Pensare il cyberspazio

di Opipari Marco

Niklas Luhmann ha scritto (1996) che «ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media». È evidente che un’affermazione di questo tipo, di per sé condivisibile se non altro per buon senso, solleva una serie di problemi di interpretazione delle forme simboliche che i media producono. La questione, poi, risulta ancor più intricata se si tiene conto di un’altra interessante considerazione del sociologo tedesco che, nello stesso luogo, sottolinea come la struttura dei media è tale per cui non può avere luogo alcuna interazione faccia a faccia tra gli emittenti e i riceventi.

Si tratta di questioni ampiamente condivise, sulle quali è ancora vivace il dibattito fra coloro che ravvisano nella virtualizzazione della vita una sorta di nuovo salto evolutivo (penso alla posizione, per la verità un po’ ingenua, di Pierre Levy) e coloro che, invece, vedono in essa il compimento della società del controllo totale. Preferisco però tralasciare, in questa sede, la letteratura apologetica del web, che ritengo nel complesso meno interessante e abbastanza nota nei suoi snodi retorici principali: democratizzazione dell’informazione, potenziamento delle facoltà e delle libertà individuali, condivisione dei talenti e delle intelligenze. Vorrei concentrarmi, piuttosto, su quelle riflessioni che, senza lanciare inutili strali nei confronti dell’universo delle reti, si sono limitate a segnalarne gli elementi di rischio, le criticità.

Media e potere

Pertanto, indipendentemente dal valore che si può attribuirle, penso sia ragionevole riconoscere la validità dell’idea per cui, banalmente, il mondo così come oggi noi lo conosciamo coincide in larga misura con quello che i media ci mettono sotto gli occhi. Mi si perdoni, lo ripeto, la scelta di fare di questa formula una sorta di dogma, ma ritengo che sia un buon punto di partenza, se non assunta acriticamente. Dopotutto, sostenere che i media detengono il potere di rappresentare la versione ufficiale della realtà, non elude la possibilità di esercitare il sospetto nei confronti della sua consistenza.

A questo punto, è possibile affrontare alcuneàfra le domande più ricorrenti a proposito degli effetti di questo stato delle cose, pur senza nessuna velleità di una risposta definitiva. Internet, la rete, la televisione, la stampa dispongono di una forza performativa senza precedenti: il potere di rappresentare eventi che sono, di fatto, incommensurabili per il singolo individuo, perché posti letteralmente al di là delle sue facoltà percettive. Tanto nel tempo, quanto nello spazio. Un’immagine, un racconto rimandano sempre ad altro rispetto a quanto indicano della realtà. Con la differenza che lo spazio multimediale non si autocomprende come uno spazio di teatro, ma come luogo in cui sono concentrate le informazioni sul mondo: gli oggetti che appaiono nello spazio virtuale della rete hanno direttamente a che fare con la questione della verità. Gunther Anders la definiva (2003) «ambiguità ontologica»: l’oggetto mediale non può essere trattato in termini estetici, perché non si precisa nella riproduzione artistica «secondo un modello», ma trasmette il presente delle cose. E allo stesso modo non è del tutto reale: non è sensibile, non si può toccarlo, confliggere, farne esperienza.

In questo senso, bisogna essere d’accordo con l’idea che non sia più rintracciabile alcuna reciprocità nel rapporto fra soggetto e oggetto, non più presenti l’uno all’altro nel «qui e ora» di una materialità concreta, ma semplicemente simultanei. In una certa misura, le forme simboliche prodotte dai media riescono a mostrare e insieme nascondere gli eventi di cui trattano: astraendoli dal luogo in cui i fatti accadono, li aliena dalla rete di significazioni al cui interno sono rintracciabili il loro senso e la loro storia.

L’effetto è che essi raggiungono lo spettatore sotto forma di «semilavorati» che non possono essere oggetto di attività interpretativa in senso stretto. Anzi, che sono spesso già confezionati, interpretati per noi secondo logiche altre e le più diverse: politiche, economiche, sociali, ecc. Il rischio che i media monopolizzino l’immaginario collettivo non è dunque sottovalutabile. In particolare per quei soggetti svantaggiati la cui identità dipende dai media in misura maggiore (J.B. Thompson, 1998). Il pericolo, se così si può definirlo, è il potere dei media vecchi e nuovi di determinare, nei suoi contenuti, il volume dei desideri, del gusto, delleàopinioni del soggetto: un po’ come l’antica figura dello stultus, così come emerge nello stoicismo.

Inferni di stupidità

Lo stultus era l’individuo esposto a tutti i venti: uno spirito debole, che si lasciava sedurre da tutte le rappresentazioni provenienti dal mondo esterno, accettandole senza sottoporle a esame, senza essere in grado di analizzare ciò che esse potevano realmente rappresentare. Ciò fa dello stultus un soggetto vulnerabile nella misura in cui egli consente che tali rappresentazioni si confondano con i propri convincimenti, determinando passioni, ambizioni, abitudini. Viene meno la facoltà di tracciare uno spartiacque netto fra sé e il mondo, di dirimere fra sé, il proprio tempo, la propria vita e il tempo della cultura, con le dinamiche che le sono proprie. Come nell’identità del «nickname», lo stultus è colui che non si ricorda di niente, o meglio che non assegna un ordine di priorità alle proprie memorie: non distingue tra l’effimero e ciò che, invece, merita di essere ricordato. Lascia che la propria vita scorra via, senza orientare la propria volontà verso obiettivi precisi: insomma, non ha presa sulla propria attualità, sull’unica cosa che si può definire davvero reale (Foucault, 2004).

Tornando al presente, per quanto riguarda la rete, per esempio, nel suo spazio immediato viene disposta una topografia del tempo che appiattisce gli eventi su di una sincronia priva di memoria: un’istantaneità sulla cui superficie lo stultus contemporaneo conduce esperienze dimentiche di sé, le quali si dissolvono nello spessore diafano di questa tecnologia. L’oblio assume uno strutturale valore positivo, in quanto consente di «ripulire» l’identità precedente e di ricominciare daccapo, indossandone una nuova: una serialità e un’omologazione dell’esperienza che rischiano di gettare il soggetto, per usare una felice formula di Saul Bellow, nell’«inferno della stupidità».

Credo che utilizzare la stultitia come figura limite del soggetto virtuale possa offrire alcuni opportuni spunti di riflessione, soprattutto per i cyberprofeti. Uno strumento utile a descrivere la condizione di «cyberdipendenza»: l’ossessione per un’autopromozione del sé fondata sui legami deboli, l’accumulazione delle amicizie come espressione del successo personale e una pratica del link e del commento che non esprimono alcun tipo di reale dialettica.

Una critica possibile

In un recente lavoro, Geert Lovink – autore cheàda anni si occupa di sondare le opportunità di critica sociale e attivismo politico che le reti possono offrire -, mette in luce come l’attuale infrastruttura di internet, dominata da Google e dai social network tradizionali come Facebook, fondata sulla promozione del sé, finisca per disperderne le potenzialità a tutto vantaggio dei grandi gruppi di potere. Il suo è un progetto ambizioso: produrre una nuova teoria critica dei network digitali, che egli definisce «ricerca in azione». L’obiettivo è quello di promuovere un discorso critico che utilizzi lo stesso linguaggio, le stesse categorie che i network digitali hanno prodotto, anziché tradurli in un linguaggio altro, certamente più raffinato come quello accademico più tradizionale, ma forse meno adatto a intercettare le forme simboliche che nella rete si formano e che dalla rete irradiano la vita reale. La pratica del commento, termini come link, libero, gratuito, blog, tag, community, condividere, veicolano pratiche e significati che necessitano di un nuovo modello interpretativo, per essere compresi. Una teoria critica della rete che possa dotare i singoli soggetti di nuovi strumenti dialettici, con cui navigare nel cyberspazio senza andare alla deriva. Per evitare, come per la figura dello stultus presa ad esempio, che nel soggetto si perda quel legame fra esperienza, corpo e memoria che tesse i fili di ogni biografia: se dal modo di vivere e vestire, di abitare il mondo e scambiare opinioni, tutto è appreso dai media, è inevitabile un livellamento delle esperienze.

La multimedialità permette di accedere a tutte le possibili forme di esistenza con l’immediatezza della pressione digitale, ma attraverso scelte immediatamente revocabili, che per definizione nulla hanno a che fare con la vita reale. Tutti noi sappiamo, infatti, che le cose che ci accadono, quelle che modellano la nostra identità, le scelte che facciamo, le decisioni prese, i rimpianti come i rimorsi, purtroppo non si possono cancellare: la possibilità di indossare e abbandonare un’identità come fosse un abito, di fare scelte che, come in un gioco, non producono alcun effetto, non possono rappresentare luoghi di esercizio della libertà. Quest’ultima infatti è sempre imparentata al rischio, agli effetti di senso che l’agire produce sulla propria vita e su quella degli altri. In questo senso la libertà di alcune forme di esperienza online è solo apparente.

Per dirla diversamente, internet non è un certo una macchina alienante, ma è una materia affascinante e pericolosa, da maneggiare con le dovute cautele.