Questo 2000 mi pare di conoscerlo

di Monini Francesco

Anche se le date sono solo numeri e i numeri sono solo convenzioni; anche se un numero tondo tondo come il 2000 non è per forza di cose (o di qualche cabala) più favorevole o più fortunato di un numero complicato ed interminabile come il Millenovecentonovantanove; anche se tra i mille fuochi artificiali del Capodanno del secolo le cronache non hanno registrato il passaggio di nessuna cometa (e se pur è passata: come facevamo a vederla abbagliati dalle luci o, peggio, a capo chino sui computer per scongiurare il Millennium bug?); anche se nessuno poteva sperare che fosse sufficiente aprire le tre grandi porte per inaugurare un anno dedicato all’incontro, al perdono, all’azzeramento dei debiti.

Insomma, anche se non siamo nati ieri… e lo sappiamo che il mondo non può mica incominciare a girare all’incontrario… e da sempre la storia ci insegna che…

Eppure è strano. Giuro, non mi ero fatto nessuna illusione, eppure sono rimasto deluso. Ci ho messo alcuni giorni ad accorgermene. Giorno dopo giorno aprivo il giornale e sentivo crescere qualcosa che aveva sempre più il sapore della nausea.

Forse ero io a non funzionare. Oppure non era vero lo scetticismo che io – e tutti – andavamo a gridare ai quattro venti. Forse, sepolta chissà dove, nascosta quasi con vergogna, avevo una piccola speranza.

Una piccola speranza che non ho riconosciuto, che non ho confessata nemmeno al mio migliore amico, che non ho avuto il coraggio di giocare allo scoperto. Un pezzetto di speranza che non ha potuto congiungersi a nessun altro pezzo.

È probabilissimo che il 2000 assomiglierà all’anno che l’ha preceduto. «La pensavo proprio così: e, guarda un po’, ci ho azzeccato in pieno!». Ma coltivare solo il pessimismo della ragione è fin troppo semplice. Che ne facciamo della nostra piccola speranza sepolta?

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Sospiro di sollievo: il baco del millennio ha fatto cilecca. Niente Apocalisse informatica, niente anno zero: la Grande Rete è salva e le borse mondiali viaggiano col vento in poppa.

Sembra un po’ deludente, perfino ridicolo, che l’attesa del nuovo millennio si sia concentrata nella grande paura del Millennium bug. Ma non è per nulla strano. Ormai ce lo ripetono tutti i giorni: il destino del mondo viaggia su Internet. In America nascono nuovi giganti multinazionali frutto di matrimoni ibridi tra Internet, telefoni e televisioni. Assomigliano al vecchio Cerbero o a certi cartoni giapponesi degli anni Ottanta, quei Trasformer che erano insieme guerrieri, astronavi e macchine da guerra.

Un mondo popolato da nuovi mostri mitologici o da invincibili guazzabugli tecnologici non pare molto rassicurante. Ci vorrebbe il buon Ercole per tagliare le tre teste del cane satanico, o un qualche Superman per ristabilire la giustizia sul pianeta Terra.

Converrà, alla fine, rassegnarsi e convertirsi alla nuova religione della Grande Rete? Una Grande Rete in mano a pochi ma madre di tutti; e che tutti informa, e che tutti ascolta, e che tutti accoglie. E che a tutti vende (carta di credito permettendo).

Ecco però che, pochi giorni fa, la Grande Rete viene sconvolta da un terremoto prodotto dall’azione di misteriosi Hackers (così vengono chiamati i pirati e sabotatori informatici). Le borse tremano, l’Fbi indaga, i governi invitano alla calma.

Forse, riferiscono le cronache, si chiama Mixter l’assalitore che ha diffuso su Internet un manuale per le incursioni informatiche. Come Davide, aveva a disposizione solo una fionda e la sua intelligenza.

Non datemi del luddista se confesso la mia simpatia per Mixter. Voglio immaginarli, lui e gli altri bucanieri informatici, i paladini di una nuova rete, grande finché volete, ma una Rete di Tutti.

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Roma e il giubileo. Comunque vada sarà un successo!, parola di Rutelli, sindaco belloccio, mascella regolamentare e l’antipatia dell’uomo vincente: «Il 96% dei cantieri è stato completato!».

Ma quale successo!?! – gli ruggisce contro in romanesco l’onorevole Gasparri – è una tragedia, una vergogna, un caos, un magna-magna: i cantieri aperti, il traffico bloccato, le promesse mancate…

Siamo ai primi di gennaio e si tenta un primo bilancio delle grandi manifestazioni romane. Lamberto Sposini fa finta di moderare il dibattito televisivo, ma punta all’audience: sangue e arena.

Gli onorevoli si insultano, si danno reciprocamente del bugiardo, si mandano a quel paese, minacciano di lasciare lo studio.

Sposini perde il controllo, si difende dall’accusa di faziosità, prova perfino a dire la sua sui mali di Roma, viene zittito, evita di poco la rissa. Alla fine è un po’ pallido, guarda nervosamente l’orologio aspettando il gong.

Ecco: è finita. Noi non ci abbiamo capito nulla, ma una cosa è certa: il Giubileo in televisione sembra funzionare a meraviglia.

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È morto Benedetto Craxi, in arte Bettino. È morto fuori dall’Italia, latitante. Esule, secondo gli amici di ieri, spariti per anni e ricomparsi in lacrime ai funerali tunisini.

Molte lacrime, come è giusto e normale quando muore un uomo. Moltissime polemiche, balletti e balbuzie, rivendicazioni e proclami di rivincite postume. Potevano essere evitate? No, perché in politica un uomo ingombrante può diventare un carta eccellente. Una carta da giocarsi subito, quando il morto è ancora caldo, e la commozione inonda le televisioni e offusca la memoria.

Enzo Biagi, più volte interpellato sulla figura dello statista scomparso, è riuscito lodevolmente a non perdere le coordinate di una vicenda umana, politica e giudiziaria cui non è stata messa ancora la parola fine. Certo, ha detto Biagi, ai posteri l’ardua sentenza, ma non dimentichiamoci chi è stato offeso e raggirato, non dimentichiamoci del cittadino comune che ha continuato a pagare le tasse e fare il suo dovere, mentre un sistema di collusione tra politica e affari si spartiva mazzette e tangenti. L’estrema difesa di Craxi: «Tutti sapevano e tutti tacevano» non assolve nessuno, tantomeno lui, massimo artefice di una politica ridotta a malaffare, passata alla storia col nome di Tangentopoli.

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Che figura ammazzarsi sull’Altare della Patria!

Subito la versione ufficiale: «Era depresso. La fidanzata greca lo aveva lasciato».

Invece no. Parla il fratello e parla la fidanzata, che doveva raggiungerlo a Roma dopo pochi giorni. La verità è che non ce la faceva più a sopportare la violenza psicologica dei nonni del reparto. Stare lassù era una tortura. Ingiusta, inutile, imbecille.

E allora, aspettando con poca fiducia i risultati dell’inchiesta, ci sarebbe solo una cosa da fare. Un bel cartello: «Chiuso fino a data da destinarsi». Siamo sicuri che la patria abbia bisogno di un altare sporco di sangue innocente?

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Chi ha paura di Haider?

Io, anzi tutti.

Ci sarebbe da star tranquilli dopo le mille prese di posizione contro la formazione del nuovo governo austriaco che ha sdoganato il governatore della Carinzia, leader fotogenico ancorché razzista, xenofobo ed antisemita.

Ma l’Europa è un gigante – più propriamente: un aspirante gigante – dai piedi di pastafrolla.

E poi c’è una schiera sempre più folta di politici e commentatori che consigliano una posizione attendista. Meglio minimizzare, giudicare il nuovo il governo austriaco alla prova dei fatti. Meglio non rischiare di trasformare Haider in un martire perseguitato. Altrimenti le cose potrebbero peggiorare. Se il governo nero-blu viene costretto alle dimissioni, i sondaggi dicono che Haider andrebbe incontro ad una travolgente vittoria elettorale.

E allora? Allora Haider non piace a nessuno. Haider fa paura a tutti. Ma il rischio è che ci si limiti a infliggere all’Austria qualche tiratina d’orecchie. Evitare rotture, gesti irreparabili, ingerenze verso Stati sovrani. Insomma la vecchia, cara real-politik che ci ha regalato gli orrori del secolo appena archiviato.

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Charlie Brown, Linus, Lucy e Snoopy sono orfani. Proprio il giorno in cui in tutto il mondo veniva pubblicata l’ultima striscia dei celeberrimi Peanuts, se ne andava il suo geniale e gentile creatore Charlie Schulz.

Ci mancheranno, molto di più di quanto adesso ci possa sembrare.

Perché i Peanuts non parlavano di un mondo bambino, parlavano di noi grandi con una sincerità che i grandi solitamente non si concedono.