Le vittorie di Pirro del riformismo

di Cavadi Augusto

Non so se vedo bene, ma pare che nell’esistenza dei singoli come nella storia delle società si passi – solitamente – dalla voglia di rivoluzione giovanile alla rassegnata conservazione senile. E nel mezzo? Nella piena maturità, quando sono tramontate le illusioni, ma resiste qualche brandello di speranza, si opta per il riformismo. Il secolo XX ha costituito, in proposito, una lezione tragicamente eloquente: il comunismo sovietico (ferocemente avverso a ogni ipotesi riformista) non è arrivato neppure a sé stesso, fermandosi alla fase transitoria del socialismo «reale», ma – secondo lo storico marxista Eric Hobsbawm – è servito, fungendo da spauracchio, a costringere i governi dei Paesi liberaldemocratici a dare un volto «sociale» allo Stato (Welfare State). Insomma, ha giovato ai proletari del mondo più dove non si è insediato che dove ha raggiunto l’egemonia. Così, in questo primo scorcio di XXI secolo, è sempre più difficile imbattersi in progetti rigidamente statalisti o altrettanto rigidamente liberisti: a parole il riformismo socialdemocratico (o, se si preferisce, liberalsocialista) è deriso da destra e da sinistra, ma nei fatti è praticato sia in Stati ufficialmente social-comunisti (Cina e, in parte, Cuba) sia in Stati ufficialmente liberal-capitalisti (come gli USA e, in parte, la Gran Bretagna).

Ambiguità del termine

Tutto bene, allora? Possiamo guardare con fiducia al futuro del pianeta, gloriosamente in marcia verso un saggio equilibrio fra tradizione e rinnovamento, fra le ragioni della conservazione e l’aspirazione al nuovo? Le cose starebbero così se il successo del riformismo non equivalesse, per troppi versi, a una vittoria di Pirro. Tutti riformisti, nessun riformista. Già la parola «riforma» contiene un’ambiguità semantica ineliminabile. Essa, infatti, significa «mutamento della forma»: ma ognuno, poi, intende a modo suo sia «mutamento» che «forma».

Ri-formare significa dare a una struttura organizzativa, istituzionale (come uno Stato o una Chiesa) una forma diversa rispetto all’attuale: ma «diversa» può significare inedita, interamente nuova, e può significare originaria, antica e perduta. C’è una bella differenza tra ri-formare lo Stato in senso progressivo, con le opportunità e i rischi della sperimentazione, e ri-formarlo in senso restaurativo, con la volontà di restituirlo a una fase storica precedente (che in Italia potrebbe essere il 1948 per alcuni, il 1922 per altri, il 1861 per altri ancora).

Il quadro si complica ulteriormente a seconda del significato secondo cui ogni attore politico intende la categoria «forma». Nella storia del pensiero occidentale essa oscilla fra due accezioni profondamente diverse: la forma come configurazione esteriore, apparenza fenomenica, e la forma come essenza intima, struttura ontologica. È nel primo senso che la intendiamo quando affermiamo che «Non è una questione di forma, ma di sostanza»; mentre, nel secondo senso, meno comune ma più fedele al linguaggio filosofico, la forma – lungi dall’identificarsi con la pura formalità – è un altro nome per dire la sostanza di un ente o di una questione.

È facile intuire, a questo punto, che l’etichetta «riformismo» copre progetti socio-politici assai differenti. C’è chi accetta le riforme settoriali per preservare intatta – proprio attraverso il maquillage della forma esteriore – la forma costitutiva dell’assetto sociale, la struttura portante dello status quo; e c’è chi intende le riforme settoriali come tappe graduali di un processo mirante aàmutare la forma della società nel senso radicale, la sua logica immanente e propulsiva. Martin Lutero, formato al vocabolario della Scolastica medievale, sapeva cosa metteva in gioco quando, sotto la bandiera della «Riforma», lottava per una rifondazione della Chiesa, per un ripristino del suo DNA costitutivo; per le stesse ragioni (ma da un’ottica opposta) Papa Giovanni XXIII, non immemore del significato impegnativo del semantema «riforma», ha preferito adottare il vocabolo, molto meno scardinante, di «aggiornamento» per designare l’obiettivo del Concilio ecumenico Vaticano II.

Riformare, ma in quale direzione?

Per questo intreccio di significati, «riformismo» oggi rischia di denominare molte posizioni e il contrario di esse. L’uso retorico del vocabolo serve ai partiti per pescare voti a destra e a manca: a destra, per rassicurare che non si vuole operare nessuna rivoluzione massimalista; a sinistra, per rassicurare che non si vogliono mantenere intatti privilegi, ingiustizie e sperequazioni. Perciò occorre, come quando si acquista la marmellata al supermercato, fare lo sforzo di andare a leggere gli ingredienti in caratteri minuscoli: vuoi le riforme? Anch’io. Non sono così stanco da arrendermi alla condizione attuale del mondo né, d’altra parte, così infantile da pretendere «tutto e subito». Al «niente e mai» dei conservatori soddisfatti preferisco di gran lunga il «tutto a poco a poco» dei realisti insoddisfatti. Ma prima di affiancarmi alla tua impresa, ho l’esigenza che ti spieghi quali riforme vuoi: perché non ogni cambiamento, settoriale o complessivo, è positivo solo perché è cambiamentoà(così, solo per un esempio non del tutto casuale, non ogni riforma costituzionale potrebbe trovarmi favorevole: e più si presentasse come radicale, più susciterebbe la mia vigilanza critica). L’inganno è dietro l’angolo, è raro che il più oscuro reazionario si presenti come contro-riformista: preferirà dichiararsi riformista al quadrato, propugnatore della riforma delle riforme precedenti. Insomma, il riformismo vale quanto vale lo scenario generale di società verso cui procede passo dopo passo: un abisso separa il riformismo temporeggiatore dei moderati (che, secondo l’ultracitata massima di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vogliono cambiare tutto con l’intento che non cambi nulla) dal riformismo strategico di chi vuole mutare l’identità stessa di un sistema per portarlo, secondo le preferenze soggettive, molto avanti o molto indietro nel percorso della storia.

Le disavventure dell’ideale riformista hanno indotto Graziella Priulla, in uno dei suoi testi più recenti, a proporre una sorta di moratoria nei discorsi pubblici e nella stessa prassi politica: «In un Paese dove i controlli sono sostanzialmente affidati alla sola azione penale, sarebbe logico attuare il controllismo prima del riformismo. A che servirà l’ennesima miniriforma inapplicata? Sul lavoro, sulla pubblica amministrazione, sulla finanza ne abbiamo già viste tante» (Riprendiamoci le parole. Il linguaggio della politica è un bene pubblico, Di Girolamo, Trapani 2012, p. 98). Parafrasando Pascal, insomma, si potrebbe dire che le buone riforme ci sono state tutte: si tratta adesso di metterle in pratica.