella catechesi, nella predicazione, nelle celebrazioni comunitarie, lo si tocca con mano nella nostra vita? (cfr. p.196 ss).

Incarnazione e vita della Chiesa
In Gesù, Dio si è fatto carne, storia, umiliando se stesso fino alla morte, assumendone una cultura, accettandone il conflitto, entrando nel processo storico dei popoli… (cfr. pp.175-185). “Gesù Cristo è la solidarietà storica di Dio nei riguardi degli uomini… Per la nostra fede i diritti umani sono interessi storici di Dio (…). Se crediamo in questo Dio, se accettiamo questo Gesù Cristo, uomo conflittuale, accusato, condannato a morte, appeso ad una croce, interdetto dai poteri imperiali, religiosi ed economici del suo tempo… dovremo pure necessariamente, come Chiesa, rivedere o trasformare la nostra teologia, la pastorale in quanto modo di gestire la vita di questa fede, e la spiritualità in quanto è questa stessa fede vissuta in ognuno dei cristiani” (pp.184-185). Non è questa, nella semplicità e nel coraggio della fede, una traduzione della “Ecclesia semper reformanda” secondo lo Spirito di Gesù?

La vita di preghiera
Potremmo essere tentati di pensare che una spiritualità così impegnata come quella che si vive in America Latina non possa dare troppo spazio alla preghiera… ma ascoltiamo: “Per la spiritualità della liberazione l’obiettivo finale è identico a quello di tante altre spiritualità: arrivare a vivere in un abituale “stato di preghiera” (…). La preghiera è in ogni caso una dimensione che non si improvvisa, ma che occorre coltivare seriamente… La preghiera richiede un suo tempo e un suo luogo, perfino degli strumenti suoi (…). Un operatore pastorale che non faccia individualmente almeno una mezz’ora di preghiera al giorno, oltre a quella fatta in gruppo, non ha la statura adatta a un operatore pastorale (…). Sarebbe assurdo prescindere dalla liturgia della Chiesa (…). La nostra preghiera è anche naturalmente biblica. Lo è sempre stata nella vita della Chiesa… È però ancor più biblica nella spiritualità della liberazione perché lo è in maniera più popolare… le comunità recitano i salmi, cantano la Bibbia, la utilizzano con destrezza ricorrendo alle sue figure, ai fatti e alle parole più toccanti (…). In ogni caso, perché la preghiera sia veramente cristiana, secondo lo Spirito di Gesù, dovrà sempre esprimere il ringraziamento al Padre e l’impegno con la storia” (pp.224-236). Come si vede, una spiritualità della liberazione è eloquente ed esigente in fatto di preghiera; anche qui essa vuole seguire un unico maestro: Gesù! (cfr. p.235).

Il primato di Dio
Quanto al prologo e all’epilogo del libro, che meriterebbero tutto un discorso a parte per la loro densità e profondità, non posso far altro che raccomandarne “encarecidamente” la lettura. È significativo ed istruttivo che la prima e l’ultima parola sia imperniata sul principe dei mistici cristiani: San Giovanni della Croce. Ed è Gustavo Gutiérrez, il padre della teologia della liberazione, autore dell'”epilogo”, a sintetizzarne l’attualità e l’importanza per l’America Latina e… per la Chiesa tutta: “Anche la giustizia sociale (anche il povero… la nostra stessa teologia) può trasformarsi in un idolo e dobbiamo purificarcene per affermare con chiarezza che Dio solo basta (…). In ultima istanza l’opzione per i poveri è un’opzione teocentrica, una vita incentrata in Dio” (pp.367-368). Avranno tutti i teologi, anche quelli della Chiesa in Occidente, il salutare coraggio di denunciare, oltre che la demagogia in cui si incorrerebbe nel parlare in un certo modo dei poveri, anche il pericolo di fare di ogni teologia una idolatria?