MELQUÍADES
Fonte: Progressive internationalCreative Commons
Francesca Albanese: “Un cambiamento rivoluzionario è in arrivo”
Eccellenze, amici,
Ringrazio i governi di Colombia e Sudafrica per aver riunito questo gruppo, i fondatori e tutti i membri del Gruppo dell’Aja per la loro posizione di principio, e gli altri per essersi uniti a loro. Spero che continuiate a crescere e che le vostre azioni concrete rimangano efficaci e incisive.
Ringrazio inoltre il Segretariato per il suo instancabile lavoro e, non da ultimo, gli esperti palestinesi, singoli e organizzazioni che si sono venuti a Bogotà dalla Palestina occupata, dalla Palestina storica/Israele e da altre località della diaspora/esilio per contribuire a questo processo, dopo aver fornito al Gruppo dell’Aja eccellenti briefing basati sui fatti.
E naturalmente tutti quelli che sono qui oggi.
È importante essere qui oggi, in quello che potrebbe essere un momento storico. Ci auguriamo che queste due giornate ispirino tutti i presenti a lavorare insieme per adottare misure concrete per porre fine al genocidio a Gaza e, auspicabilmente, allo sterminio dei palestinesi in ciò che resta della Palestina.
È importante perché questo è il banco di prova per un sistema in cui libertà, diritti e giustizia diventino realtà per tutti. Questa speranza, che persone come me nutrono con affetto, è una disciplina. Una disciplina che tutti dovremmo praticare.
I Territori Palestinesi Occupati sono oggi un vero inferno. A Gaza, Israele ha persino smantellato l’ultima funzione rimasta alle Nazioni Unite – gli aiuti umanitari – per affamare deliberatamente, sfollare ripetutamente o uccidere la popolazione che ha condannato alla distruzione.
In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, la pulizia etnica continua attraverso assedi illegali, espulsioni di massa, esecuzioni extragiudiziali, detenzioni arbitrarie e torture diffuse. In tutte le aree sotto amministrazione israeliana, i palestinesi vivono sotto il terrore dell’annientamento, trasmesso in tempo reale al mondo intero.
I pochi israeliani che si oppongono al genocidio, all’occupazione e all’apartheid, mentre la maggioranza li applaude apertamente e ne chiede di più, ci ricordano che la liberazione di Israele è indissolubilmente legata anche alla libertà dei palestinesi.

Le atrocità degli ultimi 21 mesi non sono un’aberrazione improvvisa, ma il risultato di decenni di politiche volte a sfollare e sostituire il popolo palestinese.
In questo contesto, è inconcepibile che i forum politici, da Bruxelles a New York, stiano ancora discutendo del riconoscimento dello Stato palestinese, non perché non sia importante, ma perché per 35 anni gli stati hanno tergiversato, rifiutato il riconoscimento e finto di “investire nell’Autorità Nazionale Palestinese”, consegnando al contempo il popolo palestinese alle spietate e predatorie ambizioni territoriali e ai crimini indicibili di Israele.
Nel frattempo, la Palestina è stata ridotta, nel dibattito politico, a una crisi umanitaria da gestire a tempo indeterminato, anziché a una questione politica che richiede una soluzione di principio e decisiva: la fine dell’occupazione permanente, dell’apartheid e del genocidio in corso. E non è la legge a essere venuta meno, ma la volontà politica a essere mancata.
Ma oggi stiamo anche assistendo a una frattura. L’immensa sofferenza della Palestina ha creato la possibilità di un cambiamento. Anche se questo non si riflette (ancora) pienamente nei programmi politici, è in atto una svolta rivoluzionaria, una svolta che, se sostenuta, sarà ricordata come un momento in cui la storia ha preso una piega diversa.
Ed è per questo che sono venuta a questo incontro con la sensazione che ci troviamo a una svolta storica, sia a livello discorsivo che politico.
In primo luogo, il discorso sta cambiando: si sta allontanando dal tanto invocato “diritto all’autodifesa” di Israele e si sta spostando verso il diritto all’autodeterminazione palestinese, a lungo negato, che è stato sistematicamente reso invisibile, represso e delegittimato per decenni.
L’uso dell’antisemitismo come arma contro le parole e le narrazioni palestinesi, e l’applicazione disumanizzante del quadro terroristico alle azioni palestinesi (dalla resistenza armata al lavoro delle ONG che lottano per la giustizia sulla scena internazionale) hanno portato a una deliberata paralisi politica globale. Bisogna fare qualcosa al riguardo. È giunto il momento.
In secondo luogo, di conseguenza, stiamo assistendo all’ascesa di un nuovo multilateralismo: basato sui principi, coraggioso e sempre più guidato dalla maggioranza globale.
Mi addolora non vedere ancora questo nei paesi europei. Da europea, temo ciò che la regione e le sue istituzioni sono diventate il simbolo per molti: una fratellanza di stati che predicano il diritto internazionale, ma sono guidati più da una mentalità coloniale che da principi.
Stati che agiscono come vassalli dell’impero statunitense, mentre questo ci trascina da una guerra all’altra, da una miseria all’altra e, quando si tratta della Palestina, dal silenzio alla complicità.
Ma la presenza dei Paesi europei a questo incontro dimostra che un’altra strada è possibile. A loro dico: il Gruppo dell’Aja ha il potenziale per formare non solo una coalizione, ma anche un nuovo centro morale nella politica mondiale. Vi prego di sostenerli.
Milioni di persone guardano, sperando in una leadership che possa dare vita a un nuovo ordine mondiale, fondato sulla giustizia, sull’umanità e sulla liberazione collettiva. Non riguarda solo la Palestina. Riguarda tutti noi.
In questo momento, gli stati con principi devono affermarsi. Non hanno bisogno di appartenere a schieramenti politici, colori, bandiere di partito o ideologie: devono essere sostenuti da valori umani fondamentali. Valori che Israele calpesta senza pietà da ormai 21 mesi.
Nel frattempo, plaudo alla convocazione di questa conferenza di emergenza a Bogotà per affrontare l’incessante distruzione a Gaza. È lì che dovrebbe concentrarsi l’attenzione. Le misure adottate dal Gruppo dell’Aja a gennaio sono state simbolicamente potenti. Hanno segnalato il necessario cambiamento di rotta, sia politico che discorsivo.
Ma rappresentano il minimo assoluto. Vi imploro di ampliare il vostro impegno. E di tradurre tale impegno in azioni concrete, sia a livello legislativo che giudiziario, in ciascuna delle vostre giurisdizioni. E di considerare, prima di tutto, cosa dobbiamo fare per porre fine all’attacco genocida.
Per i palestinesi, e in particolare per quelli di Gaza, questa domanda è di importanza esistenziale. Ma in realtà si applica all’umanità nel suo complesso.
In questo contesto, è mia responsabilità consigliarvi, senza compromessi e senza emozioni, il rimedio per la causa sottostante. Siamo ormai ben oltre la fase del trattamento dei sintomi, che rappresenta la zona di comfort di molti al giorno d’oggi.
E le mie parole dimostreranno che ciò che il Gruppo dell’Aja si è impegnato a fare e sta valutando di espandere è un piccolo passo verso ciò che è giusto e appropriato in base ai vostri obblighi previsti dal diritto internazionale.
Obblighi, nessuna compassione, nessuna carità
Ogni Stato deve immediatamente rivedere e sospendere tutti i legami con Israele. Deve sospendere le proprie relazioni militari, strategiche, politiche, diplomatiche ed economiche – sia in termini di import che di export – e garantire che il settore privato, le compagnie assicurative, le banche, i fondi pensione, le università e gli altri fornitori di beni e servizi nelle proprie catene di approvvigionamento facciano lo stesso.
Liquidare l’occupazione come una cosa normale equivale a sostenere o favorire la presenza illegale di Israele nei Territori Palestinesi Occupati. Questi legami devono essere recisi con urgenza.
Approfondirò i dettagli tecnici e le implicazioni nelle nostre future sessioni, ma vorrei essere chiara: intendo recidere ogni legame con Israele nel suo complesso. Tagliare i legami solo con i suoi “elementi” nei territori palestinesi occupati non è un’opzione.
Ciò è in linea con l’obbligo di tutti gli Stati derivante dal Parere Consultivo del luglio 2024, che ha confermato che la prolungata occupazione di Israele è illegale e costituisce segregazione razziale e apartheid. L’Assemblea Generale ha adottato tale parere. Queste conclusioni sono più che sufficienti per giustificare un’azione.
Inoltre, è lo Stato di Israele ad essere accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, quindi è lo Stato che deve essere ritenuto responsabile delle sue malefatte.
Come ho sostenuto nel mio ultimo rapporto al Consiglio per i Diritti Umani, l’economia israeliana è strutturata per perpetuare l’occupazione ed è ormai diventata genocida. È impossibile separare la politica e l’economia statale di Israele dalla sua politica e dalla sua economia di occupazione di lunga data.
Questi due aspetti sono indissolubilmente legati da decenni. Più a lungo gli stati e gli altri continuano a impegnarsi in questo, più questa illegalità viene legittimata nella sua essenza. Questa è complicità. Ora, quell’economia è diventata genocida. Non esiste un Israele buono, solo un Israele cattivo.
Vi chiedo di considerare questo momento come se fossimo qui negli anni ’90, a discutere dell’apartheid in Sudafrica. Avreste proposto sanzioni selettive contro il Sudafrica per le sue azioni nei Bantustan separati? O avreste riconosciuto il sistema criminale dello Stato nel suo complesso?
Ciò che Israele sta facendo qui è ancora peggio. Questo paragone è una valutazione giuridica e fattuale supportata da procedimenti legali internazionali che coinvolgono molti presenti in questa sala.
Ecco cosa significano le misure concrete. Negoziare con Israele su come gestire ciò che resta di Gaza e della Cisgiordania, a Bruxelles o altrove, è una totale violazione del diritto internazionale.
E ai palestinesi e a coloro che da ogni angolo del mondo li sostengono, spesso a caro prezzo e con grandi sacrifici, dico: qualunque cosa accada, la Palestina avrà scritto questo capitolo tumultuoso, non come una nota a piè di pagina nelle cronache di aspiranti conquistatori, ma come l’ultimo capitolo di una saga secolare di popoli che si ribellano all’ingiustizia, al colonialismo e, oggi più che mai, alla tirannia neoliberista.
Pubblicato da Progressive International, da noi tradotto
Francesca Albanese
Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati
