Se la scuola vive tra gli steccati dell’ambiguità
La società diventa la piazza del precariato
«Questa modernità cannibale mi ossessiona.
La stoltezza che circola si palpa.
C’è qualcosa di azzardato e friabile in
questo nostro presente
che sento di non poter controllare».
Andrea Zanzotto
«Se vuoi andare veloce vai da solo,
se vuoi andare lontano vai con altri».
Proverbio africano
Susanna va a scuola
«Il mio rapporto con la scuola – racconta Susanna – è sempre stato di odio e amore. La scuola in fondo è stata tutta la mia vita, il mio ruolo nella società, il mio posto nel mondo. Nonostante la stanchezza, l’insofferenza della routine, le beghe di ogni anno, i piccoli dissapori, c’è sempre stato un rapporto magico con gli alunni. Si vive insieme tante ore ogni anno, ci si occupa della personalità di ognuno, dei suoi problemi… non è solo lo svolgimento del programma».
La ascolto, seduto e rilassato sul divano del suo studio, mentre lei interrompe la lettura del libro Paranoia: la follia che fa la storia di Luigi Zoja. Susanna ha sessant’anni e conserva un aspetto ancora giovanile. Va in bicicletta, suona il pianoforte, scrive poesie. Ha charme e una finezza contagiosa nell’offrire il tè, nell’apparecchiare la tavola, nel disporre i fiori nel vaso, nello scivolare con passo leggero e silenzioso da una stanza all’altra. È agile, svelta. È tanto soave nella sua discrezione e nel suo tatto da avvertire appena qualche guizzo impercettibile d’intolleranza nei giudizi definitivi e taglienti o meglio nella sicurezza di giudizio con cui formula il suo pensiero.
«Fin dai primi anni delle elementari avevo il terrore di non farcela. C’era l’angoscia delle «tabelline» e la noia a memorizzare le pagine di storia, ma c’erano pure i successi, le soddisfazioni, l’amicizia con le compagne, l’ascendente delle maestre.
Gli anni passati alle medie sono stati favolosi, ma al liceo sono ripresi di nuovo i tormenti. Lo studio obbligato mi riempiva il pomeriggio intero, mentre avevo tanta voglia dì imparare altre cose, tanta fame di libri diversi, ma, per avere buoni voti, come esigevano i miei genitori, dovevo studiare sui libri di testo, che ho sempre detestato.
Quando mi capitava di non essere preparata e di subire un’interrogazione, tremavo dalla paura! Poi le nottate, le veglie insonni prima degli esami all’università. No, non sono ricordi belli. Tempi eroici, semmai, con la gratificazione dei risultati onorevoli, ma a quale prezzo!
Poi ancora a scuola ogni mattina, non più da studente ma da docente. Ogni giorno un esame. Ancora più spietato. Quale rimpianto potrei avere nel lasciare la scuola, questa scuola? Ho cercato di essere come avrei voluto che fossero i miei insegnanti. Non mi sono servita dell’arma del registro e della bocciatura».
Ritorno all’antico ruolo
«La scuola vive ormai in questa ambiguità tra prevenzione sociale, protezione della gioventù da una parte e trasmissione di abilità, di saperi dall’altra. Alla funzione educativa, come costruzione di valori proiettati nel futuro di un mondo più civile, allo studio come percorso di crescita della persona, nessuno crede più. I colleghi sono i primi a riderti in faccia, e, se si apre una discussione, scatta subito la rissa, la bagarre ideologico/partitica.
Sembra quasi che gli stessi alunni vogliano il professore tradizionale, quello che si fa temere, che si veste d’autorità e che applica la selezione. Ero carica di utopia, di processi educativi alternativi, di ideali nonviolenti: don Milani, Capitini, Gandhi, Freire… che non significava lavorare meno, anzi, ma diversamente! A scuola, in questi anni, ci sta bene chi prende le cose poco sul serio e adempie semplicemente a una serie di formalità. Rinunciare per me a uno stile, a un metodo antiautoritario significherebbe rinunciare a me stessa. Se il «ruolo» me lo impone, devo rinunciare al ruolo».
Carlo, un artista che se ne va
Le dita di Carlo corrono agili sulla tastiera. La parete a specchi riflette il profilo chino, il volto incavato, un unico corpo col pianoforte a coda. Tanta musica dentro, musica da eseguire, musica da inventare e la realtà quotidiana delle scolaresche difficili nel quartiere più popolare di Mestre. Alle spalle Torino, il Conservatorio, i genitori morti.
Solo, libero nella vita affettiva, il legame con l’istituzione scolastica lo rende depresso, insofferente. La creatività e il bisogno di espressione trova difficilmente posto nel mondo della scuola; Carlo ha deciso: se ne va.
Ridimensionerà il bilancio familiare, dando dei concerti, al limite con qualche ingaggio al piano-bar degli hotel di prima categoria. A 37 anni Carlo cerca ancora sé stesso come artista. Lo stipendio necessario gli ha fatto scivolare il tempo tra le dita.
Il senso della vita? «Realizzarsi – risponde – perché quando comincia il disgusto per un certo tipo di lavoro, vuol dire che non va, che è contrario ai propri interessi profondi. Se un germe non sboccia, se un dono di natura non si esplica, non si può star bene nella propria pelle. Il talento, le capacità, le attitudini variano da individuo a individuo. Molto dipende non dai soli fattori genetici, ma anche da quelli ambientali, dagli stimoli e dalle possibilità di sviluppo».
Per una visione aperta del mondo
La scuola è lo specchio di come vive una società e oggi la società italiana non vive bene. La scuola e l’università non aiutano i giovani a crescere, a formarsi per essere protagonisti in modo adeguato alle sfide attuali. Gli studenti non sono resi curiosi, non entrano in uno spazio emotivo e creativo che li possa affascinare. Se non c’è una forte motivazione a capire il mondo attuale, lo studio è troppo frantumato e asettico per appassionare lo studente.
L’università non è un luogo di arricchimento, di valorizzazione o di benessere, ma un luogo di transito di masse di studenti anonimi.«Lo studio è l’apertura a una visione del mondo – scrive il prof. Pietro Barcellona – e le visioni del mondo sono l’espressione concentrata dello spirito dell’epoca in cui si vive. L’errore è di preparare delle persone ad avere sì una conoscenza specialistica, ma non un cervello globale, capace di vedere l’insieme delle cose». Così la selezione delle classi dirigenti non passa più per la scuola, perché nessuno valorizza le sue risorse umane o ripensa ai giovani come agenti di cambiamento.
Nel periodo giovanile, la mia generazione guardava il mondo per stupirsene e credeva nel progresso. Oggi, i giovani guardano dentro sé stessi e scoprono la follia del mondo. Non era così difficile prevederlo. Questa crisi ha radici antiche. Da anni si sa che andiamo verso una società spaccata tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Lo spazio delle classi medie si riduce, l’impoverimento è una realtà e produce effetti psicologici ben noti, come un’angoscia generalizzata. «Il capitalismo ha vinto la lotta di classe, ma l’ha fatto con arroganza» afferma l’etnologo francese Marc Augé.
Il «precariato giovanile»
Non è una novità, c’è sempre stato, ma ora sta diventando un problema sociale enorme. Viviamo anni di disperazione, dove la frustrazione, la mancanza di speranza, la sensazione di schiacciamento di fronte alla montagna dell’indifferenza e della concorrenza (milioni di altri precari nella stessa condizione) sono cosmiche e assolute. Lo scarto diventa sempre più profondo, non solo economico, ma anche educativo e di accesso alla conoscenza. È come se il mondo intorno non esistesse. La vita di molti giovani resta monca, incompiuta e sta precipitando nel gorgo del precariato senza speranza.
Il fenomeno degli «indignati» è certamente importante perché si presenta su scala mondiale, ma quello che colpisce di più è proprio la perdita di speranza dei giovani. Lo stesso fenomeno si sta verificando anche nei Paesi emergenti, dove le risorse non mancano. Anche lì gli scarti si amplificano invece di ridursi e nasce la tentazione della violenza. Per lungo tempo si è teorizzato che il trionfo del mercato avrebbe comportato infallibilmente quello della democrazia, fino alla fine della storia. Beh, non è vero, e la Cina è lì a dimostrarlo.
I giovani sono tenuti fuori dai giochi, una risorsa lasciata senza voce, ignorati da una generazione adulta egoista e auto referenziata. Se la solitudine è una scelta (l’altro c’è, se vuoi), l’isolamento è una condanna (l’altro non c’è, anche se vuoi). La cosa più grave è la negazione della loro stessa gioventù, sinonimo di proiezione verso il futuro. Sono cellule staminali soffocate nella capacità di rigenerazione. Risultano invisibili perché gli adulti non vedono le loro ferite, ma mostrano la loro invidia coi tentativi di eterna giovinezza e il loro attaccamento alle poltrone.
«È una crisi culturale – afferma Umberto Galimberti – più che esistenziale (vedi il consumo di alcol o di droga più per anestetizzarsi che per divertirsi), dove l’unico generatore simbolico di tutti i valori è il denaro, da conseguire con ogni mezzo, compreso lo sfruttamento del lavoro giovanile, il quale non ha alcun potere contrattuale, se non quello del prendere o lasciare».
Un criterio di valore
L’uomo va trattato sempre come fine e non come mezzo, diceva Kant, ma lo dice da sempre il vangelo. Chi, però, non è strumento di profitto, che sia straniero o uno qualunque di noi, non ha diritto di cittadinanza. I giovani stanno erodendo la ricchezza dei padri, cosa che non succederà ai loro figli. Siccome lo sguardo dei politici non va oltre la loro biografia, di questa mancanza di futuro nessuno si occupa. Affermare che l’economia deve cessare di essere egemone, anzi, essere subalterna alla persona umana, oggi ha del patetico.
Se il modello offerto dalla società degli adulti è questo impasto di egoismo opportunista e di cinismo morale, se il mondo degli adulti non mostra di credere a quegli ideali che a parole propone, è abbastanza inevitabile che le nuove generazioni finiscano col non avere fiducia in sé stesse e nel mondo che le circonda.
Il rischio per i giovani precari diventa allora mortale, perché il pericolo più insidioso, a questo punto, non è il dominio del più forte del momento (ogni impero, si sa, finisce), ma è l’accettazione di tale criterio da parte di tanti dominati, che pensando in questa maniera e fidandosi di parole vuote, si dimettono dalla dignità umana.
Le parole, infatti, assumono dignità solo quando vanno indirizzate ai «nominati». Nominare una persona significa tirarla fuori dal silenzio che annichilisce e dall’omologazione.
Lavorare bene è prendersi cura degli altri
Occorre arrivare, perciò, al nucleo spirituale delle persone, alla profondità delle loro anime, per far capire che la realizzazione di sé non è solo un fatto esteriore di successo e di riconoscimento, ma è un fatto affettivo di intensità di relazione tra le persone con le quali si sta. Non per costruire un esercito di altruisti (anime belle), ma per avere persone più ricche di sé, più sicure, meno invidiose e con meno ansia di successo: questo recupero dell’interiorità si realizza solo tenendo insieme tutti i fili della propria vita con coerenza e cercando di far bene il proprio lavoro.
Far bene il lavoro? Anche se alla fine ogni risultato è inferiore al sogno e al progetto? Certamente, perché non si lavora per il compenso, che è soltanto utile. Non si lavora per l’ambizione, che è vana. Non si lavora per l’illusione di risolvere i problemi, che è stolta, ma perché il mondo e suoi abitanti meritano la nostra cura, meritano che ci spendiamo per trattenerlo dalla rovina e tenerlo orientato alla salvezza e alla bellezza. Sono tanti quelli che fanno bene il loro lavoro (dallo spazzino all’artigiano, dal medico all’insegnante, dal prete al manager). Lo fanno per questo amore e non per calcolo. Perché è bello lavorare bene.
È un’utopia impossibile? No, e i segnali di speranza ci sono. In particolare il ritorno al desiderio di cambiamento, alla ricerca di nuovi orizzonti, a nuovi traguardi, a nuove mobilitazioni. C’è un desiderio, un ardore che brucia dentro di noi nella costruzione di una rete di connessione con gli altri, di un noi che comprenda l’io, senza escluderlo e senza isolarlo. Chissà allora che nel fuoco del cambiamento non prenda corpo e si formi pure quell’etica della responsabilità come antidoto al cinismo e all’indifferenza diffusa.