Rassegnazione e cinismo gravano sull’occidente

di Stoppiglia Giuseppe

È arrivata l’ora della riscossa

«Delle nostre parole dobbiamo rendere
conto agli uomini, ma dei nostri silenzi
dobbiamo rendere conto a Dio».
Tonino Bello
«Amami quando lo merito di meno,
perché sarà quando ne ho più bisogno»
Catullo

Il coraggio delle donne

Yvonne divorava giornalini a fumetti e fotoromanzi. Appena poteva, a ogni pausa del servizio, sprofondava nella lettura e nel sogno. La prima immagine che conservo di lei è quando, incinta, si presentò a lavorare come domestica nella comunità delle suore in via Gurupi, a Rio de Janeiro. Piena di buona volontà, partiva alle cinque del mattino, con il trenino e con l’ìōnibus, da Nova Iguaìçù, nell’estrema periferia della città carioca e, appena arrivata in casa, correva nel bagno a vomitare.

La vecchia madre era furiosa contro di lei perché si era lasciata imbrogliare da un giovane senza scrupoli e irresponsabile che, dopo averle promesso il matrimonio, l’aveva lasciata nei guai e si era successivamente sposato con un’altra ragazza. Yvonne era buona e bella, orgogliosa di essere nera, ma poverissima, quindi facile da aggirare con false promesse e lusinghe inverosimili. Intelligente e curiosa di imparare, era, però, troppo ingenua. Una figliola estremamente mite e generosa per sapersi difendere. Così, da ragazza madre, sedotta e abbandonata, s’imbatté in un altro personaggio, disonesto e violento, autista di professione, che ne approfittò, giurandole e spergiurandole di volerla sposare e di dare, pure, il nome alla bambina. Alla seconda gravidanza, però, Yvonne si ritrovò puntualmente sola e disperata. Questa volta la madre la cacciò di casa. A lei non rimase altra scelta che la strada dell’aborto clandestino. Al dramma della solitudine s’aggiunse il terrore della tragedia.

L’ultima volta che la incontrai fu in Plaìça Penha, presso la stazione della metropolitana. Era sola, seduta in una panchina, immersa nei suoi fumetti romantico/avventurosi. Magra, gli occhi neri scavati nel volto dolcissimo, con il pallore di una persona sofferente e sperduta. Mi raccontò subito, piena di speranza, che un medico di Niteroi, ginecologo, l’avrebbe presa nel suo studio, naturalmente a servizio pieno. Yvonne, ancora una volta, si faceva delle illusioni, senza accorgersi della solita truffa. Un buon animale da letto, docile e saldo, un’anima ancora candida. C’è coraggio nelle donne: a volte da vendere, altre volte da imitare, altre volte ancora da invidiare, soprattutto quando le famiglie diventano non il luogo di relazioni sane e armoniche, ma di violenze sorde. Dove sei Yvonne? Hai camminato nel fango con la luce intatta nei tuoi occhi. Yvonne è morta di Aids, quattro mesi fa, a Nova Iguaìçù, alla vigilia della festa di S. Giovanni.

L’amara sconfitta dello Spirito

La condanna dei ricchi e dei potenti è stato il motivo conduttore della mia e penso anche della vita di molti miei lettori. Ho lottato per creare giustizia contro l’iniquità della povertà e della sofferenza sociale. Ho cercato di costruire, assieme ad altri, un rapporto intenso coi dannati della Terra, ma nello stesso tempo ho sentito il desiderio urgente di superare quella soglia. Pur sentendomi a posto con la coscienza, provavo la sensazione dolorosa di essere nel peccato per quella che chiamerei la «volontà di potenza»: consolare chi cerca consolazione e non di lavorare piuttosto sulla disperazione, come passaggio obbligato della speranza. Mi accorgo, con amarezza, che questa lotta e questa condanna dell’ingiustizia e della povertà sono rimaste parole vuote, spesso usate anche da chi non ci crede. Siamo, oggi, di fronte a una pesante sconfitta dello «Spirito», più grave e drammatica dell’enorme disastro della povertà e della miseria che affligge milioni di uomini. Il nostro discorso di condanna contro i potenti, a favore dei dannati della Terra, resta come sospeso in un vuoto di «effettività» penoso e non riesce a scuotere il torpore in cui siamo immersi. Non è l’Islam che bisogna capire e apprezzare come antagonista della globalizzazione, ma la malattia dell’Occidente, che si sta manifestando in questa enorme apatia e nella sua indifferenza mostruosa. È chiaro, perciò, che l’irruzione del nuovo nella nostra storia, può avvenire solo se l’Occidente riuscirà a piegarsi fino a comprendere il proprio male oscuro.

Questo nostro Occidente è malato di cinismo e, per questo, è abitato da pensieri di morte, ai quali tenta di sfuggire in tutti i modi, «uccidendo», se può, tutto ciò che lo circonda. La malattia dell’Occidente non è di non riconoscere le altre culture, ma quella di non riuscire più a guardarsi dentro, per guarire dall’odio e dall’invidia. Alla radice della nostra incombente barbarie c’è questo attaccamento al potere e al possesso, che ci viene mostrato come ultima sponda dell’uomo civile. Quello che stupisce maggiormente in tutto questo e fa aumentare il clima d’impotenza, è la rassegnazione generale e la mancata indignazione della gente comune: un sintomo doloroso e opprimente di morte. Ciò significa che il male non riguarda solo il ceto politico, ma è ormai entrato nella testa e nel cuore di tutti. Il bene comune è uscito di scena e la stessa verità oggettiva è piegata a criteri di utilità, di interessi e di convenienze.

Una teologia utilitaristica a servizio del principe

Occorre ripartire! «Nulla è fisso nella storia – scriveva Ernesto Balducci già vent’anni fa – e questo rimetterci a zero non è nichilismo, ma è piuttosto il recupero di un’autentica dimensione umana. Dobbiamo, quindi, progettare il futuro, a partire dall’uomo inedito che già è in noi, cioè dall’uomo possibile, ma per far questo, occorre generare un modo di essere uomini che ancora non esiste».

Il panorama politico italiano è squallido. I segnali del degrado etico, pubblico e privato, hanno fatto emergere un quadro generale scandaloso, dove ci si trova di fronte, non più e solo un regime politico, ma una teologia utilitarista a uso e consumo del Principe. Teologia gestita da un nuovo genere di diaconi, gli «atei devoti», che continua imperterrita il tentativo di integrare Dio come chiave di volta del sistema borghese, del tutto funzionale agli interessi dei poteri dominanti. La stessa fede in Dio finisce per essere compresa in questo contesto culturale, non come un dono, ma come un possesso, una grandezza quantificabile e misurabile.

La sola fonte di legittimazione politica, oggi, sembra essere il consenso popolare, dove si è giunti al punto, addirittura paradossale, che l’appello alla legittimazione del voto popolare è diventato perfino il lasciapassare all’illegalità. Siamo prossimi a un regime personale, senz’altro illiberale, ma di tipo nuovo, con due caratteristiche chiare, la verticalizzazione e la personalizzazione della rappresentanza. Una tale concezione padronale dello Stato riduce ministri e politici a «servitori», cioè a semplici esecutori degli ordini del capo. Indubbiamente, in questo processo, Berlusconi non è vittima, come falsamente si scrive e si predica in giro, ma responsabile e complice del degrado nel Paese. L’ostilità, la rivalità, le sopraffazioni sono diventate un matricidio, un taglio mortale, cioè, alle radici della vita pubblica. Lo stato di diritto è limitazione di ogni potere, ma il costume dell’illegalità ha ormai fatto presa su tutto e su tutti, anche sul popolo cristiano.

Lo scandalo della fede vana

Il teologo Joseph Ratzinger, nel 1972, scriveva: «Lo scandalo più grave della fede cristiana sta nella sua mancanza di incidenza storica. Essa non ha cambiato il mondo. Se la fede non produce nulla, allora anche tutto quello che si può dire, è vuota teoria». Gli eventi, da quella data, non hanno smentito il pensiero pessimista del teologo, diventato oggi Papa Benedetto. Anzi è andata affievolendosi quella carità, che è il centro del cristianesimo, il tessuto connettivo del regno di Dio, l’unico progetto che Cristo ha portato al mondo. Occorre, perciò, partire da lì per pensare all’incidenza storica, di cui il teologo Ratzinger lamentava la mancanza.

All’amara constatazione del cardinal Ratzinger che la fede non ha salvato il mondo per mancanza di incidenza storica, vorrei rispondere che la fede cristiana, in questi ultimi anni, è stata diffusa e trasmessa più come dottrina e vissuta come scelta individuale di vita, piuttosto che come progetto nel tempo. Il capitolo 25 del vangelo di Matteo ci descrive la fede non razionalizzata nei dogmi, nelle verità astratte, ma nell’incidenza dei casi concreti, che presentano i bisogni urgenti (fame, sete, casa, lavoro, malattia, prigionia, ecc.) dove intervenire. Questo tipo di incidenza rende la fede presente, attiva, storica perché entra in situazioni concrete, raggiungendo legittimamente la sfera politica, dove si troverà schierata, necessariamente, contro i poteri politici, causa diretta degli affamati, degli assettati, dei disoccupati, ecc. Se la fede, invece, crea alleanze con gli oppressori e li difende (vedi mons. Fisichella e card. Scola), è veramente tradita e autorizza la conclusione amara del teologo Ratzinger: la fede non ha salvato il mondo. Quando Dio e la religione diventano merce di scambio, tutto può accadere: anche la negazione di Dio stesso nella finzione formale del suo rispetto. Se l’istituzione ecclesiastica prevale sul mistero e la sua struttura di potere prevarica sui profeti, si potrà salvare forse l’uniformità esteriore di un «certo ordine», ma la «religione» perde la sua anima e diventa «insensata», perché avrà come obiettivo di perpetuare se stessa, cassa di risonanza dei potenti.

Un’occasione perduta per la chiesa

Se solleviamo le bende che nascondono le ferite del cattolicesimo italiano ci troveremo davanti a un quadro desolante. Oltre all’uscita di scena della docilità dei fedeli agli insegnamenti della Chiesa in materia sessuale, a una pratica religiosa in caduta verticale, a una riduzione legalistico/ moralista dell’annuncio evangelico, si devono aggiungere la perdita della profezia, l’imborghesimento e la crisi umana del clero, l’inseguimento del patto di stabilità fra Chiesa e destra politica al comando, l’accumulo dei privilegi concordatari, giunti al punto di produrre un cristianesimo contraffatto, come quello degli «atei devoti».

Sul Corriere della Sera del 22/9/74, Pier Paolo Pasolini scriveva: «La Chiesa poteva essere guida grandiosa ma non autoritaria di tutti coloro che rifiutano il nuovo potere consumistico, che è completamente irreligioso, totalitario, falsamente tollerante, violento, anzi più repressivo che mai, corruttore, degradante». Analizzando appunto quel progetto, che mirava alla trasformazione antropologica dell’uomo e alla sua radicale alienazione, la Chiesa italiana avrebbe dovuto, in quel momento, passare all’opposizione per evitare una fine ingloriosa, contro un potere che l’aveva così cinicamente abbandonata, progettando, senza tante storie, di ridurla a puro folklore. Invece una parte della gerarchia (costantiniana/ruiniana) ha appoggiato proprio quella politica, dando patenti morali ai valori meno civili, per puro scambio di favori e vantaggi, più devota al potere temporale che al bene comune e alla giustizia. Una forma costantiniana di cristianesimo (dove ricchi facoltosi e potenti «atei devoti» sono troppo di casa, mentre langue la formazione seria e la testimonianza scomoda) e il messaggio della Chiesa italiana è ormai così imbrogliato dall’ingerenza nel campo politico da rendere faticosa l’adesione alle parole chiare del Vangelo.

Per rispondere alla domanda sull’ingerenza storica della fede, ritengo necessario per il popolo cristiano diventare lievito nella pasta, piccolo gregge passando per una grande cura di umiltà e vivere la profezia, sapendo di essere figli di un Dio debole, del quale non sanno che farsene, né Berlusconi, né le gerarchie ecclesiastiche. Lo stesso Dio debole di Gesù Cristo, il quale si accompagnava ai piccoli, ai poveri, agli autentici, che fossero sposati regolarmente oppure no, credenti e praticanti oppure no, per Lui erano sempre e tutti figli di Dio.