La paura del buio
«I have a constant fear that something’s always near».
Iron Maiden
Non siamo animali notturni: mancano alle nostre pupille i fotorecettori, di cui sono dotati gatti e gufi, in grado di riflettere anche i minimi raggi luminosi presenti nella notte. La nostra laringe non emette ultrasuoni, come fanno i pipistrelli, per ecolocalizzare gli ostacoli e le prede.
Studi recenti hanno dimostrato che il buio favorisce negli umani l’attivazione dell’amigdala, un agglomerato di nuclei di sostanza grigia situata nella parte più interna dei lobi cerebrali e appartenente al sistema limbico, il nostro cervello più antico (“rettiliano”). L’amigdala funge da sentinella delle emozioni primarie, comuni a tutti gli animali, gioia, tristezza, rabbia, sorpresa, disgusto, disprezzo e paura. Fra queste, la paura è un’emozione necessaria alla sopravvivenza perché attiva a sua volta la risposta di protezione, la cosiddetta fight of flight response («combatti o fuggi»).
L’attivazione dell’amigdala accende un circuito neuronale complesso che, senza attraversare gli strati della corteccia (e la coscienza), raggiunge la ghiandola surrenale e induce la secrezione di adrenalina. È esperienza comune di tutti la conseguenza dell’ingresso in circolo di questo neurotrasmettitore: il battito cardiaco accelera, il respiro aumenta la sua frequenza, la digestione si blocca mentre il flusso del sangue viene deviato verso i gruppi muscolari principali che si preparano alla reazione di combattimento o fuga. Anche le pupille si dilatano per aumentare la ricezione della luce e consentire quindi un maggior controllo dell’ambiente.
Il buio ci rende più esposti ai pericoli e la risposta fisiologica che esso attiva nel nostro cervello primordiale è un fondamentale strumento di difesa. Fa sì che ci muoviamo con maggiore attenzione per prevenire eventuali ostacoli su cui può incappare un alluce quando camminiamo al buio ma anche che siamo pronti a reagire a un reale pericolo che potrebbe ghermirci nell’oscurità. Non viviamo più nelle foreste ma ogni donna conosce l’istintivo stato di allerta che scatta quando cammina da sola di notte per una strada deserta. Il buio può anche suscitare paure profonde e ancestrali, come quando ci svegliamo di soprassalto da un incubo e, prima di riconquistare uno stato di piena coscienza, tendiamo l’orecchio ai suoni amplificati nel silenzio della nostra stanza.
Quando vedo un posto buio mi sento a disagio, mi
immagino che ci sia una persona o qualcosa che mi
guarda e sento il bisogno di andarmene via.(bambino della maestra Renata)
Questo bambino racconta quindi un’emozione che è parte integrante della nostra fisiologia e che è esperienza comune di tutti, bambini e adulti. Affinché non si trasformi in fobia va prima di tutto accolta e riconosciuta come emozione naturale e necessaria. Non è un caso che nell’immenso repertorio di fiabe che costituisce patrimonio comune della cultura folclorica del nostro mondo, la paura, e in special modo la paura del buio, è spesso il tema centrale di tanti racconti. I bambini, come gli adulti in fondo, amano ascoltare racconti di paura e si identificano nei protagonisti che la affrontano e che grazie al loro coraggio crescono e vengono iniziati alla vita adulta. C’era una volta, però, anche un tale che «se ne andò per il mondo per imparare a rabbrividire». Italo Calvino lo chiama Giovannino. «Giovannin senza paura» è un grullo, indifferente ai mostri che cadono a pezzi giù dal camino del castello incantato, che però alla fine morirà di spavento per aver visto la propria ombra. Nessuno è immune, dicevamo, e di questo Calvino (e i fratelli Grimm sottostanti) rassicura i bambini che da secoli rabbrividiscono e si divertono ascoltando questa fiaba.
Ho paura del giorno perché vedo tutto, a me piace la notte.
(bambino della maestra Renata)
Mi piacerebbe conoscere questo bambino. Parlerei con lui della sua fascinazione per la notte. Ha capito forse che il buio ci permette di cogliere ciò che la luce del giorno oscura? Per esempio, le stelle. Le stelle ci sono anche di giorno ma la luce, naturale o artificiale, impone ai nostri occhi la percezione nitida del mondo nei suoi colori e nelle sue forme. Forse c’è qualcosa di queste forme e colori che a quel bambino non piace vedere. Non possiamo saperlo, ma possiamo comprendere. Non tutto ciò che è riflette i raggi di una luce prepotente è gradevole alla vista. Al buio, i “coni”, i fotorecettori diurni, si mettono a riposo e si attivano i “bastoncelli” per permettere alla nostra vista di adattarsi progressivamente a un mondo altro che perde le sue forme abituali e dove i colori sfumano nei toni di grigio intermedi tra il bianco e il nero.
Noi, umani diurni e irredenti, abbiamo bisogno della notte. I nostri occhi anelano al buio, alla quiete e al sonno della notte che già Alcmane dipingeva con l’incanto dei suoi versi:
Dormono le cime dei monti e le gole,
i picchi e i dirupi,
le selve e gli animali, quanti ne nutre la nera terra,
le fiere montane e la famiglia delle api,
i pesci nel profondo del mare purpureo;
dormono le stirpi degli uccelli dalle lunghe ali.
[Alcmane, VII secolo A.C.]
La notte è per “con-siderare”, per “stare con le stelle”, e aprirci ad altri stati di coscienza, al sogno, al mistero e al divino. Anche la tappa infernale del viaggio di Dante si conclude attraversando un “pertugio tondo” dal quale si intravede il firmamento. E, finalmente, uscendo alla volta stellata, inizia l’ascesa che lo porterà a completare il suo percorso di purificazione e di ascesi.
Dio disse: «Sia la luce». E la luce fu.
Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce
dalle tenebre.
(Genesi, 3-4)
La dialettica luce-tenebre si situa all’origine del mondo in ogni cosmogonia. In Genesi, la luce è il primo elemento che appare e trionfa sulle tenebre che altro non sono che assenza di luce, l’abisso del nulla. Da questa frattura del caos primigenio irrompe la scansione del tempo con l’alternanza del giorno e della notte e delle stagioni. La luce, fonte di vita e fecondità, percorre tutti i testi biblici assumendo progressivamente connotazioni etico-sapienziali e divine, fino alla profezia:
Non vi sarà più notte/ e non avranno più bisogno
di luce di lampada,/ né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà (…).
(Apocalisse, 22-5)
La dialettica tra luce e tenebre trova tuttavia una sintesi mirabile nel mistero pasquale il cui annuncio sorge dal buio della “notte luminosa più del giorno”. E il più grande mistico spagnolo lo intuisce poeticamente lasciandosi guidare dalla notte “amabile” e “gioiosa”, che così ci invita:
Se un uomo vuole essere sicuro del proprio cammino, chiuda gli occhi e cammini nell’oscurità.
(San Giovanni della Croce, Notte oscura, 1577-79)
Chiara Zannini
presidente cooperativa sociale Riabilitare, Ferrara, componente la redazione di madrugada