Dentro la crudeltà della globalizzazione

di Realdi Giovanni

Non arrendersi alla logica del dominio

Genova per noi oggi
Genova, vent’anni dopo

Dio forse non gioca a dadi, e quella volta le pedine vennero spostate con sapienza. Se altri incontri, messaggi, forse ritardi, non si fossero frapposti, alcune persone a me care avrebbero tenuto fede all’ipotesi iniziale e sarebbero finite a dormire alla scuola Diaz.Se così fosse andata, oggi avremmo un motivo in più per ricordare “i fatti del G8 di Genova”, o meglio ne avremmo “il” motivo, drammatico, perché legato a una questione privata. Diversamente, per quanto documentatissimo, il G8 di Genova – come cosa pubblica, civile – appare uno dei tanti “misteri” italiani – strage di Bologna, Ustica, Gladio, cumuli di scheletri ammassati in un armadio – cantava Frankie Hi-nrg, nell’album Verba manent, del 1993. Allo scoccare dei miei vent’anni, il rapper italiano evocava la guerra alle faide mafiose, sullo sfondo l’immobile memoria conservatrice del nostro paese, all’apparenza capace di metabolizzare tutto. Del resto, non escludo che i nomi Tolemaide, Diaz, Bolzaneto, persino Alimonda, suonino lontani a molti di voi, come sono di certo estranei ai ventenni di oggi. Tuttalpiù ci passeremo sopra una serata televisiva, ipnotizzati dalle mani e dal racconto di Carlo Lucarelli.

Madrugada, vent’anni fa

«Gli avvenimenti di Genova mi sono piombati addosso con la violenza cieca, il cinismo infame e la follia disumana di una bufera vorticosa e devastante. Nello stesso tempo, però, ho assaporato il gusto dell’irrompere di una forza nuova, tinta di speranza», scriveva Giuseppe Stoppiglia, per poi citare Ettore Masina: «il movimento non violento ha avuto a Genova una sua impressionante validità… Ha riportato una sofferta vittoria, non soltanto rendendo esplicite in sede culturale le crudeltà della globalizzazione, ma anche verificandone la ferocia strutturale che essa assume ai suoi vertici. Una esigua zona “rossa”, con un gruppo di privilegiati arcidifesi dalle proprie forze armate e, fuori, tutte le contraddizioni della società moderna». La non-violenza quasi come un’esca: la vittoria dei martiri? Giuseppe suggerisce quindi una lettura: «uno sbaglio (rimediabile) è stato mettersi a dipendere dal sistema dei mass media per la propria esistenza simbolica. Tutti i mezzi di questo mondo sono secondari rispetto alla capacità di praticare relazioni vive, forti: relazioni dove ci sia scambio di cose essenziali», di contro, direbbe Turoldo, al «discorso devastante del mercadante», e alla sua logica di supremazia. «La forza dei movimenti cresce finché essi spingono gli interessati a farsi protagonisti delle proprie vite e a negare ogni involontaria complicità col dominio».

Fine del discorso

È innegabile come oggi l’esistenza simbolica di qualunque iniziativa dipenda totalmente dai socialmedia. Al tempo erano ancora inconsistenti, forse embrionali; la rete testava le sue possibilità di informazione alternativa con Indymedia e le strade di Genova sono state il primo scenario documentato in maniera massiva da cittadini qualunque, giornalisti indipendenti, freelance, per quanto con modalità novecentesche. Eppure quello che Amnesty ebbe modo di definire, riferendosi al macello della Diaz, «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale», è diventato quasi un argomento di nicchia. E tale rimarrà, nonostante i post che rimbalzeranno nelle pagine social nei giorni di ricorrenza. A meno di qualche gesto eclatante, che attiri la comunicazione/informazione mainstreame dia soddisfazione ai palati estenuati bramosi di violenza. La logica del dominio, in chiave mediatica, non è mutata: Genova 2001 venne descritta, nelle settimane precedenti, come probabile occasione di atti terroristici, come teatro certissimo di violenza – e così fu, secondo il meccanismo della profezia che si autoavvera e del pressing psicologico cui vennero sottoposti i manifestanti (che erano solo in parte preparati) e le forze dell’ordine (che hanno in gran parte dimostrato un’incapacità evidente e una malafede documentata). Dunque, senza violenza non c’è discorso. Quale spazio rimane alla non-violenza? Quale azione non-violenta potrebbe condurre le persone a ripensare a quanto successo?

I sogni della giovinezza

Farsi protagonisti delle proprie vite e negare ogni involontaria complicità col dominio: il monito di Giuseppe Stoppiglia va fatto presente. Al termine dell’estate, iniziata con il rinnovo delle cariche sociali di Macondo, possiamo chiederci come portarlo avanti, e cioè – etimologicamente – tradirlo. La logica del dominio, che è ancora quella del capitalismo neoliberista, necessita di individualità: soggetti-consumatori che, sulle piattaforme social, attraverso la profilazione operata dagli algoritmi, si adagiano sulla definizione di sé data dal sistema (io sono le mie esperienze, io sono i miei bisogni, io sono i miei acquisti); soggetti-militanti che, in dibattiti solo apparenti, si identificano con i propri valori, o meglio con la loro rappresentazione in un post, e spesso anche in un’affermazione in presenza, ma conservano la posizione dell’emancipato che deve illuminare gli altri, guardando al modello e non alla realtà; soggetti-collettivi – associazioni, gruppi – che, sulla base delle idealità che perseguono, si impegnano a cercare visibilità, a creare “eventi”, o a difendere con i denti “la nostra esperienza”, che poi è soltanto “mia”, innescando il meccanismo delle divisioni interne, delle scissioni, della germinazione di altri soggetti-collettivi fondati dagli arrabbiati che se ne vanno.Il protagonismo si è fatto ambiguo: quel che per Giuseppe era un processo di emancipazione dall’ideologia, oggi è stato reso ideologia. Senza dubbio emerge il bisogno di raccontare e di raccontarsi, ma la sovraesposizione dello storytelling è funzionale a chi genera denaro con i like. Raccontare può essere solo una fase di una effettiva esperienza di contatto tra soggetti che devono sentirsi limitati dalla presenza altrui e che da essa devono partire, rinunciando cioè a pensarsi come definiti una volta per tutte.Macondo può costituire una piattaforma per generare questo contatto; può ritornare ai racconti caratterizzanti la sua festa di fine maggio per innescare micropercorsi di approfondimento, nei quali l’aura emotiva dell’indignazione si accompagni alla fatica dello studio e alla discussione democratica; può fare rete con altri soggetti-collettivi per valorizzarli, e non per celebrare una qualche prestazione visibile; può richiamare l’attenzione su effettive situazioni di violazione dell’uguaglianza sostanziale senza usare le vulnerabilità come cassa di risonanza, senza cadere nella trappola dei diritti – politici, civili – usati come target di mercato.

Giovanni Realdi

componente la redazione di madrugada

insegnante di storia e filosofia,liceo scientifico statale “G. Galilei”Selvazzano Dentro (PD)