Una divina pazienza

di Realdi Giovanni

Casa vacanza Dadi Home a Padova

La chiesa di Santa Sofia porta i segni del tempo.
Secondo alcuni storici, il primo documento che cita questo luogo di culto, dedicato alla Divina Sapienza, data il 1123: il vescovo Sinibaldo sollecita il completamento dei lavori di un cantiere aperto molti anni prima. La facciata, leggermente panciuta verso l’esterno e trattenuta da possenti tiranti, appare seduta su sé stessa, quasi una metafora della pazienza: una vecchia signora elegante capace di leggere il libro del mondo, perché ne ha viste tante.
Solo pochi decenni fa le parrocchie del centro cittadino vantavano ancora una vita pastorale indipendente, gruppi cospicui, iniziative di un cattolicesimo di massa che non sembrava poter declinare. Ma già al tempo, con una certa probabilità, laici e preti accorti iniziavano a domandarsi quale sarebbe stato il destino delle strutture parrocchiali: spazi vari, spesso ampi – sale, campi da basket, cinema, oratori – che richiedono manutenzione e vitalità per non degenerare.
Già al tempo, probabilmente, qualcuno si chiedeva cosa ne sarebbe stato della casa del sagrestano, figura ormai mitica per i praticanti odierni, che occupava il primo piano di una palazzina di fianco alla chiesa. Al numero 100. Al di là delle riflessioni, tuttavia, gli impegni quotidiani hanno sempre la meglio: l’appartamento rimane chiuso per 25 anni, i segni della rovina si fanno evidenti, qualche calcinaccio cade. Accanto alla preoccupazione per il pericolo, c’è la pena per un bene inutilizzato.
E qui entra in gioco la pazienza.
È la pazienza di chi conosce quanto sia complesso accompagnare ragazze e ragazzi all’autonomia, di chi crede che una qualche forma di indipendenza non solo sia possibile, ma diventi il modo per riempire di significato un’esistenza.

Sogni e bisogni
L’intuizione iniziale è trasformare l’appartamento del sagrestano in una casa per chi possa provare a uscire dalla famiglia. A muovere le cose è l’attenzione per i bisogni di chi ci sta vicino. Questa cura spinge a cercare soluzioni, è creativa. Dona te stesso, dice Paul Eluard, le tue mani si aprono come occhi. Se la prima idea non trova subito spazio, ne nasce una seconda: siamo a poche centinaia di metri dal policlinico, perché non aprire un luogo per i famigliari dei degenti? Ma chi gestirebbe la casa? Come sono andate le esperienze simili? Ma poi, in primo luogo: in che modo finanziare il restauro? L’analisi dei bisogni è un luogo di domande, anche di smarrimento. E qui, nel pieno dei dubbi, è necessario introdurre un’altra figura, essenziale, perché capace di porre domande e di cercare risposte. E di cercarle insieme.
Si tratta di don Giorgio, parroco di Santa Sofia.
Non nascondiamocelo: la struttura, anche giuridica, delle nostre comunità parrocchiali è gerarchica, come la Chiesa cattolica tutta. Questo può far storcere il naso agli ultras della democrazia, e tuttavia è possibile leggere una certa sapienza nel realismo di chi sa che anche la libera discussione richiede un moderatore, e che se ciascuno ha il diritto di prender la parola, chi poi agisce deve sapersi assumere ogni responsabilità. In altri termini, come diceva Turoldo in una riflessione su Lorenzo Milani, nella forma della paternità l’autorità si esercita rinunciando al potere, perché la prima fa crescere, il secondo schiaccia. E il ruolo, radicalmente pastorale, di don Giorgio, si è rivelato paterno nella sapienza di gestire il dialogo in seno ai consigli parrocchiali, nella misurazione delle esigenze e delle aspettative di chi avverte i locali comunitari come parte della propria storia personale. La pazienza e la sapienza del sogno comune portano a un’idea: realizzare un B&B.

La scala segreta in un luogo senza segreti
E nella misura in cui si dice di sì, allora si diventa esplosivi e rivoluzionari – scrive ancora Turoldo. Si comincia. Se il primo passaggio era stato quello di mobilitare la comunità come soggetto custode del proprio spazio, il secondo è quello di mobilitarne il capitale sociale, cioè la rete potenziale di relazioni, con altre persone e con le istituzioni – l’amministrazione comunale, la Regione, la Fondazione Cassa di Risparmio. Si trova, non senza fatica, il denaro; iniziano i lavori di ripristino dell’appartamento, grazie a professionisti volontari. E proprio durante i lavori si scopre che una scala, da tempo immemore inutilizzata, conduce a una soffitta, che si rivela più ampia del previsto e con le altezze adeguate. Lo spazio si moltiplica: il progetto parla di cinque camere matrimoniali, sei bagni, ampia sala colazione, cucina e ingresso-reception.
Patrizia Tolot, presidente della Cooperativa Vite Vere, che ci ha accompagnati per raccontarci di questa avventura, è tanto chiara quanto caparbia: ogni passaggio è stato fatto nella massima trasparenza possibile, sul piano finanziario e giuridico.
Viene in mente Ernesto Olivero: fare bene il bene.
Un Bed&Breakfast non può essere realizzato, perché per normativa regionale va condotto dagli inquilini. Non è questo il caso. E allora si immagina una Casa vacanze intesa come luogo di ospitalità a pagamento e nel contempo come scuola di formazione per i ragazzi e le ragazze sulla via dell’autonomia.
Ma i problemi non sono finiti: per dichiararne l’agibilità vanno riviste le misurazioni di tutti i locali parrocchiali adiacenti; per trasformare la destinazione d’uso (“opere parrocchiali”, inadatte alla fatturazione) va atteso l’intervento del Comune, che delibera l’uso a commerciale legandolo strettamente al progetto di empowerment. I parrocchiani vengono coinvolti con le presentazioni in chiesa, nel sostegno economico, nel tamtam per richiamare clientela futura: all’inaugurazione la festa è di tutte e di tutti.

Non è un mistero
Scelti tra gli utenti della cooperativa che suggeriscono una certa proattività sociale, vengono impiegati cinque giovani per volta, con una permanenza massima di tre anni. Due di loro hanno già trovato occupazione fuori. Si occupano di preparare e servire le colazioni (con cornetti veri!) e del riassetto delle camere, un servizio che ormai non viene sempre garantito nemmeno nei migliori alberghi stellati. I clienti arrivano: non solo turisti, ma studiosi e ricercatori impegnati in ospedale e nell’università. E molti stranieri.
Intendiamoci: senza il sostegno del Progetto regionale di formazione e la quota a carico delle famiglie dei ragazzi, Dadi Home – questo il nome della struttura – non si sosterrebbe.
Il valore dell’incontro è la frase che, nel sito e nel cuore di chi ci sta credendo, accompagna la denominazione della casa di via Santa Sofia 100.
Dove sta, questo valore? Come questo progetto, come la ricerca di autonomia di queste persone, l’incontro non rientra nelle esperienze programmabili, di cui si conoscano i dettagli, quelle che consentono di sentirsi protetti. Come questo progetto, ogni incontro è precario, è aperto alla sorpresa di uno sguardo, alle intemperie delle emozioni immediate; l’incontro si affida al principio del “Cantico nuovo” – è ancora Turoldo a parlare: nulla vi è di profano nell’opera dell’uomo.
Ed è per questa innata consapevolezza di quanto sia sacro che nessuno, tra le ospiti e gli ospiti di Dadi Home, si è fatto un cruccio dei ragazzi e delle ragazze con la Sindrome di Down a loro disposizione nella permanenza. Il perché non è un mistero: il servizio è impeccabile.


Per saperne di più: www.dadihome.it

Giovanni Realdi

insegnante di storia e filosofia, liceo scientifico statale “G. Galilei” Selvazzano Dentro (Padova), componente la redazione di madrugada.