Oltre il principio di disperazione

di Opipari Marco

Tre chances

Questo articolo si propone di rintracciare alcune linee presenti nel pensiero di Gunther Anders (cfr. P.P. Portinaro, Il principio di disperazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003), che consentono di andare oltre un’interpretazione troppo univoca e pessimista della tecnica e dei suoi effetti sull’uomo, senza tradirne il pensiero e soprattutto senza smarrire quella dimensione di critica radicale all’istanza tecnologica che lo caratterizza.

È attraverso questa lente, quindi, che proverò a leggere tre momenti della critica andersiana alla tecnica, specificamente i saggi su Beckett ed Eichmann e il carteggio fra l’autore e Claude Eatherly, il «pilota» di Hiroshima: scritti e lettere che restituiscono con formidabile chiarezza la frantumazione nell’individuo contemporaneo dei momenti rispettivamente teoretico, politico ed etico, precisando come si stia qui schematizzando molto, dato che si tratta di dimensioni fortemente intrecciate dell’agire umano. Sulle tracce di una loro possibile ricomposizione.

Sull’orlo dell’abisso

Una prima descrizione della riduzione a residuo di queste tre fondamentali dimensioni dell’umano compare nel Beckett di En attendant Godot, sotto le vesti clownesche di Vladimiro ed Estragone, gli ultimi «guardasigilli del concetto di senso in una situazione manifestamente insensata»: le due figure al centro di questa favola sconclusionata incarnano infatti forme di inversione che consentono all’autore, con un’operazione finissima, di mettere in scena l’insensatezza del mondo contemporaneo proprio là dove sta, per cui la parabola senza senso dell’uomo rappresenta la parabola dell’uomo senza senso.

In stretta corrispondenza con la coazione a ripetere che caratterizza larghi tratti della quotidianità, non solo lavorativa, nel nostro occidente, Beckett propone dialoghi ciechi e gesti confusi, reiterati, subito dimenticati, che trovano la propria ragion d’essere nella ripetizione stessa. A ogni modo, una ripetizione ancora possibile solo grazie alla presenza viva di due personaggi che, sempre sul punto di andarsene, ogni volta di nuovo, decidono di restare: «Andiamocene». «Non si può». «Perché?». «Aspettiamo Godot». Sul piano storico il tempo escatologico, smarrito il momento utopicoàche lo destinava, si risolve in una pura attesa che per quanto insignificante svolge almeno la funzione estrema e coraggiosa di trattenere la Storia in piedi sull’orlo dell’abisso: nonostante la chiara insensatezza della loro condizione, Vladimiro ed Estragone continuano infatti a ritrovarsi nella sera dell’éschaton, l’ultimo giorno del mondo, perché, paradossalmente, se sono ancora lì ad aspettare vuol dire che c’è ancora qualcosa da aspettare. Perciò, per quanto insensate, le attività di queste due figure limite servono almeno a «prendere tempo», per non smarrire oltre al senso della Storia anche il sentimento della storicità. Non a caso è proprio Pozzo, avvizzita figura temporale legata a quella di Lucky nel formare la coppia signore-servo quale metafora eletta della storia in cammino, a sincerarsi che i suoi ultimi interlocutori continuino a credere nel procedere del tempo:

Vladimiro: «Il tempo si è fermato».

Pozzo: «Questo non lo deve credere, caro signore, questo non lo deve credere. Tutto quel che le pare, ma questo no».

Una deriva storica che trova il proprio compimento fra il primo e il secondo atto, quando la dialettica che la muove viene finalmente rotta dalle nuove condizioni in cui riappare la coppia PozzoLucky, per cui la cecità del primo si smarrisce nel mutismo del secondo.

Il corso storico rimane strenuamente abbarbicato a questa pura attesa che punteggia l’esistenza dei due protagonisti, sopravvivendo inavvertitamente tra le pieghe del loro bisogno di riempire con qualsiasi attività il tempo morto di questa estrema aspettativa, come dimostra la proposta di Vladimiro di «giocare a Pozzo e Lucky». Sono queste considerazioni che ci fanno condividere l’interpretazione di Anders per cui ciò che Beckett ci mostra descrivendo l’individuo contemporaneo è, per fortuna, «l’incapacità dell’uomo di essere un nichilista persino in una situazione che non potrebbe essere più disperata di così».

Se le cose stanno così, questa dimensione dell’uomo che sfugge a ogni tentativo di liquidazione illumina l’ultima trincea dietro la quale il sentire umano può trovare rifugio. In questo senso e per dirla con le parole di Anders, di fronte a un potere che, come quello della tecnica, annichilisce il valore dell’uomo e delle cose, «ciòàche spunta dal terreno sconsolatamente arido dell’assurdità, il mero tono umano, è un minuscolo conforto; ma se il conforto non sa perché conforta e quale Godot promette come conforto – esso dimostra tuttavia che il calore è più importante del significato; e che non è al metafisico che spetta l’ultima parola, ma soltanto a colui che sente amore per l’umanità».

La crepa, l’inceppamento

Attraverso noi, figli di Eichmann, l’analisi andersiana dell’Età della tecnica fa nuovamente emergere, ma da un altro punto prospettico, quel residuo fenomenologico ultima risorsa del soggetto preso negli ingranaggi impersonali degli apparati tecnologici: l’esperienza del nostro fallimento di fronte al tentativo di comprendere quale sia la costellazione di utilità di cui l’azione che ci viene imposta è cifra. Se, infatti, nell’Età della tecnica il sistema di codificazioni e la complessità delle procedure sono tali per cui, alla lettera, non è possibile per il soggetto conoscere il risultato ultimo dell’azione che sta compiendo, dunque il suo senso, per cui quest’ultima si riduce a un semplice «fare» qualcosa, è però vero che senza questa attività nessun apparato potrebbe funzionare. È quindi questo punto di crepa a offrire ancora una chance, il fatto stesso di non potere sapere, né tantomeno immaginare, il fine ultimo per ottenere il quale l’azione che ci è richiesta: «L’esperienza stessa del nostro inceppamento rappresenta ancora una chance, una positiva opportunità morale; essa può mettere in moto un meccanismo d’inibizione. Nello choc del nostro inceppamento risiede una forza ammonitrice. Infatti è grazie a esso che ci rendiamo conto che ormai abbiamo raggiunto quell’ultima sezione di confine, oltre la quale la via della responsabilità e quella della spietatezza si biforcano irrimediabilmente».

La percezione dei limiti delle nostre capacità di visione può costituire quindi una risorsa, per quanto limite, all’interno di una strategia di resistenza politica coerente, che testimonia come l’individuo costituisca sempre un possibile punto di fuga nell’economia di ogni potere di assoggettamento:

«Non riesco a immaginarmi l’effetto dell’azione. Dunque si tratta di un fenomeno mostruoso. Dunque non posso assumermene la responsabilità. Dunque devo riesaminare l’azione progettata oppure devo rifiutarla o combatterla».

Hiroshima, il buco nero

L’ultimo punto su cui vorrei soffermarmi, rappresenta probabilmente uno dei tentativi più coraggiosi di comprensione etica, per quanto di necessità a posteriori, di cui ho potuto fare esperienza: il caso Claude Eatherly.

Claude Eatherly fu la rotella di quell’ingranaggio perverso che trasformò per sempre il 6 agosto 1945, non solo per Hiroshima ma per tutto il mondo, nel «giorno in cui è avvenuto». Il fatto è che non ci fu nessun processo di Norimberga per quello che fu anzi considerato all’epoca un gesto eroico, come ciò che si doveva fare; reazione che, se messa a confronto con quella di colui che di quell’evento fu il «protagonista», produce l’effetto macabro di aggiungere al tragico il grottesco.

Dopo la fine del secondo evento bellico mondiale, il maggiore Eatherly passò infatti improvvisamente alle cronache per una serie di reati minori, dalle violazioni di domicilio ad altri falsi ed effrazioni dei generi più diversi, fino al suo internamento in un ospedale psichiatrico.

Si deve alla corrispondenza epistolare intercorsa fra Anders ed Eatherly la possibilità, oggi, di ricollocare quegli eventi nel quadro più ampio della sua biografia e di osservarne la dimensione etica, cioè il fatto che ciò che Eatherly cercava di procurarsi era nulla di più del riconoscimento pubblico della propria colpa, di essere stato il carnefice di duecentomila vittime innocenti: paradossalmente, l’unico modo per ottenere il riconoscimento della propria responsabilità, che non gli sarebbe mai stata concessa dalla Storia, fu dunque quello di portare delle prove a suo carico, compiendo atti inequivocabili dal punto di vista della loro illegalità.

L’aspetto fondamentale della vicenda non sta però, come mostra Anders, nel successo o fallimento di questo radicale tentativo di riappropriazione etica dell’evento Hiroshima, successo peraltro impossibile: l’unico potere che abbiamo su questo buco nero della storia non sta, in maniera tragicamente ovvia, nella sua revoca, ma nel fare in modo che non si ripeta mai più. Interessante non è sapere se il tentativo possa o non possa riuscire, ma il fatto stesso che il tentativo è possibile, che si può tenere viva la propria coscienza in questo sforzo quotidiano con i suoi scacchi, fallimenti e sporadici successi.

Concludendo, ciò che resta della lezione di Anders è l’idea che, al di là dei processi di alienazione che caratterizzano un mondo dominato dalla tecnica, si possa scorgere la presenza, nell’essere umano, di un nocciolo ontologicamente impenetrabile e protetto: una distanza critica dalla datità del mondo che consente di metterne in questione la presunta ineluttabilità, tanto politica quanto morale.

Marco Opipari , ricercatore universitario