MELQUÍADES

Fonte: Global voices
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CC BY 3.0
Articolo di Arzu Geybullayeva

La mia identità è un’onda

Dopo un po’, tutto diventa confuso.

Strade acciottolate, strade fiancheggiate da piste ciclabili, canali e fiumi che serpeggiano attraverso città piccole e tentacolari. Ingorghi, semafori, vicoli stretti e ampi viali. Il brusio delle città, i loro odori stratificati. Non fatemi nemmeno iniziare a parlare di musei, gallerie e mostre: poi concerti, recital, teatro e spettacoli. E poi, il silenzio. Un silenzio che si insinua come nebbia, per poi dissolversi il giorno dopo, mentre il ciclo ricomincia da capo.

Mi considero privilegiata: ho un passaporto valido, un visto, un tetto dove posso tornare e che posso chiamare casa e un reddito stabile.

Ma questo privilegio ha avuto un prezzo.

Uno di cui ancora faccio fatica a valutare appieno: esiliata da casa mia, reinsediata in terra straniera, rifiutando di essere messa a tacere, eppure sfinita dall’infinita, logorante lotta per la giustizia. Una lotta che ora sembra più universale che mai, che tocca innumerevoli paesi e innumerevoli vite.

Mentre scrivo queste parole, mi sto dirigendo verso l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Dovrò parlare della situazione dei diritti umani e della sicurezza dei giornalisti in Azerbaigian.

Esatto, l’Azerbaigian. Il paese dove sono nata. Il paese che un tempo custodiva i miei sogni, le mie aspirazioni, le mie speranze. Tutto questo si è lentamente disgregato quando ho capito che quelle speranze non coincidevano con quelle dei leader del paese.

Onda del mare | foto di Valerio Emiliani su Unsplash

Reinsediamento

Andarmene definitivamente non è mai stato nei miei piani. Il lavoro mi portava in posti diversi, ma contavo sempre sul lusso di tornare, anche solo per un breve periodo. Per un po’ mi bastava.

Crescendo, il mio legame con l’Azerbaijan si è trasformato. Non mi mancava più tanto il Paese in sé, quanto i ricordi sensoriali che custodiva: la gente, la famiglia, il cibo, i profumi e le sensazioni di un luogo che mi aveva plasmato. Oggi, quando dimentico in quale città sono atterrata, a volte cammino mentalmente per le strade di Baku, la mia città natale. Ricordo il profumo dell’azalea in infusione nel tè, l’aroma di pakhlava, shekerbura e qogal appena sfornati che riempiva la nostra cucina durante il Novruz.

Stranamente, sono proprio quegli odori familiari che ora inseguo nelle città sconosciute: fantasmi di una casa a cui non posso tornare.

Poi, ovviamente, c’è Istanbul. Il luogo che ho scelto per stabilirmi. Una città che non ti fa mai dimenticare dove ti trovi: il grido dei gabbiani in cielo, i traghetti che attraversano il Bosforo, i dolci a forma di ciambella venduti a ogni angolo, il ritmo caotico delle sue strade e i clacson frustrati degli automobilisti bloccati nel traffico infinito. Il ronzio perpetuo dei macchinari edili risuona nel paesaggio urbano.

Eppure, non è proprio la stessa cosa. Il tè ha un sapore più amaro. I dessert, troppo dolci. Anche con le spezie giuste, il cibo manca della profondità di sapore che ricordo. C’è sempre qualcosa che manca, qualcosa di intangibile. Pur avendo vissuto qui per più di metà della mia vita, quella mancanza permane.

A volte penso di non appartenere a questo posto. In realtà, è un pensiero che mi segue ovunque vada. Un silenzioso sospetto di non appartenere a nessun luogo.

Ho fatto pace con questo. Mi dico: sono una nomade. E va bene così.

Perché porto con me l’essenza di ciò che custodisco nei miei ricordi. La mia identità diventa irrilevante: qualcosa di modificato e riformulato, come un’immagine filtrata prima di essere pubblicata sui social media. Magari è anche accompagnata da una canzone.

Sull’identità

Ultimamente, ho smesso del tutto di aggrapparmi all’idea di identità. Non è più qualcosa che mi definisce. Per me, sono le nostre esperienze vissute e le decisioni che prendiamo a plasmare chi siamo. L’identità è diventata così politicizzata, così abusata – spesso per dividere, per disumanizzare – che mi ritrovo a ripugnare all’idea di essere legato a una singola nazione, lingua, storia o etnia.

A noi – i nomadi, i non-identificati, le pecore nere – viene costantemente chiesto di allinearci con il passato, di portarne i fardelli come se fossero nostri. Ma forse dovremmo invece vivere il presente e immaginare un futuro in cui ideologie e demagoghi alimentati dalla paura non plasmino più i termini della nostra esistenza. Un futuro in cui siamo liberi semplicemente di vivere, di esistere, di essere.

Osservo le onde formarsi e dissolversi nella scia del motore di un traghetto – forse intravedo persino la coda di un delfino che si agita brevemente sulla superficie. I gabbiani volteggiano in alto, sperando in un pezzo di bagel lanciato da un passeggero. E mi ritrovo a desiderare di vivere come un’onda: formata, poi dissolta, come se non fossi mai esistita. Solo per riapparire di nuovo quando mi viene chiesto.

Pubblicato da Global voices, nostra la traduzione.

Arzu Geybullayeva

Arzu Geybullayeva

è editorialista e scrittrice azera