Novecento politico e sviluppo della democrazia

di Formigoni Guido

Un’inversione di tendenza
Suonano campane preoccupate e pessimiste sul futuro della democrazia nei nostri tempi convulsi di stagnazione economica e di pandemia globale.
Chi si diletta di questi conteggi, come l’Economist, ha registrato nel 2020 la media globale più bassa dal 2006 di un indice di democrazia calcolato su parecchi indicatori essenziali, mentre solo l’8,4% della popolazione mondiale vivrebbe in un regime di «piena democrazia», contrapposta a circa un terzo che vive in un regime autoritario.
Non che tutti questi schemi siano privi di aspetti critici, soprattutto di fronte a un concetto così impegnativo, composito e anche sfuggente come quello di democrazia. Ma suggeriscono qualcosa di non banale. Siamo di fronte a un’inversione marcata di tendenza rispetto all’ideologia diffusa di fine Novecento, quando la vittoria definitiva della democrazia liberale e capitalista sui totalitarismi era stata proclamata con enfasi tale da parlare di «fine della storia». Come spesso succede, per capire meglio questo presente incerto, si può tentare di proporre un rapido ragionamento su come le cose sono cambiate in passato.

L’affermazione della democrazia
L’«impero della democrazia» (per schematizzare il linguaggio di Tocqueville, che a metà Ottocento osservava i processi in corso negli Stati Uniti) non si è affermato semplicemente e senza conflitti. Anzi. La democrazia in senso moderno – una parola antica che veniva dalla Grecia classica rilanciata in un senso del tutto nuovo – non ha coinciso con la rottura rivoluzionaria dell’assolutismo monarchico, che certamente ha introdotto la vita europea nella contemporaneità.
Dopo gli effetti della grande rivoluzione tardosettecentesca, per un secolo almeno la nascita di esperimenti costituzionali di limitazione del potere è andata assieme alla persistente limitazione della sfera della cittadinanza a un’élite privilegiata, «indipendente» come allora si diceva, cioè maschile e dotata di mezzi economici propri. A cambiare progressivamente le cose, coinvolgendo i ceti medi e quelli popolari nella politica, furono la battaglia per l’allargamento del suffragio e per il riconoscimento di una nuova articolazione della politica basata sulle organizzazioni dei partiti popolari a base sociale e non solo parlamentare. Questa grande «crisi di partecipazione» mise capo, dopo conflitti e tensioni, a due esiti possibili, tra gli scontri di fine Ottocento e gli sconvolgimenti della prima guerra mondiale. Da una parte, a nuove sintesi «liberal-democratiche», come nella Gran Bretagna edoardiana o nella Francia della Terza Repubblica, o anche nella Germania di Weimar. Dall’altra, a inedite forme di configurazione monistica e autoritaria del potere, spinte verso nuove esigenze «totalitarie»: nella Russia rivoluzionaria o nell’Italia fascista.
Insomma, l’esigenza di governare i processi della nascente società di massa poteva condurre a esiti divergenti e non certo univoci. La grande crisi economica globale degli anni Trenta accelerò tali tendenze, portando lentamente e talvolta farraginosamente a scoprire che le funzioni dello Stato moderno dovevano essere cruciali nel governare l’economia, per salvare il capitalismo dall’autodistruzione possibile.
Ci vollero le tragedie dell’esperimento nazista (con l’ombra minacciosa del Neue Ordnung che si allargò su tutta l’Europa) e il massacro di una nuova grande guerra europea e mondiale per uscire da questo clima corrusco. La stabilizzazione postbellica nel mondo europeo occidentale – legato alla stagione inclusiva e lungimirante dell’egemonia della superpotenza d’Oltreatlantico – vide una serie di compromessi tra capitalismo e democrazia tali da legare assieme stabilità politica nelle nuove forme costituzionali, riconoscimento esteso dei diritti sociali, tendenze all’equità redistributiva marcata e progresso di un sistema economico imperniato sul fordismo industriale e il consumismo di massa. Peraltro, proprio l’alternativa ancora visibile e solida del sistema comunista globale, allargato alle cosiddette «democrazie popolari» dell’Europa centroorientale, costituiva una minaccia nel quadro della guerra fredda, ma anche un fattore centripeto per l’ordine globale di un liberalismo «embedded», potremmo tradurre «inalveato» nel quadro degli stati nazionali democratici. Trent’anni di grande sviluppo e convergenza furono ispirati da questa sintesi originale.
$La svolta degli anni settanta$ Fu però la grande crisi del decennio ’70 a configurare una nuova svolta. Da una parte, società sempre più articolate e sviluppate portavano con sé proteste antiautoritarie e soggettiviste, espresse nella contestazione studentesca, che rendevano più difficile l’unificazione politica delle spinte sociali. Dall’altra, la maturazione stessa del fordismo lo portava verso l’esaurimento: le pressioni salariali crescenti cominciarono a venire mal tollerate dagli imprenditori, i costi dell’energia (petrolio) e delle materie prime schizzarono verso l’alto ponendo i primi dubbi sulla sostenibilità ecologica del modello economico, mentre l’egemonia americana entrava in difficoltà con nuove conseguenti tensioni nazionalistiche e larga instabilità monetaria. Premevano del resto i paesi produttori di materie prime, chiedendo un «nuovo ordine economico mondiale». Insomma, la democrazia si trovò «sovraccarica» di troppe istanze, come disse un famoso rapporto della Commissione trilaterale.
Che via d’uscita si sperimentò a queste perturbazioni cruciali? Da una parte, il socialismo reale imboccava la sua crisi finale, dato che la pianificazione centralizzata non riusciva a cogliere la sfida del miglioramento delle condizioni delle popolazioni. Dall’altro, le democrazie capitalistiche scelsero, senza grandi discussioni o convergenze multilaterali, di uscire dalla difficoltà con una sostanziale depoliticizzazione dei conflitti. Si valorizzò la nuova flessibilità garantita dalla crescita del peso della finanza nel Nord del mondo e da una nuova divisione internazionale del lavoro, con lo spostamento della produzione industriale di massa verso i paesi emergenti della periferia del sistema. Questo modello garantiva spazio alla concorrenza senza rischiare di trasformarla in scontro politico. Le riforme cinesi di Deng e il crollo del comunismo europeo furono l’apparente manifestazione del successo di queste scelte, politicamente avviate nei primi anni Ottanta in modo disordinato.

Deideologizzazione e globalizzazione
Le democrazie vincenti si orientarono quindi su un ciclo di deideologizzazione e di ammorbidimento dei conflitti interni, di verticalizzazione degli esecutivi rispetto alle forme della rappresentanza, di ridimensionamento del ruolo dei partiti di massa a vantaggio della costruzione mediatica di leadership politiche più effimere e di soddisfazione individualistica delle molteplici pulsioni soggettive diffuse in una società sempre più frammentata ed esigente. La partecipazione anche marginale ai redditi finanziari compensava la perdita del peso globale del lavoro nella divisione dei redditi. Anche le sinistre moderate e riformiste si acconciavano a tentare di governare e moderare gli effetti del nuovo modello, senza contestarne le compatibilità.
La globalizzazione, come nuovo assetto politico-economico cosiffatto, ha funzionato in modo relativamente solido, sia per una certa ripresa della crescita economica nelle aree avanzate del mondo capitalistico, sia per una redistribuzione della ricchezza che ha portato enormi nuove masse di persone fuori dalla povertà nel Sud del mondo (o almeno in quella sua parte che era riuscita a inserirsi nel nuovo mercato mondiale, cioè soprattutto l’Asia sud-orientale). Di più, questa diffusione del benessere sembrava portare anche promesse di allargamento della democrazia politica anche in paesi che avevano strutture autoritarie tradizionali (i casi di Taiwan e della Corea del Sud apparvero emblematici). Peraltro, questa ipotesi doveva ridimensionarsi, soprattutto il sicuro consolidamento del «socialismo di mercato» cinese ha raccontato una storia diversa: si può conoscere la crescita e anche un notevole grado di libertà economica in un quadro di politica controllata e sorvegliata; anzi, i governanti comunisti cinesi si vantano di continuare a gestire un sistema molto più flessibile ed efficiente di circolazione delle élites rispetto alle democrazie occidentali.

Tensioni e sfide aperte
Nuove tensioni hanno però complicato questo quadro cantato da molti come ideale, all’inizio del nostro secolo. La grande crisi finanziaria del 2008 e le nuove tensioni politiche suscitate da rivolte identitarie tradizionaliste (Huntington ha parlato di un ineluttabile «scontro di civiltà») hanno messo in crisi diversi aspetti del modello. La politica è riemersa in forme nuove, molto diverse dalla normalità tecnocratica. Si pensi all’illusione occidentale di «esportare la democrazia» con la forza, contro il radicalismo islamista. Si pensi al rafforzamento di modelli populisti o «sovranisti» che hanno largamente pescato consensi nei ceti sconfitti della globalizzazione, o almeno in quegli ambienti che non hanno avuto riconoscimento nel quadro asettico dell’ordine liberale globale. Il successo di Trump negli Stati Uniti, ampiamente imprevisto e inatteso, è stato indicativo in questo senso. Non può stupire quindi che anche nei paesi «emergenti» si siano sviluppate nuove forme identitarie, nazionalistiche e semi-autoritarie (in modi diversi, nella Turchia di Erdogan o nell’India di Narendra Modi, nonché nella Russia di Putin).
Insomma, la sfida resta aperta. Si sono ripresentati negli ultimi anni temi politici cruciali: cosa sia «un popolo», come costruire consenso in società lacerate e polarizzate, quali nuove forme di aggregazione dei cittadini si possono immaginare, come selezionare le élites, come contemperare competenza e riconoscibilità? Del resto, la democrazia non è mai una conquista garantita per sempre. Essendo una creatura storica e umana, è sempre in movimento: può perfezionarsi, ma anche fallire. Ricordiamolo sempre.

Guido Formigoni

docente di storia contemporanea allo IULM di Milano

già presidente dell’associazione “Città dell’Uomo” e socio dell’associazione di cultura e politica “Il Mulino”