Marte, 2001

di Pase Andrea

Quest’anno si presta per più motivi (il numero che lo indica, gli anniversari che vi ricorrono, alcuni fatti già intervenuti) a tentare qualche riflessione sulla relazione tra l’uomo, si intende l’uomo tecnologico, e lo spazio.
Innanzi tutto, c’è il riferimento a "2001: odissea nello spazio", il film di Stanley Kubrick che forse meglio di altri ha interpretato attese e paure di fronte all’esplorazione del sistema solare. Certo, molte delle "profezie" di Kubrick non si sono realizzate: non è stata costruita in orbita terrestre la gigantesca base ruotante, non vi è un presidio abitato sulla Luna, non siamo in grado di organizzare una spedizione umana verso Giove e non è stata scoperta nessuna intelligenza extraterrestre. Rimane l’aspirazione a viaggiare nello spazio, è in fase di montaggio la Stazione spaziale internazionale, continua l’invio di sonde verso gli altri corpi celesti del sistema solare, si cercano le possibili tracce di vita al di fuori della Terra. Nella seconda metà degli anni ’60, quando il film è stato girato, si era nel pieno dell’avventura della "conquista" della Luna che portò nel 1969 all’allunaggio dell’Apollo 11: all’umanità sembrava aprirsi una stagione di rapida esplorazione ed espansione nel sistema solare. Oggi il clima è certamente diverso: i costi enormi delle spedizioni spaziali e i tagli al bilancio della NASA, l’incidente dello Shuttle Challenger nel 1986, la consapevolezza degli attuali limiti tecnologici e medici al volo umano nello spazio hanno portato ad un rallentamento delle missioni, negli ultimi anni ripensate in una logica di riduzione delle spese.
Quarant’anni fa, il 12 aprile del 1961, il volo di Jurij Gagarin attorno alla Terra portava per la prima volta l’uomo nello spazio. In occasione di un altro anniversario che cade quest’anno, il primo volo americano nello spazio con un uomo a bordo (5 maggio 1961), Daniel Goldin, l’attuale direttore della NASA, ha tenuto un impegnativo discorso sul futuro prossimo venturo dell’esplorazione spaziale. «Siamo stati rinchiusi per troppo tempo nell’orbita terrestre.
Questa civiltà non è condannata a vivere in un solo pianeta. Mettiamoci in testa che durante la nostra vita vedremo allungarsi il dominio della specie umana su altri pianeti e su altri corpi del nostro sistema solare. Costruiremo robot che lasceranno il sistema solare verso altre stelle: poi li seguiremo». Queste frasi introducevano la presentazione del progetto di una sonda che tra il 2007 e il 2009 scenderà su Marte, raccoglierà dei campioni di terreno e li porterà sulla Terra. La prospettiva indicata da Goldin è di uno sbarco umano su Marte entro vent’anni, così «ricominceremo a scrivere la storia, guardando avanti e non più indietro». Il direttore della NASA con queste parole ha inteso rilanciare in grande la corsa verso lo spazio, la "nuova frontiera" che l’America (con i suoi alleati) può conquistare. Ma al di sotto di questa intenzione e della retorica con cui è stata dichiarata, si leggono alcuni interessi e per primo quello della NASA stessa, organizzazione alla ricerca di nuovi fondi che potrà trovare in abbondanza solo se sarà accolto un obiettivo altamente mobilitante, anche da un punto di vista simbolico, quale l’approdo dell’uomo su altri corpi celesti: dopo la Luna, lo sbarco su Marte potrà essere il volano di una nuova fase dell’esplorazione spaziale (e le grandi case cinematografiche si sono subito rese conto dell’impatto di questa sfida sull’immaginario collettivo, producendo film che mettono in scena la futura "conquista").
Ma è la potente industria militare statunitense e nella fattispecie quella aerospaziale ad essere maggiormente interessata alla ripresa della corsa allo spazio. Anche perché la nuova amministrazione Bush ha compiuto, a poco dal suo insediamento, una scelta strategica di grande rilievo: la militarizzazione dello spazio, con il rilancio del progetto di difesa antimissile conosciuto come "Scudo stellare" per prevenire una possibile "Pearl Harbor spaziale", nuovo incubo degli alti gradi militari. Da una parte, quindi, è sentita la necessità di difendersi da possibili attacchi di missili intercontinentali lanciati da nazioni ostili, dall’altra vi è l’urgenza di tutelare la rete di satelliti militari e civili, oggi indispensabili per le telecomunicazioni e per il telerilevamento.
Al fine di consolidare questo nuovo orientamento strategico, il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha annunciato che gli Stati Uniti costituiranno una vera e propria "Space Force", che sarà comandata da un generale con quattro stelle, allo stesso livello quindi delle altre tre forze armate (esercito, aviazione, marina).
Negli indirizzi del nuovo governo vi è una esplicita volontà di dominio che si protende verso lo spazio, per ora limitatamente alle regioni prossime alla Terra, percorse dai satelliti, ma in futuro, chissà, verso lo "spazio aperto" del sistema solare.
«La civiltà umana non è condannata a vivere in un solo pianeta». Le parole del direttore della NASA ben rappresentano l’urgenza di pensare orizzonti altri. Un senso di soffocamento aleggia in queste dichiarazioni: la Terra ormai è tutta esplorata, la popolazione cresce, non vi sono continenti da scoprire, nuove immense risorse da individuare, distese di terre da dividere… Non vi è più spazio per il mistero, non vi sono luoghi mitici da raggiungere, viaggi verso l’incognito da affrontare.
La necessità di nuove mete, di approdi diversi per un’umanità a cui inizia a stare stretto il pianeta natale non si ferma neanche davanti all’evidenza dell’inospitalità degli altri pianeti del sistema solare.
Vi è chi studia la possibilità di costruire ciò che non si trova e quindi di trasformare gli ambienti repulsivi di alcuni corpi celesti in luoghi adatti alla vita umana. Il "terraforming" è appunto, nella ottimistica visione degli studiosi che ne stanno analizzando la fattibilità, un complesso processo di "ingegneria planetaria", in grado di accrescere la capacità di sostenere la vita da parte di un ambiente extraterrestre, fino a "creare" una biosfera planetaria simile a quella terrestre. Al di là della sostenibilità tecnologica ed economica di una simile operazione, è discutibile questa "proliferazione" di ambienti terrestri al di fuori del nostro pianeta, se non altro perché potrebbero esservi nei pianeti "ospiti" forme di vita diverse che verrebbero così distrutte. Si porrebbe quindi un problema ecologico ed etico su scala spaziale: ma tutto ciò è decisamente futuribile…
In ogni caso, Marte è descritto da questi ricercatori come uno dei primi possibili obiettivi di programmi di "terraforming". Il pianeta rosso potrebbe quindi divenire il primo rifugio extraterrestre dell’umanità, tanto che è già stata proposta una bandiera per Marte: tre bande verticali rossa­verdeblu. Il rosso simboleggia il deserto della attuale superficie del pianeta, il verde la pianura che verrà, sovrastata da un bel cielo blu: tanta è la speranza nella possibilità di trasformare l’ambiente marziano.
È sicuramente affascinante immaginare queste aperture future dell’umanità "verso l’alto", verso altri pianeti del sistema solare e anche oltre. Ma non ci si deve dimenticare che quella che calpestiamo è al momento l’unica terra a nostra disposizione. Non vi sono vie di fuga esterne che ci permettano di evadere dalle nostre responsabilità verso le generazioni future e verso le altre forme di vita che la biosfera terrestre mantiene.
Questa è la miopia della politica americana, che guarda allo spazio, per esplorarlo sì ma anche per militarizzarlo, e cancella sulla Terra impegni già presi di tutela ambientale.
L’amministrazione Bush nel giro di pochi mesi ha deciso di non ratificare il protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica, ha innalzato i livelli di arsenico consentiti nell’acqua potabile, ha autorizzato perforazioni petrolifere in aree protette, ha cancellato vincoli per la protezione di specie in via di estinzione, ha tagliato i fondi per i parchi naturali…
Non credo che Marte sarebbe così contento di ospitare i poveri reduci di un disastro ambientale di grandezza planetaria.

Andrea Pase
geografo, ricercatore,
università di Padova