Rio de Janeiro: non solo samba e calcio

di Cardini Egidio

Rio è come una donna di prorompente bellezza: innamorarsi è naturale, sposarla è impossibile.
Nessuna città al mondo è così irta di contraddizioni e di inganni, così pronta a tradire lo straniero dopo averlo meravigliato. È una città dalle tinte forti e pesanti, quasi asfissiante nel suo calore umano, invivibile nella sua quotidiana baraonda, affascinante nella sua ricchezza di immagini e di esperienze. Ogni angolo è assolutamente diverso da tutto il resto e si lascia sempre dietro nella memoria una quantità tale di ricordi e di fotogrammi che è impossibile dimenticare.
Di Rio conservo pochissime fotografie e a un certo punto ho persino smesso di farne; non mi piace immortalare la ricchezza, dimenticando la povertà, e non mi piace nemmeno scattare l’immagine di una povertà verso la quale ci vuole rispetto e pudore. Però conservo dentro me stesso la fotografia di ogni strada, di ogni casa, di ogni collina e di tutto ciò che in questa città si muove e ha vita.

Il pudore, ma non quello…

Forse a Rio manca proprio il pudore, ma non quello che noi qui siamo soliti intendere come difesa istintuale di ciò che è più profondo e riservato, bensì il pudore che è riguardo e rispetto verso chi è più debole e non può difendersi. Allora la povertà e la ricchezza si mescolano senza ritegno, la giovinezza e la vecchiaia degli uomini e delle donne fanno a pugni tra loro, in un crescendo di immagini e di eventi dove la disperazione è disperazione vera e dove la gioia è spesso così grande da rompere ogni limite di autocontrollo.
Non a caso Rio è la capitale delle due forme rituali contrapposte di festa e di dolore: la danza e lo sport da un lato, la violenza da un altro lato. Questo le consente, purtroppo, di rivelare spesso un volto stereotipato che non è il suo.

Non è la verità

A molti estranei questa città appare semplicemente come un luogo eternamente sprofondato tra il samba, raffigurato copiosamente tra le feste del Carnevale carioca, e il calcio, rappresentato da quella cadente ed enorme cattedrale sportiva che è lo Stadio Maracanã. Non è la verità.
Non lo è e non tanto perché la danza e il calcio siano allora da considerare secondari e marginali, ma perché contano solo se inseriti in un contesto sociale e culturale più vasto, dove è possibile spiegare e capire la natura di un carioca, cioè di un abitante di Rio.
Spesso questa città sembra finta e artificiale; forse non è vero, ma è altrettanto vero che non sono per nulla finti, ma reali e presenti, i sette milioni di abitanti che ci vivono, con le loro ansie, le loro incertezze e le loro speranza. Allo stesso modo non è possibile lasciarsi intimidire dalla consapevolezza che ogni giorno, in questa grande Babele, muoiono di violenza ventiquattro persone, ogni anno scompaiono centinaia di bimbi e in ogni ora ci sono ovunque furti e rapine. Anche questa è una verità che non dice tutta la verità sulla città.

Il fascino di questa città

Ma allora quale è la verità su Rio?
Capire una città così complessa è impossibile per chi ci vive da anni, figuriamoci se è possibile per chi ci è stato per qualche settimana. Si può soltanto intuire uno stato di cose che cambia di giorno in giorno, lasciando pochissime certezze. Il fascino vincente di questa città è l’umanità che vi abita: uomini che sanno tirarsi fuori ogni giorno da qualsiasi difficoltà e sanno guardare la vita senza schemi preordinati e fissi.
Per un carioca non esistono quasi mai valori assoluti; tutta la vita è catturata con le unghie e con i denti come se stesse sfuggendo da un momento all’altro. Per questo motivo il lavoro conta nella misura in cui serve alla sopravvivenza o alla soddisfazione personale, ma è chiaramente subordinato a molti altri valori. Tutto questo è al tempo stesso un pregio e un limite. È un pregio perché consente di vivere liberi da vincoli e limitazioni stressanti e spersonalizzanti, però è anche un limite perché consente di tollerare ciò che per un europeo è incomprensibile: uno stato di profonda rassegnazione e di rinuncia davanti a qualsiasi responsabilità da assumere. E le contraddizioni fioccano e si moltiplicano.

Chiuso tra due favelas, il Sambódromo

Ho attraversato e osservato il Sambódromo della Avenida Marquês de Sapucaì in uno stato quasi di estasi e di incredulità. Ragionando da europeo, non capivo il senso di questa costruzione incredibile, che si snoda lungo un viale stretto da tribune e palchi per centomila persone, dove sfilano decine di migliaia di figuranti delle scuole di samba nei cinque giorni del Carnevale, sfociando poi in un piazzale sterminato per la passerella finale.
Questa è una cattedrale pagana, costruita per una festa pagana, alla quale una moltitudine di diseredati partecipa ricercando una propria liberazione per alcuni giorni l’anno. Dopodiché la cattedrale resta deserta, sommersa dai rifiuti, occupata da qualche Luna Park o utilizzata occasionalmente nei suoi interni dalle disastrate scuole pubbliche brasiliane. Di fronte a me c’era la favela Coroa, con le sue baracche arrampicate verso il quartiere di Santa Tereza, dietro di me, tra la principale fogna della città e l’Avenida Presidente Vargas, la favela di Providência. Chiuso tra due favelas, il Sambódromo esprime integralmente il senso della festa e il bisogno di liberazione del popolo carioca, là dove l’oppresso può sentirsi finalmente libero per cinque giorni l’anno e dove il suddito può vestire i panni del re.

Anelito di libertà
Religiosa sensibilità

Paradossalmente il Carnevale carioca può investire una spiritualità pagana che accomuna le sue radici con quelle di una spiritualità religiosa. Ovviamente, il Carnevale non è ascesi, ma è superamento di una condizione storica che non risponde a un disegno di bontà verso le creature, è anelito di libertà e di liberazione da ciò che è male, è ricerca di una felicità che manca, è tentativo di oltrepassare la schiavitù.
E questo appartiene anche al cuore di una sensibilità religiosa. Ne dà testimonianza un sacerdote italiano che è vissuto per molti anni nel quartiere di Mangueira, là dove c’è la mitica “Estaìção Primeira de Mangueira”, la più prestigiosa scuola di samba della città. Pertanto ogni Carnevale non è mai uguale agli altri, perché comunica sempre qualcosa di nuovo. Nelle sfilate allegoriche, dall’estrema periferia della Baixada fino ai quartieri eleganti sul mare, è il popolo che parla e che esprime se stesso in un crescendo di richieste e di contestazioni che non possono essere taciute.

E poi tacere

In quest’occasione la parola del popolo è sacra, come può apparire inopportuna o addirittura sgradita nel resto dell’anno. Ascoltare il popolo è fondamentale. La vera contraddizione oggi risiede ancora una volta nell’astuzia delle classi dominanti, le quali non ascoltano, ma usano il Carnevale soltanto come un’utile valvola di sfogo per gli umili. Una volta sgonfiata l’aggressività e la frustrazione accumulate nel tempo, questi ultimi possono riprendere tristemente la via della favela o del piccolo luogo di lavoro, preoccupandosi unicamente di fare ciò che fanno da sempre: tacere.
Analogamente, il calcio per la gente semplice motivo di riscatto e di affermazione; la vittoria della propria squadra o del Brasile è anche la propria vittoria, mentre la sconfitta è vissuta come un dramma. Allora io credo che il samba, che è una danza piena di vita e di energia, e il calcio, così immediato e popolare, vadano ricondotti alla loro giusta dimensione: essi non sono folklore, ma linguaggio popolare, energia vitale, modi di esprimersi, ricerca di identità.

L’umanità di Rio

A me Rio piace per questo e io non la giudico per ciò che a molti conviene presentare di questa città. Dagli “alagados” di Vigario Geral ai padroni invisibili di Ipanema, dai “favelados” della Rocinha ai commercianti e albergatori di Copacabana, dai bimbi abbandonati nelle strade agli uomini d’affari della Avenida Rio Branco, dai taxisti imbroglioni ai posteggiatori abusivi, tutta questa umanità vive all’interno di un contesto che, in ogni caso, ha un significato positivo e una ragione che ne spiega l’esistenza.
Una volta riportato ciascuno di questi elementi dentro il proprio ruolo, è possibile capire la ricchezza umana e spirituale di questa città, che prende la vita senza condizionamenti o dogmi, senza limiti di spazio o tempo e, in fin dei conti, senza la paura di vivere.

Le braccia aperte del Corcovado

L’enorme statua del Cristo Redentor, collocata sul Corcovado, è visibile da ogni punto della città e ha le braccia spalancate. Il gesto protettivo di Gesù Cristo porta con sé il significato di un’attenzione costante e continua verso l’umanità che abita lì sotto e non ha nulla di moralistico o di solenne. È l’attenzione verso un’umanità a volte sperduta e confusa in mille rivoli, ma sempre riconosciuta come tale, là dove tutti sono riconosciuti come persone e non come oggetti.
In questa città impossibile e incredibile, questa è l’unica credibile possibilità.