Chiudere i conti con la storia

di Cortese Fulvio

Quale spazio per il diritto?

Una frontiera delicata

Con un saggio dal titolo assai esplicito (Chiudere i conti con la storia. Colonizzazione, schiavitù, Shoah, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009), Antoine Garapon, noto giurista francese e direttore dell’Institut des Hautes études sur la Justice di Parigi, affronta questioni sensibili, cui è difficile dare una risposta: come porre rimedio ai mali della storia? Come riparare, mediante gli strumenti del diritto, le ferite, sia individuali sia collettive, che le vicende storiche del colonialismo, della schiavitù e dei genocidi lasciano ancor oggi aperte? Si tratta di uno spazio inesorabilmente lasciato al dominio della sola politica? O si può, invece, ipotizzare che le istituzioni della comunità internazionale o singoli Stati o singoli giudici di singoli ordinamenti giuridici possano affermare, a tale proposito, principi vincolanti di carattere universale?

Gli interrogativi che si pone Garapon segnano i confini di una frontiera molto delicata. Ciò per la ragione, innanzitutto, che il tema di cui si occupa coinvolge episodi storici sempre discussi e dolorosi, rispetto ai quali, paradossalmente, e al di là dell’accertamento di singoli contributi individuali, le responsabilità più generali o collettive degli accadimenti drammatici che li hanno caratterizzati sono talmente diffuse da essere continuamente e facilmente invocabili e rinnovate.

Ma la delicatezza del tema dipende anche da un altro motivo. Le vittime, il più delle volte, non esistono più; una reintegrazione materiale, spesso, non è nemmeno ipotizzabile; gli stessi carnefici, spesso, non esistono più; né è così semplice capire chi siano i soggetti meglio capaci di raccoglierne l’eredità e di accollarsi i rispettivi ruoli. Riportare indietro le lancette della storia non è naturalmente possibile, e ciò costituisce un ostacolo assai complesso da superare.

Garapon, ovviamente, non è inconsapevole circa il fatto che alcuni principi universali esistono già.

Le importanti acquisizioni che le società occidentali hanno gradualmente maturato in merito alla tutela dei diritti umani è il segno più tangibile dei progressi che la riflessione più ampia sui mali della storia ha comportato anche per il diritto.

Ma sono numerosi anche i casi in cui autorità giurisdizionali o autorità pubbliche, sia statali sia internazionali, si sono pronunciate su singole ipotesi di riparazione di torti subiti in occasione di eventi storici.

Ciò che Garapon vuole evidenziare, tuttavia, è che, salvi rari casi, le soluzioni adottate, di natura prevalentemente economica, non sono mai state veramente adeguate; e questo per la ragione che esse sarebbero sempre insufficienti rispetto alla soddisfazione piena dell’esigenza di riconoscimento di cui le vittime in questione sono normalmente titolari.

I risarcimenti sono insufficienti

Le forme di ristoro puramente monetario, infatti, hanno un limite: esse attribuiscono sempre e comunque un prezzo a ciò che per definizione non ha prezzo alcuno.

Da un lato è innegabile che questo prezzo è il frutto di una logica compensativa di per sé positivamente valutabile, poiché essa ha come scopo il fornire al danneggiato i mezzi economici per riappropriarsi di un ruolo socialmente attivo.

Dall’altro lato, però, è altrettanto innegabile che, nella prospettiva del riconoscimento di cui si fanno portatrici le vittime di determinati eventi storicamente rilevanti, non si tratta di ripristinare, ora per allora, un equilibrio di carattere patrimoniale tra situazioni individuali facilmente definibili, bensì di dare voce a istanze di valore fortemente soggettive e differenziate, in quanto tali insuscettibili di ponderazioni standardizzate e uniformi.

Soprattutto, poi, il risultato che la corresponsione di una somma di denaro non riesce a raggiungere è l’accreditamento attuale delle istanze delle vittime nel dibattito sociale, nel senso cioè di una loro promozione a interlocutori costanti, specialmente al fine dello stabilimento convenzionale di una verità pubblica e condivisa: corrisposta la somma, infatti, esse sono ancora lasciate a loro stesse e al loro ruolo, in un certo senso statico, di vittime destinate a essere ricordate sempre e solo come tali.

Quale riparazione può esservi, d’altra parte, se il contatto tra la vittima e il carnefice è soltanto istantaneo ed episodico? Quale riaffermazione di valore può transitare attraverso un gesto isolato? Quali diritti possono dirsi effettivamente ristabiliti senza l’esperienza di una loro pratica effettiva?

È percorribile un’altra via?

Il punto di svolta nell’approccio sistematico seguito dal giurista francese è ben evidenziato da Daniela Bifulco, autrice di un’agile, quanto preziosa, prefazione: «Dell’inadeguatezza di ogni – già collaudata – teoria della conoscenza a dar conto del problema del riconoscimento Garapon prende atto, scrivendo un saggio che si pone in una scia di pensiero che guarda al diritto e ai diritti, prima ancora che come sistemi normativi precostituiti, come esperienze intersoggettive, come il risultato di pratiche e lotte sociali» (pag. XII).

In altri termini, l’esigenza di riconoscimento da parte delle «vittime» può essere soddisfatta soltanto se resa oggetto di una sorta di procedimento cooperativo, nel quale l’offerta riparatoria non si risolva in un unico atto di dare-avere, e si esprima, piuttosto, in un gesto spontaneo di riconciliazione e di accettazione reciproche.

Non a caso Garapon rievoca l’idea del dono: «La logica del dono si oppone infatti sia alla giustizia commutativa sia a quella distributiva, perché il dono non è inteso come omaggio a un imperativo di giustizia, essendo invece rivolto a qualcuno. (…) Il denaro versato, a quel punto, non equivale più a un pagamento, indicando piuttosto un indebitamento, destinato, per giunta, a non poter essere saldato» (p. 196).

L’intuizione di Garapon, per certi versi, può dirsi felice.

L’intrinseca instabilità del rapporto che si viene a creare tra chi dona e chi riceve è foriera di potenziali nuovi rapporti, tesi a rinnovare il senso di reciproca dipendenza e, in tal modo, la necessità di un mutuo riconoscimento e di una mutua integrazione. Non è un caso che l’autore francese apprezzi in modo particolare i casi in cui il risarcimento monetario si è tradotto in forme di indennizzo puramente simbolico, poiché in tal caso la gratuità dell’azione donante è emersa in tutta la sua evidenza.

Ma l’idea del dono è anche ambigua; e in ciò consiste il limite della proposta di Garapon.

Non è forse vero che un dono, sia pur assolutamente spontaneo, mette sempre il ricevente in una condizione, anche soltanto implicita, di dovere? Non si rischia, quindi, in tal modo, di trasformare le semplici vittime in vittime riconoscenti, delimitandone ulteriormente le possibilità espressive e il raggiungimento, finalmente, di uno status di pari dignità?

Ciò nonostante, la riflessione proposta da Garapon ha il merito indubbio di aver individuato l’elemento che può contribuire a dare una vera svolta al dibattito in questione. Se il diritto si vuole occupare dei mali della storia, lungi dal proporsi interferenze con la ricerca e con gli esiti dell’analisi storiografica, esso può istituire tra le vittime e i carnefici (o, meglio, tra chi oggi li rappresenta) incentivi istituzionali di dialogo e di reciproca dipendenza.

Lo spazio della politica, intesa questa volta come arena di pratiche di riconciliazione, non deve considerarsi quindi come un momento necessariamente negativo; esso, tuttavia, abbisogna di stimoli normativi capaci di rinnovare costantemente il senso di pari dignità di tutti gli interlocutori, perché proprio il perseguimento di un simile metodo è il primo obiettivo in cui si risolvono l’istanza di riconoscimento attuale delle vittime e, con essa, il bisogno di «chiudere i conti».