Maestro di intercultura
Vorrei ricordare l’uomo, che ha raggiunto il suo samadhi (la sua realizzazione) alcuni mesi fa, dopo aver passato tra noi oltre novant’anni, e vorrei ricordarlo agli amici che mi leggeranno non tanto come un ricordo del passato, ma con una presenza profonda e significativa attraverso il suo pensiero che ha toccato e messo in discussione le nostre vite.
Mi permetto di non citare tra virgolette il suo pensiero, ma di riflettere liberamente ed esprimere così la mia gratitudine d’avermi fatto da maestro e d’essermi stato amico e compagno.
Ogni volta che ci siamo incontrati, in questi lunghi anni, non sono mai stato invitato da lui a vivere l’interculturalità come un’occasione su cui pensare, ma come un ambito in cui vivere. Abbiamo imparato a vivere le differenze tra individuo e persona, tra collettività e comunità, così anche la differenza tra cultura pubblica e cultura comunitaria non come un problema, ma come un arricchimento. Abbiamo sempre rifiutato un approccio astratto con la realtà, che era stato presentato come oggettivo, razionale tecnico, intellettuale.
Ho imparato che è sempre da preferire un approccio concreto, a vasto orizzonte, che lui ha sempre chiamato «sapienziale», di cui cioè sentire il sapore, il gusto e sentirne il senso profondo partendo dalla nostra corporeità.
Ancor più sottolineato è stato il rapporto con il reale a livello «dialogico» e non dialettico, che significa dualistico e contrapposto. Non è giusto tentare di risolvere le contrapposizioni tentando di ridurre una parte all’altra e farne un’unità formale e ambigua che rischia di portare alla schizofrenia, cioè a una continua oscillazione tra una parte e l’altra. Tutto in natura richiama alla diversità e l’unità significa armonia tra i diversi e celebrazione delle diversità.
In Occidente esiste molto radicato il concetto di «individuo», quasi come un oggetto, e l’«altro» è sempre un contrapposto, che si concretizza in un problema da risolvere da delegare all’autorità «competente», eletta proprio per risolvere gli eventuali contrasti e scontri. Questo modo di procedere si è solidificato nella cultura dei diritti, che è evidentemente legittima, ma che vuole perseguire la cultura dello sviluppo e della modernità. La cultura dei diritti rileva le differenze culturali, le differenze personali o comunitarie semplicemente come ingombranti e favorisce alcune affermazioni, ormai divenute slogan, come «La legge è uguale per tutti», «Noi siamo tutti ugualmente umani», «Sostenere le differenze crea solamente ghetti».
Partiamo invece dall’orizzonte aperto e pluralistico della realtà e possiamo scoprire che la persona non è un individuo autonomo, esclusivamente e principalmente razionale, legato cioè al suo pensiero, ma è invece una realtà vitale e relazionale. Se ognuno di noi è un «nodo relazionale», ognuno di noi è più di una volontà, più di un pensiero e, per dirla in una sola espressione, non siamo esseri autonomi, ma caso mai ontonomi, cioè esseri viventi. Siamo cioè più grandi della nostra volontà, più grandi del nostro pensiero, siamo un mistero, cioè un simbolo e non tanto un concetto.
La cultura dell’individuo, che mette in secondo ordine la cultura della persona come soggetto di relazione, rischia di portare quasi inevitabilmente al colonialismo. Porta comunque gli individui a essere oggetti di diritto e quindi di governo e, secondo la politica dei governanti, oggi noi siamo di diritto produttori, consumatori inquinanti e contribuenti.
Inevitabilmente in occidente la «comunitarietà» è oggi messa in secondo ordine rispetto all’economico e al politico finanziario.
La cultura occidentale della modernità non accetterà mai di mettersi a fianco delle altre culture, ma considera i propri valori e i propri criteri transculturali e universali e questo lo si può notare nelle materie scolastiche come la filosofia, la geografia, la storia, e ancor più la sociologia, l’economia, la fisica, la medicina… Già nel lontano 1995 Panikkar, parlando agli studenti e ai professori di filosofia dell’Università di Phnom Phen, diceva: «Non accettate mai come assoluto le affermazioni che gli occidentali cercheranno di trasmettere come tali in Asia. Esse sono da rispettare, ma solo come espressioni della cultura del mondo occidentale, non del nostro mondo orientale».
Secondo l’Occidente della modernità tutte le culture dovrebbero integrarsi al sistema nei suoi valori di cultura pubblica comune, cioè le altre culture dovrebbero sparire nel sistema, nel quale non dovrà esserci alcuna differenza religiosa, razziale, culturale. Per raggiungere questo obiettivo si dovrebbe sempre sottolineare ciò in cui siamo identici e sottacere ciò in cui siamo diversi. Su questo tra l’altro si fonda il presupposto dell’identità, perché in ogni conduzione statalista ogni diversità diventa un problema. Inevitabilmente la conduzione statalista del potere non può ammettere differenti diritti, differenti codici, differenti comportamenti in contrasto tra loro.
Un altro elemento determinante del «pensiero esperienziale» di Panikkar è certamente la constatazione che l’umano non è e non può essere al centro dell’universo, come anche non può essere al centro dell’universo il cosmo e neppure il divino. Alcuni gruppi d’indiani d’America, sapientemente, nelle riunioni, sempre condotte in cerchio, mettono al centro il fuoco per indicare simbolicamente che chiunque si vuole mettere al centro si brucerà o sarà bruciato. A questo proposito Panikkar ha inventato un’espressione, come spesso faceva, peràsottolineare l’unità dei mondi: la concezione «cosmoteandrica» dell’universo: il cosmo, l’umano e il divino dovranno condividere lo spazio secondo il ruolo di ciascuno, mantenendo ognuno la propria individualità, senza sovrapposizione o esclusione alcuna delle tre dimensioni.
Questa visione non è solamente un approccio filosofico, ma deve determinare nello stesso modo la rete di relazioni all’interno del mondo umano, del mondo della natura e anche del divino.
Arrigo Chieregatti
codirettore di InterCulture,
edizione italiana della rivista
dell’Istituto Interculturale di Montreal, Canada