Globalizzatori e globalizzati:

di Pellegrino Mauro

riusciremo a sottrarci al gioco delle parti?

Nonostante il taglio grass­roots,che dall’inizio abbiamo voluto dare a questa rubrica l’osservatorio, non potevamo esimerci dal riflettere sull’impatto violento (in tutti i sensi…) che l’evento del vertice G8 di Genova ha avuto sul dibattito pubblico in Italia, facendovi entrare di prepotenza il tema globalizzazione.
Abbiamo voluto quindi confrontarci con alcune tra le domande che sono circolate, sulla stampa, in rete e, a voce, con Franco Gesualdi, figura storica del lavoro di base su queste tematiche, animatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, fra i promotori della Rete Lilliput e come tale protagonista di tutto il lavoro preparatorio del Genoa Social Forum.

M.P. Tra le numerose riflessioni sul dopo­Genova, spicca a mio avviso un bel contributo di Pierluigi Sullo1, direttore di Carta, il principale periodico che si fa carico di dare voce ai "cantieri sociali" in cui fermentano opposizione e alternative al pensiero unico neo­liberista. Scrive Sullo: «Se ci si immagina di scontrarsi con il potere usando le sue armi, nelle piazze e nei media, si è già sconfitti. Il movimento sarà invincibile se, di ritorno da Genova, saprà rinsaldare le coalizioni locali, i tanti social forum nati per preparare la protesta contro i G8, facendone una presenza influente nelle città, diffusa (…).
Dobbiamo reimmegerci nella società, sparire alla vista del potere e dei media, che letteralmente non hanno occhi per vedere al di sotto del mondo di plastica che si sono fabbricati».
Trovo qui bene espressa la stessa preoccupazione che ho avvertito mentre vedevo "montare" la gigantesca rappresentazione del vertice di Genova, per cui mi è venuto di parlare di… gioco delle parti, e ti chiedo cosa ne pensi.

F.G. Sui cosiddetti "controvertici" bisognerebbe fare un po’ di storia…
è da quello di Colonia, nel luglio del ’99, che essi hanno assunto il carattere di manifestazioni di strada. È vero che ha colto tutti un po’ di sorpresa la grande contestazione di Seattle, anche per la scelta del bersaglio, poiché di fatto contro la globalizzazione dei commerci internazionali ­ e la sua sede per eccellenza, il W.T.O. o O.M.C. ­ non si era fino a quel momento mosso pressoché nulla, tranne forse le proteste contro l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (M.A.I. o A.M.I.), che spinsero il governo francese a prendere le distanze e poi a bloccare la stipula dell’accordo stesso.
E non è che tra uno e l’altro di questi appuntamenti ci sia il nulla: così come il potere tra un vertice e l’altro lavora per attuare le sue decisioni, è altrettanto vero che i centomila rivoli della società civile lavorano per far sì che il mondo vada in un’altra direzione. Certo questo lavoro quotidiano non riesce altrettanto ad attirare l’attenzione dei media, per cui sembra che non ci sia nulla; ma di fatto il lavoro continua e direi che talvolta dà anche risultati (come la legge approvata nel nostro paese sulla cancellazione del debito).

M.P. Allora condividi quanto ha scritto M.Vasquez Montalban, che questa grande mobilitazione «sta dando la possibilità a tutto il mondo di conoscere verità importanti che l’informazione al servizio del pensiero unico ha occultato fino ad ora… [per cui, manifestare…] è certamente l’unico mezzo di pressione popolare che raggiunge risultati importanti, se associato a Internet»2?

F.G. Non dobbiamo dimenticare che il 19 luglio a Genova c’è stata una manifestazione di 60.000 persone, quella conosciuta come "degli immigrati", con le stesse persone che il giorno dopo erano di nuovo in piazza.
Questa è stata una bella manifestazione, piena di colori, di vivacità, in cui abbiamo davvero recuperato la possibilità di esprimerci per come davvero vorremmo essere pubblicamente presenti, il che ci faceva ben sperare anche per il giorno dopo.
La grande novità di Genova è stata quella di riuscire a coagulare intorno a questo processo una quantità di persone che è andata oltre ogni immaginazione. Perché, secondo la mia lettura? Io non interpreto quest’adesione massiccia come segno di una maturazione degli italiani che, finalmente, hanno capito quali sono le grandi poste in gioco a livello globale e quindi intervengono per tentare di correggere il tiro. Lo spiego piuttosto come la partecipazione di tanta gente che sta incominciando a sperimentare sulla propria pelle che le cose si stanno modificando in quella direzione che tutti definiscono "neo­liberista" e sono intervenuti, rispondendo all’appello di qualcuno che gli diceva: «c’è un legame fra ciò che state vivendo a livello locale e ciò che sta avvenendo a livello mondiale»! Non solo, ma si comincia anche ad individuare i protagonisti che hanno la responsabilità ultima rispetto a queste trasformazioni. Questi elementi, riuniti insieme, hanno fatto sì che ci fosse una grande adesione di massa alle giornate di Genova.

M.P. Susan George, una tra gli studiosi più acuti che militano fra i critici della globalizzazione neoliberista, chiede con il sarcasmo dell’amarezza se «siano contenti (di quanto è successo)»3 agli 8 Grandi della terra, alle forze del (dis­)ordine, ai manifestanti violenti; ma alla fine sembra rivolgere autocriticamente la stessa domanda al movimento pacifico per un’altra globalizzazione. Lo spartiacque della morte di un ragazzo, sostiene lei, mette questo movimento e le sue speranze in pericolo, di fronte alla necessità di «trovare nuove vie democratiche per portarla avanti», per non cedere alla trappola violenza/controviolenza degli apparati del potere.

F.G. Bisognerebbe distinguere tra un piano di principio e un piano pratico. Dal punto di vista dei principi, la manifestazione che obiettivi si prefigge? Quello di far sì che una grande voce, in maniera pubblica, si levi contro una certa politica. E da questo punto di vista, per quanto vecchia e tradizionale, ho la sensazione che sia la via più efficace; cosa sarebbero stati questi vertici internazionali se non si fosse alzata la voce contraria di migliaia di persone che si riversano per strada? Lo stesso Forum di Porto Alegre dove entrambi eravamo presenti4­ ha dimostrato quale clima e quale ricchezza ci fosse là, ma i media gli hanno dedicato pochissimo spazio e quindi non direi che questa sia la strada migliore per far sentire la propria opposizione; è il percorso giusto per far maturare un movimento, ma io continuo a sostenere che la dimostrazione di piazza conferma tutta la sua validità.
Per dir la verità io vivo come un duplice ricatto, quello della violenza "legittima" e quello dei "casseurs", l’idea che io debba rinunciare a uno strumento prezioso di opinione pubblica e di azione politica. Secondo me la partita non è semplice, come dicevo riguardo alla distinzione fra il piano dei principi e quello pratico: bisogna accettare volta per volta di correre il rischio che possa anche finire con scontri o in una certa maniera.

M.P. Tu sei tra coloro che della critica al modello economico neoliberista ha fatto una ragione di pensiero e di azione di tutta una vita, si può dire. E io sono convinto che la più forte resistenza a questa «omni­mercificazione del mondo» ­ dice benissimo M. Revelli5­ «non si trova al livello delle istituzioni statali e nemmeno, tutto sommato, trans­nazionali. Si trova tornando al nucleo originario dell’essere sociale, alla persona e alla sua capacità di decidere il passaggio ad un diverso stile di vita, di relazione con gli altri, di consumo».
È la via della globalizzazione dal basso, cui questa rubrica vorrebbe dedicarsi. Quali sono invece i passi politici più urgenti, a breve termine, di un lavoro complessivo di critica e di contrasto alla globalizzazione dominante?

F.G. Io credo che il movimento si debba porre degli obiettivi forti. In primo luogo quello che si potrebbe definire di "limitare i danni" che questo sistema sta producendo, un’ottica del disarmare l’avversario, secondo tre direttrici fondamentali: ­ impedire che le istituzioni che oggi vanno assumendo un enorme potere nel riscrivere le regole dell’economia a livello planetario, continuino a rafforzarsi. Per cui, da subito, cercare di impedire che si aggiungano nuovi trattati a quelli esistenti. Soprattutto cercare di impedire che l’O.M.C.
riprenda un nuovo negoziato sugli investimenti e sui servizi6. Questo era lo scopo del vertice di Seattle, due anni fa, ed è all’ordine del giorno del prossimo incontro nel Qatar in novembre prossimo; ­ cercare di ottenere una serie di riforme che limitino gli effetti di questa globalizzazione: ad esempio tutto ciò che sta venendo avanti sul tema dei brevetti è qualcosa su cui bisognerà insistere, così come su altre problematiche dell’agricoltura, sulla tassazione delle speculazioni finanziarie, ecc.; ­ lottare affinché invece siano approvati una serie di altri trattati che possono dischiudere strade alternative. Certo per questo occorre porsi il problema di un governo o di un’autorità mondiali. Per un verso, abbiamo sicuramente bisogno di istituzioni "mondiali", ma al cui livello si decida… il meno che si può; cioè essenzialmente la difesa dei beni comuni, ossia di quegli elementi da cui dipende l’esistenza e la sopravvivenza del pianeta. Ho invece la sensazione che, rispetto a come si è venuto strutturando l’O.M.C., abbiamo bisogno di una serie di organismi internazionali che si diano il compito di verificare e vigilare sui trattati internazionali.


1 «Ripartiamo dal sociale», Il Manifesto del 26 luglio 2001, p. 18.
2 «Montalban: questo movimento fa paura», L’Unità del 25 luglio 2001, p.5.
3 «Chi è contento e chi no», ibidem.
4 Cfr. Madrugada 40, pag.21.
5 «Se la patria si chiama Terra», Musica suppl. n°293, La Repubblica del 19 luglio 2001, p.10.
6 Attualmente sono già sottoscritti all’interno del WTO due accordi che riguardano appunto i servizi (GATS) e gli investimenti (TRIMS); si tratta tuttavia di intese appena abbozzate, non pienamente rispondenti alle esigenze delle grandi imprese transnazionali sui due aspetti, vale a dire la libertà del mercato di muoversi sui servizi tradizionalmente riservati al settore pubblico, e su quella della localizzazione degli investimenti.