Identità spezzate

di Stoppiglia Giuseppe

Quando viene mutilata la storia dell’altro

«Chi ama Dio non ha nessuna religione,
a meno dello stesso Dio».
(Rumi, mistico dell’Islam)

«Nel cibo diviso si siede a tavola l’angelo».
(Stefano Benni)

Nel Senegal, sotto la dominazione francese, un africano viaggiava a piedi con la moglie incinta.
La sera, poiché sua moglie aveva fame, l’uomo scavò in un campo di manioca per dar da mangiare a sua moglie.
Sopraggiunse il proprietario e fece condannare il ladro dal tribunale francese. L’africano fece appello al tribunale indigeno (sussisteva la doppia giurisdizione).
Secondo il diritto locale, il tribunale condannò il proprietario del campo per aver lasciato soffrire la fame a una donna incinta in prossimità della sua casa senza soccorrerla.

Smarrita nostalgia

I tram di notte parlano lingue straniere e, al tempo stesso, familiari. Spesso sono proprio i suoni e le intonazioni dal significato incomprensibile a tracciare le linee di un paesaggio che ci accomuna agli altri esseri umani, al di là delle culture e delle appartenenze diverse. Il popolo dei lavoratori immigrati, che di giorno si muove invisibile negli interstizi della città, nell’ora in cui si chiudono i negozi esala come un vapore colorato dalle bocche delle metropolitane e trasforma i mezzi di superficie nella grande casa del mondo. Se non ci si lascia prendere dallo smarrimento e dall’ombra minacciosa che sembra portarsi dietro ogni ‘forestiero’ che appare improvviso all’orizzonte, la memoria non tarda a riconoscere, dietro la diversità di un colore di pelle o di taglio degli occhi, figure di parenti.
La città ‘rende liberi’ ma anche smemorati, e tocca agli ultimi venuti ravvivare il ricordo di un paese, di una campagna, di un interno di famiglia, caduti fuori dal tempo per troppo dolore o per insopportabile nostalgia. Il contrappunto delle voci che finalmente possono alzarsi senza timore, sicure dell’indifferenza complice del passeggero vicino, porta l’eco di dolori, fatiche e speranze che attraversano quasi senza variazioni la storia dei singoli e dei popoli, racconta di quella piccola morte e rinascita che è l’abbandono del luogo dove si è cresciuti, evoca angosce, umiliazioni, e la felicità di incontri inattesi.
Mondi che si sono fatti la guerra, il Nord e il Sud, la città e la campagna, seduti accanto, nell’atmosfera ovattata del tragitto sospeso tra la stanchezza del giorno e il tempo del riposo, scoprono inavvertitamente di avere passioni condivise, corpi segnati dalle stesse ferite, ricordi che parlano la stessa lingua.

Ignoranza e paura

La xenofobia insidia oggi una convivenza che si fa ogni giorno più difficile, divisa dalle crescenti disuguaglianze sociali e dall’incrocio di culture diverse. Più si stringono vincoli di bisogno reciproco e più si fa intima la vicinanza, in quel corpo a corpo che è la cura di un malato o di un anziano, più si ingigantisce la figura dell’intruso posto ambiguamente tra la nostra morte e la nostra sopravvivenza. La tentazione di separare con un taglio netto il noi e il voi è la minaccia che incombe su una collettività che vede il lontano farsi sempre più prossimo, l’estraneo divenire familiare, e ciò che è proprio perdere la nettezza dei suoi confini. Desertificando la storia e la memoria, il fantasma del “nemico”che turba i sonni dell’Occidente, rischia di cancellare l’unica terra su cui gli umani possono riconoscersi al medesimo tempo simili e diversi.
Troppo spesso ci manca il terreno comune su cui fondare un’intesa con il nuovo arrivato, ci manca cioè la conoscenza del retroterra da cui egli proviene. Ciò fa sorgere immediatamente di fronte a lui la paura e lo stesso sentimento nasce anche in chi arriva in un mondo che gli è radicalmente estraneo, di cui non conosce nulla. Ciò che scrive Luciano Manicardi, monaco di Bose, è illuminante per capire il travaglio che tutti viviamo in questi giorni dove vignette, elezioni, scontri etnici e religiosi, tensioni economiche e politiche alimentano paure, identità chiuse e quel clima cupo di sospetti: «Quando il fantasma dell’identità conduce a ridurre le relazioni sociali alla mera mentalità del dato etnico, dell’omogeneità di sangue, religione e cultura, si apre la via a forme di politica totalitaria e intollerante».

Sindrome da assedio

Sintomo inquietante di questo clima d’intolleranza è anche il recente Appello all’Occidente di Marcello Pera. Un documento dove si mescolano riduzioni storiche, manovre politiche e contraddizioni culturali di vario tipo (sul concetto di individuo, di persona, di civiltà, di cristianesimo), con una sindrome da assedio, provocata da nemici interni ed esterni in agguato. Il linguaggio usato, più che tradizionalista (lo firmano anche esponenti de neo fascismo cattolico), è totalitario. Tra le molte cose, mi indigna, pure, una citazione abusiva e strumentale di Benedetto XVI.
In simili circostanze lo svantaggio diventa ancora più netto: il forestiero si sente depredato di quanto ha di più intimo: la sua anima e la sua storia. Non lo si deruba di un oggetto, ma si umilia una persona. I più grandi beni e i più grandi mali risiedono proprio nella dimensione spirituale.
Scambio iniquo e sottrazione di beni (e a volte anche di idee, se si tratta di grandi culture) sono, purtroppo, all’ordine del giorno sulla faccia della Terra. Tutti ormai sanno dell’esistenza di questa sperequazione. Lo scandalo più clamoroso è quello che il venti per cento del mondo vive utilizzando l’ottanta per cento di quello che viene prodotto dall’intera umanità. Un simile scarto tra il tenore di vita dell’Occidente sviluppato e il resto del mondo grida vendetta di fronte alla storia. Su questo problema non è possibile l’astensione, perché si tratta della verifica della parola e sulla parola ci giochiamo la vita. Non è possibile illudere l’umanità con promesse di diritti da regalare, di civiltà da esportare, lasciando poi che l’altro muoia.

Disquisizioni devianti

Quando si affrontano altri temi, ci si dimentica di questa ingiustizia. Lo confermano, per esempio, le questioni bioetiche. Anche quando le si affronta in modo maturo e problematico (cfr. il recente dialogo tra il card. Martini e Ignazio Marino), quasi mai si pone in debita evidenza l’ingiustizia planetaria connessa alla distribuzione delle risorse.
Fecondazione artificiale, testamenti biologici, accanimenti terapeutici sono senz’altro problemi di acuta realtà, ma lo sono in una sola parte del mondo, esattamente quella capace in pochi anni di ridurre quasi a zero per se stessa (e solo per se stessa) il flagello dell’Aids. Paventato come peste che tutto avrebbe travolto, il terribile morbo, in realtà, non ha portato danni epocali nella parte ricca del mondo. Non così altrove. In Africa, per esempio, l’epidemia non dà requie e colpisce una percentuale altissima della popolazione. Quando si parla di bioetica bisognerebbe, preventivamente, coprirsi il capo di cenere e tener sempre presente che si discute di questioni attuali solo per esigue minoranze della popolazione mondiale. Un giudizio morale che non tenga ferma la presenza di questo cupo risuonare di ingiustizia, condanna se stesso all’insignificanza, se non all’ipocrisia.
«Contraccezione e aborto – scrive Piero Stefani, illustre biblista e studioso di ebraismo – riguardano anche la parte misera del mondo. Davanti a questo dramma immenso, disquisire se sia più o meno lecito ricorrere ai preservativi è peggio che discutere sul sesso degli angeli nella Costantinopoli assediata. Non è solo inutile, è immorale».

L’ipocrisia dei grandi valori

Connesso ai trapianti vi è, per esempio, l’orrore del commercio degli organi. Per campare c’è chi vende pezzi di sé, o, peggio, dei propri figli. La colpa maggiore sta però dalla parte di chi acquista e usa, non di chi vende. Nessun bene è così limitato come le risorse del proprio corpo.
Qui la giustizia e l’ingiustizia sono di casa. «Prolungare vite stremate – continua Piero Stefani – è un lusso ignoto a gran parte del mondo. È responsabilità assai più grave far morire di fame, di stenti e malattie curabili un numero immenso di abitanti della terra che staccare la spina ponendo così fine al prolungamento artificiale di una vita umana. Se l’imperativo più cogente è il rispetto della vita, il nostro mondo è tragicamente inadeguato a far proprio questo comando e per dimostrarlo ci sono prove più convincenti dell’eutanasia».
Ci impegniamo molto spesso e con grande accanimento a salvare prima di tutto i principi, i valori e solo successivamente le persone umane. Occuparsi degli altri rischia così di diventare un optional, una specie di gingillo aggiuntivo. Un’asserzione sui valori che non è accompagnata da una pratica conseguente, rischia di favorire il sorgere di un comportamento ipocrita.
Oggi i segni dei tempi ci impongono a vivere i rapporti in una dimensione profetica, testimoniando scelte di scandalo tali da rendere evidente la nostra volontà di cambiare questo mondo. Un mondo complesso, né brutto, né bello, senza il male da una parte e il bene dall’altra, perché l’uomo non ha la chiave per decidere.

Pove del Grappa, maggio 2006