Orologi e montagne russe

di Monini Francesco

Una latitanza domestica
Hanno preso Matteo Messina Denaro: il mafioso, il superlatitante, il numero 2 di Cosa Nostra, che dopo la cattura di Salvatore (Totò) Riina era diventato il numero 1. Messina Denaro non è solo un potente boss mafioso, un pericoloso delinquente, è un uomo responsabile di episodi atroci, la strage di Capaci, l’uccisione di un bambino innocente che ha fatto sparire sciogliendolo nell’acido. L’incarnazione della cattiveria allo stato puro. Chi può, quindi, non gioire che sia stato finalmente consegnato alla giustizia? Infatti anche io sono contento, anche io ho gioito quando ha incominciato a circolare la notizia del suo arresto davanti a una clinica privata dove andava a fare chemioterapia per un tumore allo stomaco. Appena dopo però, e nelle successive 48 ore, la reazione del governo (diciamo pure, dello Stato), dei leader di partito e della stampa non mi è piaciuta per nulla. Il trionfalismo mi è sembrato totalmente fuori luogo. Ci sono infatti voluti 30 anni per catturarlo (e sempre 30 ce n’erano voluti per catturare Totò Riina). Entrambi erano nascosti non in Nuova Zelanda o in Tibet, ma a casa loro, nel loro paese o a pochi chilometri di distanza.
Insomma, una latitanza domestica che magistrati, inquirenti e forze dell’ordine non hanno saputo (o voluto?) interrompere prima.
Il momento culminante del tripudio generale per la cattura del boss mafioso, è stata una conferenza stampa (in diretta televisiva) di una schiera di generaloni. Una scena molto buffa, se non risultasse offensiva per i parenti delle vittime, e per tutti noi, che ci aspettavamo che Messina Denaro fosse individuato e catturato in tempi meno biblici.

Una cattura a orologeria?
Se non fossimo in Italia una domanda del genere non si porrebbe. Ma siamo in Italia, e la storia d’Italia è piena di avvisi di garanzia e di sentenze a orologeria. Perfino di bombe e di stragi a orologeria. Così qualcuno ha scritto che, molto stranamente, Matteo Messina Denaro, che era un fantasma imprendibile, è stato preso proprio quando Giorgia Meloni aveva appena iniziato il suo mandato. Purtroppo, non me ne voglia la Giorgia Nazionale, il sospetto di una cattura programmata è tremendo, ma purtroppo lecito. Se così fosse, non saremmo di fronte a un’eccezione, ma a una replica dei vizi italiani di sempre: protezioni, connivenze, forze armate e servizi infiltrati.
Se invece è tutto “regolare”, se è stato un caso, un colpo di fortuna, la chemioterapia a favorire il clamoroso arresto di Messina Denaro, rimane sempre il fatto che trent’anni sono un tempo infinito. Direi vergognoso.
Quindi capisco la soddisfazione generale, compresa quella del presidente del consiglio, ma avrei voluto sentire qualcuno, almeno un generale dichiarare: «Mi scuso con tutti per il ritardo, la prossima volta faremo meglio».

Brasile, un paese sulle montagne russe
Dopo 4 anni di Bolsonaro, il premier più fascista e antifemminista del terzo millennio, in Brasile finalmente arrivano le elezioni e Luiz Inácio Lula da Silva, il vecchio campione della sinistra, anzi l’unico, è in campo: fuori dal carcere, libero dalle accuse, quindi eleggibile. Grande entusiasmo, nei sondaggi Lula appare favoritissimo sull’ex presidente, ma al primo turno non riesce a ottenere la maggioranza assoluta. Devono passare quattro settimane, una quaresima di passione, per arrivare alla sfida decisiva. E Jair Bolsonaro rimonta, fino ad annullare lo svantaggio. Il 30 ottobre, quando si tiene il ballottaggio, tutti i sondaggisti prevedono un testa a testa, una battaglia all’ultimo voto; crescono l’ansia e la preoccupazione.
Alla fine Lula vince, e scoppia la gioia, la festa, la danza: una folla immensa assiste alla cerimonia di insediamento alla presidenza: il vecchio carismatico leader della sinistra torna per la terza volta a guidare il Paese.
Ma ancora non è finita; centinaia di accaniti sostenitori di Bolsonaro (ripetendo pari pari le gesta dei seguaci di Trump) assaltano il Parlamento, la Corte Suprema e la sede della Presidenza della Repubblica. Tornano l’ansia per la democrazia, la paura del colpo di Stato. La tensione si scioglie solo dopo qualche ora, quando la polizia e i reparti dell’esercito, fedeli al nuovo governo, intervengono a sedare i disordini e liberano le sedi istituzionali. Tutti i brasiliani hanno seguito l’evolversi della situazione dall’inizio alla fine, tutto in diretta televisiva: la sorpresa, lo sconcerto, l’ansia, la paura. E finalmente un grande sospiro di sollievo.
Non solo loro, anche io, appassionato amante del continente Brasile, ho seguito in diretta tutti i capitoli della storia, attaccato al cellulare, fino a notte fonda, in videochiamata con gli amici di Rio de Janeiro e Niterói. Dopo il golpe fallito, il presidente Lula sembra essere completamente padrone della situazione. Anche se il pericolo per la stabilità democratica non è scongiurato per sempre. In futuro il popolo brasiliano potrebbe rivivere l’esperienza delle montagne russe.
Viva la stabilità? Certo, non si discute. Però confesso di provare un po’ di nostalgia. A questa Italia ingessata nel governo Meloni, con una destra arrembante e una sinistra allo sbando, forse farebbero bene un po’ di montagne russe.

Rosy Bindi e nessun altro
Domenica 15 gennaio, su Rai 3, c’era Lucia Annunziata – per me la più brava giornalista che potete trovare sul video – con il suo programma Mezz’ora in più. Dopo un benzinaio (ragionevole ma arrabbiato) e dopo Gianfranco Fini (in qualità di commentatore delle varie destre italiane), Lucia si dedica al Pd e alla sua crisi di voti e d’identità. E per farlo sceglie una domanda impegnativa per i suoi ospiti, non un commento o una previsione sulle prossime (abbastanza scontate) primarie di un ex grande partito da tempo in caduta libera, ma un quesito più radicale. La domanda di Lucia suona più o meno così: «Cos’è che non va oggi nel partito, cosa gli manca, quando e perché ha smarrito la diritta via?».
A rispondere, 3 pezzi importanti della storia del partito: Mario Tronti (91 anni), esponente dell’area operaista, da sempre in polemica con l’altro operaista illustre, Alberto Asor Rosa, morto nei giorni precedenti lo scorso Natale; Claudio Petruccioli (81 anni) erede dell’ala migliorista di Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano, giornalista, superdeputato e dirigente del Partito Comunista (e seguenti sigle) dagli anni ’70 in poi; e infine Rosy Bindi (71 anni), ex democristiana con in mente Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e Tina Anselmi, quindi tra i fondatori dell’Ulivo di Romano Prodi e del Partito Democratico, lanciato in pompa magna da Walter Veltroni nel 2007.
Poco mi aspettavo, e niente di nuovo e interessante è arrivato dai primi due ospiti. Sia Tronti, sia Petruccioli, baldanzoso e sempre un po’ arrogante, hanno raccontato qualche pezzo di storia del partito (la loro storia soprattutto) ed evitato di rispondere alla domanda di fondo. Rosy, invece, di cose da dire ne aveva eccome.
E sono cose scomode. Sembra così tranquilla e rilassata, ripresa nel salottino di casa sua con un vaso di fiori alle spalle, ma, appena Lucia Annunziata le cede la parola, torna in campo la leader appassionata e coraggiosa di sempre; e questa volta la sua analisi degli errori e dei tradimenti del Pd è implacabile, quasi crudele. Il suo partito l’ha già messa in pensione, ma è da lei – purtroppo solo da lei, non vedo nessun altro – che dall’interno del partito viene una critica capace di interpretare il sentimento diffuso, il grande sconcerto di milioni di ex elettori.

In fondo, a sinistra
Rosy Bindi parla a ruota libera. Dell’incapacità del Pd di rappresentare il nuovo. Della tiepidezza del partito a dare battaglia sui diritti. Della sua lontananza dai nuovi bisogni e nuovi movimenti, in particolare da quel grande moto di coscienza che si esprime nel movimento per la pace (c’era anche lei il 5 novembre a Roma, confusa in mezzo ad altri 140.000, e subito riconosciuta, accolta, applaudita da tutto il corteo). E ricorda l’impegno quotidiano di migliaia di volontari – tantissimi i cattolici democratici – contro i respingimenti, per l’accoglienza e i diritti di cittadinanza. Di come il partito anche sull’immigrazione abbia traccheggiato, senza il coraggio di scegliere la parte dei deboli. Di come anche la lotta alla povertà e contro l’ineguaglianza sia stata messa in sordina, derubricata dalla lista degli obbiettivi. E il partito? Dice Rosy Bindi: «Quello che impressiona in questa fase “congressuale” è che si discuta di regole e di voto online ma non si ha il coraggio di chiedere ai candidati se questo Pd hanno intenzione di riformarlo o rifondarlo […] E se lo rifondano che partito vogliono fare? Da che parte vogliono stare? In nome dell’unità, che è un valore sacrosanto, si rischia ancora una volta di non fare alcuna scelta».
Quale scelta? La scelta di stare a sinistra, di fare la sinistra. Di raccogliere e interpretare quella diffusa domanda di cambiamento, di giustizia, di sinistra che cresce nel Paese e che invece il Partito Democratico nemmeno riesce a vedere. Con grave danno per tutti, perché, conclude Rosy Bindi, «io so che senza il Pd non si fa la sinistra in Italia». Per ora il Pd, la sua classe dirigente, non sembra avere nessuna intenzione di cambiare. Oppure la cosa è ancora più deprimente: interpreta e riduce il cambiamento alla scelta di un ennesimo segretario. Che sarà, con ogni probabilità, Stefano Bonaccini, o in alternativa Elly Schlein, oggi contendenti ma fino allo scorso ottobre presidente e vicepresidente di un’Emilia Romagna governata in unità d’intenti e perfetto accordo. Ma allora a cosa servono le primarie, per scegliere cosa? Così Rosy Bindi, la piccola donna che non rinuncia alle sue idee e non fa sconti a nessuno, ha dichiarato che questa volta diserterà le primarie. Nemmeno io ci andrò, non mi sono mai piaciute le primarie, così veltroniane e americane. Non ci sono mai andato. Tranne una volta, una quindicina di anni fa, per dare il mio inutile voto a Rosy Bindi.


fracnesco monini

Francesco Monini

direttore responsabile di madrugada