Il baritono Mariano e il tempo degli incontri

di Monini Francesco

Copparo è un paese piccolo, ma non minuscolo, tra Ferrara e il Po. Sistemo lo zaino nell’armadietto, mi svesto e mi infilo il pigiama, tasto il materasso del letto e mi guardo intorno. La camera è grande, due letti e poco altro; sarebbe grande anche per i quattro letti previsti, con le relative postazioni: luci, pulsantiera, campanello, comodino, sedia color verdino ospedale e tavolinetto regolabile per mangiare a letto. C’è tutto quello che ci deve essere, tutto pulito ma un po’ raccogliticcio, come tirato fuori da un qualche magazzino, verniciato e rimesso in servizio.

Tre settimane prima mi hanno operato all’anca sinistra nel mastodontico e lussuoso alveare del San Raffaele di Milano. Guardavo fuori dalla finestra e vedevo in alto l’arcangelo, quello che secondo il visionario Don Verzé, poi fallito miseramente, avrebbe dovuto proteggere i 4.500 pazienti dell’ospedale e, soprattutto, assicurare santi e lauti guadagni agli amici di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere. Dietro l’arcangelo Raffaele spunta il bosco ordinato dei palazzotti di Milano Due. Proprio da lì, circa quarant’anni fa, è spuntato il sole abbagliante di Berlusconi. Sembrava un nuovo Luigi XIV. Oggi anche il suo sole è tramontato.

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Alle sette e mezza apre il bar al piano terra (domenica chiuso) e alle sette e venti c’è già la fila. Il primo della fila è sempre Mimmo, una lunga criniera di capelli neri e ben «gelati», agilissimo sulla carrozzina. Per la terapia in palestra c’è ancora tempo. Con Mimmo, Bruno, Doriana e Antonio usciamo a fumare nel grande piazzale. Io con le stampelle e loro tutti in carrozzina, tutti del quarto piano. Vengono dal sud e dal centro Italia, le risate e gli accenti si intrecciano. Ognuno starà al San Raffaele dalle quattro alle cinque settimane. «Ogni anno ci chiamano per il tagliando» – dice Bruno. Ha quarant’anni, è di Pisa, scorbutico, le parole aspirate e la lingua che taglia. Ha sempre fatto il barista ma adesso ha dovuto dar via il bar: «La sclerosi multipla non ti perdona, ogni anno si scende un gradino, o tre, o cinque gradini in una volta».

Al piano terra c’è una grande sala con tavoli, poltrone, addirittura un pianoforte a coda. Il «gruppo della Multipla», tra loro si chiamano così, mi invita a una pizzata: per salutare Doriana che se ne torna a casa. «Ma io sono del secondo piano», preciso. «Vieni, faremo un’eccezione», risponde Mimmo.

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Dicono che gli ospedali siano tutti uguali. Gli stessi colori tenui e riposanti. Lo stesso odore di disinfettante. Lo stesso rancio ospedaliero. Ma il salto dal San Raffaele all’ospedalino di Copparo – l’avevano chiuso alcuni anni fa, per poi riaprirlo con il nome benaugurante di Casa della salute – mi fa lo stesso effetto di un vuoto d’aria.

Nell’angolo opposto della stanza, sembra lontanissimo, c’è il letto di Mariano. Per prima cosa mi presento al mio compagno. Ma Mariano parla una lingua incomprensibile, non è nemmeno un dialetto, solo mezze parole, suoni tronchi e rauchi, o sdruccioli, come di foglie secche mosse dal vento. Quando è arrabbiato (Mariano è spesso di malumore) emette borbottii tellurici, ruggiti sommessi. Di notte cambia tonalità, adesso dal suo letto arriva un lamento flebile e continuo, senza un preciso recapito.

Mariano ha 65 anni. Non è grasso, è grosso, come il tronco di una grande quercia. I capelli radi a ciuffi grigi, una bella faccia da contadino o da centurione in pensione. La gamba destra è tutta fasciata fin quasi all’inguine, dalla fasciatura spunta il rosso ruggine del mercurocromo. Quando le infermiere gli medicano le piaghe lui sta zitto, le infermiere scherzano e lui zitto, un brutto odore impregna tutta la stanza. L’altra gamba non c’è più, tagliata appena sotto il ginocchio, la cicatrice sembra la linea del fronte, la coscia è un prosciutto rosa.

Mariano sei sposato? Mi fa segno di no. Hai dei figli? No. Ti porto un caffe? Ancora no. Con le stampelle mi avvicino al suo letto. Sembra sempre incazzato Mariano, o quasi sempre. Hai bisogno di qualcosa? Mi guarda fisso e afferra con le mani – ha due mani enormi, forti, bellissime – le sbarre del letto. Le scuote. Lui vuole uscire da quella gabbia. Tiro giù le sbarre, accorre un’infermiera, mi sgrida, aziona la manovella e rimette a posto le sbarre. Ora Mariano fa finta di dormire.

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Armato di stampelle mi dirigo verso la sala della televisione (qui almeno è gratis, mentre al San Raffaele costava 3 euro al giorno); ci sono anche le macchinette con l’acqua minerale, le merendine, il caffè. Mi fermo un tempo infinito (anche qui come al San Raffaele il tempo non passa mai e il problema quotidiano è farlo passare in qualche modo) ad esaminare una grande pianta grassa a me sconosciuta. È talmente verde, talmente lucida che sembra finta. Toccare per credere: è proprio vera e almeno lei in ospedale sembra starci benissimo. C’è anche un piccolo scaffale di libri (la mia malattia). Vedo due tremendi best seller americani, alcuni gialli e tanti Harmony. Serie verde, serie rosa e serie bianca: gli Harmony serie bianca sono tutti ambientati in ospedale, la storia è sempre quella: un dottorino maschio si innamora di una o più infermiere femmine.

Alla tivù c’è Forum (ho scoperto che Forum è come il telegiornale, c’è sempre, a tutte le ore) ma nessuno lo guarda, né i pazienti né i parenti in visita. Scopro di essere il più giovane dei ricoverati, il ragazzino in mezzo a signore e signori che viaggiano verso la quarta età.

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Ivana ha 86 anni, gira in carrozzina, ma ancora qualche passo lo fa da sola, le piace attaccar discorso. Ha gli occhi di un azzurro intenso, vivaci, birichini. Chissà da giovane, penso. È arrivata da un mese ma non fa nessuna cura. Solo che a casa non c’è nessuno: sua figlia è ricoverata in una clinica per una forte depressione, e allora l’hanno portata qui, posteggiata nell’ospedalino di Copparo. Mi dice che qui dentro si mangia bene. Personalmente, bene mi pare un avverbio eccessivo, ma il purè non è male, e nemmeno gli yogurt alla frutta.

Tutti i giorni le offro un latte macchiato alla macchinetta. Lei mi ringrazia e mi interroga: «Come mi chiamo io?».

Rispondo pronto: «Ti chiami Ivana. E tua figlia Morena. E il tuo gatto Trudy».

«Bravo, ma lo sai che hai una bella memoria!». Io ribatto: «Adesso però tocca a te, come mi chiamo io? E come si chiamano le mie due gatte?».

Ivana va in crisi, mi guarda, punta l’indice sulle labbra. Scuote la testa. «Dai Ivana, è facile… mi chiamo come il papa». Niente ancora, non riesce a ricordare. Allora l’aiuto: Fran-ce… Ecco, finalmente le è tornato in mente: Francesco, dice trionfante. Ivana sembra una scolara: «Sono stata brava? Allora me lo devi dare…».

Tutti i giorni le dò un bacino sulla guancia. No, non è gelosa delle amiche e fidanzate che mi vengono a trovare. Lì dentro, è lei la mia fidanzata.

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Mariano, Bruno, Mimmo, Ivana. Già, ci sarebbe anche Cinzia. E potrei continuare. In ospedale il tempo si ferma. Se smetti di considerarla una «perdita di tempo», incomincia «il tempo degli incontri».

Una volta succedeva anche in treno, quando ti impegnavi in un viaggio lungo tutta la penisola e passavi dodici o quindici ore in mezzo all’odore di sconosciuti. Ora non più, Italo e Frecce rosse competono con gli aerei, compresa la vocina fuoricampo in inglese. Gli altri treni non contano (come del resto i poveri pendolari), non rendono e scompaiono a uno a uno dal tabellone. Non mi piace più andare in treno. Conta solo l’orario di partenza e di destinazione, non tutto quello che c’è in mezzo.

Mentre ero in ospedale, la storia, come si usa dire, è andata avanti. In Italia, in Europa, nel mondo è successo di tutto. La scandalosa «marchetta» dell’Europa alla Turchia per riprendersi i rifugiati, un ministro italiano che si dimette per lo scandalo petroli, le bombe e i morti di Bruxelles, la presidente brasiliana Dilma Rosseff a un passo dall’impeachment, il referendum sulle trivelle con un ex presidente della Repubblica che (inaudito) invita a non votare.

Ma questo diario è dedicato al niente che nel frattempo accadeva ogni giorno in ospedale, a tutti gli incontri, a tutte le amiche e gli amici che probabilmente non rivedrò più.

Dimenticavo. Alla fine con Mariano ho trovato la strada. Un colpo di fortuna. Cantavo un motivetto degli anni Sessanta. Dal suo letto Mariano ha completato la strofa. Lui le canzonette le sa veramente tutte, parola per parola: Celentano, Mina, Sergio Endrigo, Gino Paoli, Jimmy Fontana, perfino Riccardo Del Turco (chi era costui?). E tutte le mattine, finita la colazione, io e Mariano ci facevamo una mezz’ora di cantata. Io tenore, lui baritono. Si fa per dire.