Refusi di cronaca

di Gaiani Alberto

Partiamo di buon ora, la domenica mattina, per andare vicino a Mantova, in un paesino di quattromila anime seduto in riva al Po. Andiamo ad incontrare gli amici conosciuti durante il campo di quest’estate. Tutti siamo in qualche modo collegati ad un prete di Bassano un po’ folle.

L’attrazione della giornata è la conferenza di uno scrittore, Erri De Luca, del quale alcuni hanno letto qualche libro, altri hanno sentito parlare, altri ancora cercano di capire che razza di madre deve aver avuto per chiamarsi Erri.

Così ci troviamo seduti davanti a quest’uomo alto e magro, con i piedi nudi nei sandali a metà ottobre. Ha i lineamenti un po’ duri, gli zigomi squadrati e due occhi blu che ti passano da parte a parte. L’accento tradisce la sua origine napoletana, le mani grandi accompagnano il suo parlare. Ci racconta qualcosa della sua storia: l’infanzia nella casa paterna piena di libri, la vita da solo cominciata a diciotto anni, l’esperienza mai abiurata di Lotta Continua («anche se io non ho inventato niente. Sono stato l’ultimo, quello che ha chiuso la porta»), il mestiere di carpentiere e muratore, la lettura dei testi sacri direttamente in ebraico. Più di recente ha cominciato a guidare i camion dei convogli di aiuti umanitari durante la guerra di Bosnia e ha continuato a guidarli per i serbi e i kosovari: «Per qualche notte di maggio – ha scritto – ho conosciuto la Nato dalla parte dei bersagli».

Mano a mano che si chiacchiera (lui racconta, noi ci facciamo avanti con qualche domanda), si vede il viso di quest’uomo sovrapporsi alle storie narrate nei suoi libri. Nel suo discorso si ritrovano le frasi corte, ritmate dei suoi scritti. Una secchezza nell’esprimersi che non nasconde la volontà di rendersi misterioso, ma che parla con semplicità di persone conosciute, di percorsi, di esperienze. Lo stesso Erri De Luca ci dice di non sentirsi in grado di inventare romanzi perché la vita offre più storie di quante se ne potranno mai inventare.

L’ultimo suo libro è uscito da poco, si intitola Tre cavalli (da una filastrocca che dice: tre anni una siepe, / tre siepi un cane, / tre cani un cavallo, / tre cavalli un uomo.) ed è il racconto in prima persona di un giardiniere, che ha vissuto in Argentina durante la dittatura e, dopo vent’anni, torna in Italia. E’ uno di quei libri che si gustano, che danno una sorta di soddisfazione se vengono letti lentamente. Dietro a Tre cavalli c’è un uomo che si racconta, senza lasciarsi mai andare a protagonismi, a espressioni sdolcinate, a giri di parole. L’io narrante parla del suo passato, del suo incontro con Laila, della sua amicizia con un africano. Si tiene compagnia con i libri: mangia in osteria e legge racconti di terre distanti bevendo vino rosso. Infine, fa sentire al lettore la sua intimità con la natura: ama il sapore dell’aglio e l’odore della salvia, ascolta i passeri, parla con il melo mentre lo pianta.

Il libro dà la stessa impressione dell’incontro con il suo autore: sembra di avere a che fare con un burbero che si sente troppo vecchio e che dice tre parole in meno piuttosto che una in più. Sembra di avventurarsi su un terreno ostico, poco favorevole all’incontro con ciascuno di noi. Invece, dopo un primo impatto un po’ brusco, sia Erri De Luca-uomo che Erri De Luca-scrittura affascinano, commuovono, avvolgono. Quando si arriva ad un minimo di familiarità con tutto questo, si vede come non ci sia mai prevaricazione o sentimento di superiorità: non si scorge mai lo scrittore che dà lezioni di vita, che si sente un incompreso cavaliere della cultura.

In quella domenica di ottobre Erri De Luca ci ha salutati così: «Mi dispiace. Le domande erano buone. Erano le risposte che non erano all’altezza».