Siamo un popolo privatizzato?
Alle fonti di una cultura individuale
Chi ha raggiunto lo stadio
di non meravigliarsi
più di nulla, dimostra semplicemente
di aver perduto
l’arte del ragionare e del riflettere».
(Max Planck)
«Come sono poveri coloro
che non hanno pazienza!
Quale ferita è mai guarita
se non col tempo?».
(W. Shakespeare)
Sul bus numero 5 sale un nugolo di bambini, con le indaffarate maestre, di qualche gruppo estivo. Tutti col loro berrettino giallo e lo zainetto. Una frotta di pulcini, o canarini, che mette insieme un clamoroso cinguettio. Sui volti silenziosi degli adulti compare qualche sorriso. L’invasione non fa protestare, anzi qualcuno lascia il posto a sedere, che i bimbi occupano due a due. Almeno stanno un po’ lì, fermi… L’umanità adulta riesce quasi a riconoscersi nei bambini, a vedere in loro le proprie non esaurite possibilità: «se non diventerete come bambini…».
Dormo per il caldo con la finestra spalancata. Sono le quattro e non riprendo sonno. Osservo il cielo, di uno scurissimo blu. Compare appena a sinistra, dal montante della finestra, una viva luce, forse una stella più grande. Mi sposto e guardo: è la luna brillante, una fetta di bianco splendente, uno spicchio di cocomero d’argento, un’unghia di luce conficcata nella notte. Viaggia lentissima, ma viaggia: in mezz’ora taglia l’angolo sinistro del vano e scompare in alto. Che io dorma o vegli, gira il mondo a meraviglia intorno a me.
Ci sono tanti paradossi nel mondo e uno di essi è proprio quando il paesaggio si presenta immenso, il cielo illimitato, le nuvole particolarmente compatte, le sensazioni troppo profonde per essere afferrate ed è lì che l’infinito si manifesta ecco, in quel momento, una persona sta bene sola. Una folla apparirebbe insignificante e stonata.
Un individuo solo e l’infinito sono in termini uguali, degni di guardarsi in faccia, ognuno dal proprio trono. Se ci sono molte persone, diventano piccoli sia l’umanità che l’infinito.
Conflittualità permanente e qualunquismo
Abbiamo lasciato alle spalle una campagna elettorale lunga, aggressiva, esasperata, dove i contendenti hanno rovesciato spruzzate di veleno e di accuse alla coalizione avversaria. Alla discussione sui reali problemi dei cittadini, si è preferita la polemica e la demonizzazione dell’altra parte.
Questo clima conflittuale, aspro e acre, ha danneggiato il Paese, contribuendo a presentare la politica come un’attività parolaia e lontana. Ha indotto le persone a chiudersi ancora di più nel proprio privato, giustificandosi dietro a un atteggiamento qualunquista di rifiuto della politica.
Questo clima, purtroppo, non è ancora finito e continuano conflittualità dal sapore patologico, che inducono al pessimismo. Viene quasi il sospetto che tale rabbiosa conflittualità copra un vuoto, un vuoto di prospettive, di idee, di capacità di scegliere priorità, di coraggio della chiarezza che non sempre ripaga in consenso.
Com’è attuale il monito di Paolo VI: «La gente non crede più alle parole, ormai solo alla testimonianza. All’origine della grande crisi individuale e collettiva è la non credibilità delle promesse e delle spiegazioni di chi è delegato a rappresentare il popolo e si comporta come non dovrebbe».
Un problema morale
Il fondo del problema politico è un problema antropologico, cioè morale. Quale tipo di essere umano decidiamo di essere? Di conseguenza: come vogliamo vivere con gli altri? Come ci consideriamo a vicenda? Anche nelle recenti elezioni politiche, la demarcazione è stata tra privatismo e politica, tra il prendere per sé e il cercare per tutti.
Naturalmente la linea di demarcazione non è tracciata su una scheda, né si calcola in numeri. In ognuno dei due schieramenti ci può essere qualcosa dell’altro. Temo, però, che complessivamente il privatismo prevalga sulla politica.
L’ideologia della libertà antisolidale, della libertà dagli altri e dalla legge, ha privatizzato, in questi ultimi anni, non questo o quel settore economico, ma ha privatizzato largamente il popolo italiano. Un popolo, smembrato in individui senza gli altri, è disintegrato. Cerca solo un conduttore che gli dia la sensazione di fare qualcosa insieme, ma insieme ci sarà solo la gara alla reciproca sopraffazione. Vivere senza e contro gli altri piace, illude stoltamente, ma fa anche vergognare (chi vota per il conduttore, lo nega, poi).
Questione settentrionale e controriforma
Dagli esiti elettorali, ma anche dall’orientamento successivo, emerso dal referendum sulle modifiche alla Costituzione, viene evidenziato un problema dallo spessore, oltre che politico, culturale. Si tratta della cosiddetta questione settentrionale. Il dato saliente, che emerge, è la consolidata e, per ora immodificabile, assegnazione al centro-destra di Lombardia e Veneto.
Il caso merita attenzione. Per cercare di capire come stanno le cose occorre rivolgersi a fattori di lungo periodo, rispetto a quelli connessi all’homo televisivus o agli stili di vita attuali, in sostanza troppo omogenei con altre regioni italiane, per giustificare questo scarto.
Bisogna scavare in altre direzioni. Innanzitutto, non va dimenticata l’importanza avuta, in quell’area, dalla trascorsa era democristiana. Si può tuttora affermare che il clericomoderatismo è stata la forma più consona a un determinato tipo di forma mentis diffuso in quelle regioni.
Il problema, poi, sta nel capire perché proprio le zone in cui il cattolicesimo era più fiorente e la democrazia più egemone siano diventate prima la roccaforte della Lega e poi il sicuro bacino elettorale di Forza Italia. Con le doverose cautele non pare del tutto peregrino riferirsi in proposito addirittura ad antiche impronte lasciate dalla Controriforma, movimento che ebbe in Lombardia e in Veneto il proprio fulcro.
A lungo il cattolicesimo è stato predicato e praticato come una grande forma di assicurazione e di garanzia dei propri possessi sia temporali, sia eterni. Proprietà e beni erano i frutti legittimi del proprio lavoro, mentre la salvezza della propria anima (o quella dei propri cari) era lo scopo primario, o forse esclusivo, della pratica religiosa. Tenersi buono il prete era un’assicurazione sulla vita eterna.
Quella figura era, infatti, caricata di poteri enormi: dalla confessione in punto di morte poteva dipendere il destino ultraterreno. Inferno, paradiso e purgatorio erano tre porte dischiuse davanti al morente e solo il prete poteva assicurare di entrare in quella giusta.
In questo contesto ci sono state certamente innumerevoli vite animate da una fede autentica, tuttavia l’ethos collettivo era simile a quello fin qui descritto.
La pratica religiosa era dunque la massima assicurazione sul futuro: Provvidenza ed ex voto tutelavano i beni materiali, i sacramenti quelli eterni.
Il cristiano è un cattivo cittadino
Su queste pianure, colline e montagne ha soffiato, poi, impetuoso, il vento della secolarizzazione e l’intero paesaggio ne è rimasto sconvolto. Qua e là rimane qualche residuo di antiche modalità di pratica religiosa, in genere anch’esse profondamente modificate. L’aldilà, pure quando non lo si nega, non è più interesse primario per nessuno. Tutto si gioca in un impegno per l’al di qua. Per la maggioranza della popolazione, la nostra civiltà resta cristiana. Si tratta, è palese, di un problema di identità (e quindi di contrapposizione, cfr. l’immigrazione musulmana) non di fede.
In questo clima permane un tenace residuo assicurativo, volto a garantire i propri possessi, ormai considerati più certi dei beni eterni.
Una forma mentis, cattolica, secolarizzata, è certamente uno dei fattori da tener conto per comprendere le dinamiche proprie di Lombardia e Veneto; se la si trascura, si rischia di darne un giudizio parziale.
Sembra, infatti, nel pensiero cristiano così strutturato, che morale individuale ed etica pubblica divarichino, perché la destinazione dell’individuo non ha più parentela con la destinazione della società. Sta accadendo, in queste regioni, quanto paventava J.J. Rousseau quando scriveva: «Il cristiano è un cattivo cittadino. Se nella società fa il suo dovere, ciò è un dato di fatto ma non di principio, perché per il cristiano è essenziale il paradiso». Se viene meno la fede nel paradiso, non per questo si resuscita la morale civile, mai coltivata.
Il primato della persona
Eppure il cristianesimo dovrebbe avanzare sulla traccia del «Discorso della montagna», dove le priorità sono ben chiare: prendersi cura degli afflitti, dei miti, di quelli che hanno fame e sete di giustizia, dei misericordiosi, dei portatori di pace, dei perseguitati. La nascita dell’etica personale e di quella pubblica ha, perciò, come fonte sicura e universale, il primato della persona (come nell’indicazione di Gesù che aveva cura dei pubblicani e delle prostitute ancor più dei giusti, del figliol prodigo ancor più del figlio fedele) anche sulla difesa dei principi e delle norme, non dimenticando il monito di Gesù quando ribadisce che «il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato».
A tale proposito, meravigliose e incisive sono le parole, scritte più di mezzo secolo fa, da don Primo Mazzolari, il profeta della Val Padana: «Se mi apparto non sono un cristiano. Se non soffro assieme a tutti, non sono un cristiano; se non vivo la storia che passa, non sono un cristiano. Chi diserta non si salva. Se cerco di giustificarmi, col Vangelo, di non amare il mio tempo e di non patire per la sua salvezza, so che bestemmio il Vangelo».
Ricostruire una moralità collettiva
Dobbiamo pensare che la coalizione che oggi è al governo sia la versione più decente, meno volgare, più «moderata», del diffuso liberismo etico e politico, che riduce la libertà a egoismo di individui e di settori privilegiati dell’umanità? Dobbiamo, con amarezza, pensare che l’Italia sia tagliata moralmente in due, schizofrenica, nemica di se stessa, apparentemente inguaribile? Oppure, peggio, omogenea sotto bandiere di interessi diversi? È nostro compito rintracciare una moralità collettiva. Trovare, in questo scenario, un punto di riferimento, una direzione, un orizzonte. Dentro ciascuno di noi c’è l’umano e il meno umano, o addirittura il disumano, ma vivere è decidere. Decidere nelle cose personali e in quelle politiche, tra ciò che umanizza e ciò che disumanizza.
Il lavoro di ricostruzione, dopo anni di devastazione di leggi e del costume, ora è enorme, difficile, ma possibile, perciò doveroso. Lavoro non tanto di prescrivere, di esortare, di mettere in guardia, quanto incominciare a rimuovere questa indifferenza emotiva, in modo che non si atrofizzi il senso di responsabilità.
Sembra infatti che nel nostro tempo il «dovere» non sia più nelle condizioni di prescrivere il «fare», ma solo di inseguire gli effetti già prodotti dal «fare economico», che assume il denaro come unico generatore simbolico di tutti i valori a prescindere da qualsiasi finalità.
L’orizzonte di questa azione umana e politica è molto ampio, il cammino incerto e faticoso, ma senz’altro vincente, perché misterioso e profetico, come ci ripete con energia don Primo Mazzolari: «…io so che il profeta non è mai stato sopportato in nessun momento della vita. So però un’altra cosa: che il testimone della verità del Cristo deve avere l’anima del profeta».
Pove del Grappa, agosto 2006