La mistica radicale di Simone Weil
Simone Weil (1909- 1943) è stata una grande e originale pensatrice. Innanzitutto filosofa, perviene alla mistica tardi e inaspettatamente alla fine del 1938, a cinque anni dalla sua prematura morte, in un incontro reale con il Cristo, mentre recitava la poesia Love di George Herbert (1593-1633).
Simone riferisce l’episodio in una lettera del 1942 a Padre Perrin in questi termini: «È durante una di queste recite che Cristo stesso è sceso e mi ha presa. Nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio non avevo previsto questa possibilità, di un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, tra un essere umano e Dio.
Avevo vagamente sentito parlare di cose simili, ma non ci avevo mai creduto».
Vale la pena riportare per intero la poesia Amore, galeotta del suo incontro con Cristo:
L’Amore mi accolse;
ma l’anima mia indietreggiò,
colpevole di polvere e peccato.
Ma chiaroveggente l’Amore,
vedendomi esitare fin dal mio primo passo,
mi si accostò, con dolcezza domandandomi
se qualcosa mi mancava.
«Un invitato» risposi «degno di essere qui».
L’Amore disse: «Tu sarai quello».
Io, il malvagio, l’ingrato?
Ah! mio diletto, non posso guardarti.
L’Amore mi prese per mano, sorridendo rispose:
«Chi fece questi occhi, se non io?».
«È vero, Signore, ma li ho insozzati;
che vada la mia vergogna dove merita».
«E non sai tu» disse l’Amore «chi ne prese il
biasimo su di sé?».
«Mio diletto, allora servirò».
«Bisogna tu sieda», disse l’Amore, «che tu gusti il
mio cibo».
Così mi sedetti e mangiai.
L’esperienza di lavoro in fabbrica
Nata nel 1909 a Parigi da famiglia ebrea, con il padre medico su posizioni agnostiche, benché osservante, e la madre russa, musicista e non osservante, Simone riceve un’educazione rigorosa, ma fondamentalmente atea, più incline alla libera ricerca critica della verità, che ai fondamenti dogmatici della conoscenza. Professoressa di filosofia, coltissima, tutta la sua vita è stata contraddistinta da un sapere non solo teorico, ma fondato sull’esperienza, anticipando il tema caro al pensiero femminista che «il personale è politico». Così come è stata politica la sua scelta personale di lavorare in fabbrica nel 1934 e nel 1935, come operaia alle presse, prima alla Alsthom, poi alla Renault: scelta maturata dopo l’allontanamento dal marxismo e dall’URSS nella sua versione staliniana, di cui constata i devastanti esiti politici. L’esperienza in fabbrica la vede quasi completamente inadeguata al lavoro e ai ritmi richiesti, essendo di salute estremamente cagionevole e lontana anni luce dalla concreta condizione operaia, contesto esorbitante rispetto al suo background di professoressa di filosofia di famiglia benestante. In fabbrica sperimenta la fame, la fatica, i rimproveri, l’oppressione del lavoro a catena. E in fabbrica rivede completamente i fondamenti della propria visione esistenziale: «Quell’esperienza doveva cambiare in me non tanto questa o quella idea, ma infinitamente di più, tutta la mia prospettiva delle cose, il senso stesso che ho della vita. Conoscerò ancora la gioia, ma una certa leggerezza del cuore mi riuscirà, credo, per sempre impossibile». Attenta alla storia e ai fatti a lei contemporanei, definiti “miserabili”, in quanto adoratori della forza, della tecnica servile e utilitaristica, del denaro come strumento di potere, del consenso sociale a cui si aderisce per conformismo e opportunismo, è pervasa quasi fisicamente dall’orrore, purtroppo profetico, della catastrofe imminente rappresentata dall’avvento del nazismo. Profonda conoscitrice del mondo greco, ha in comune con il pensiero di Nietzsche la consapevolezza del vuoto identitario a cui è destinata l’Europa, del crollo del mito del progresso e di una visione della storia lineare e progressiva. A differenza di Nietzsche indaga fino in fondo, fino alla propria carne, gli esiti di un essere umano che diventa una “cosa”, annientato dalla violenza e dalla sopraffazione. Lo sventurato è l’essere umano spezzato dalla forza, assoggettato dalla necessità, fino a perdere la propria identità in una condizione di alienazione totale. Le riflessioni di Simone Weil sulla sventura partono dalla sua esperienza in fabbrica, ma si concentrano anche sul tema della guerra e del totalitarismo.
Il periodo nazista
A partire dall’ascesa di Hitler nel 1933 si intrecciano riflessioni filosofiche e impegno politico nell’ospitare molti compagni per sottrarli alle persecuzioni, fino alla partecipazione attiva nel 1936 alla guerra civile spagnola nella milizia internazionale dell’anarchico Durruti. Il contrappeso all’ingiustizia e all’ implacabilità della necessità risiede senza dubbio per la Weil nella pietà e nell’amore, ma non nel perdono, da lei considerata una categoria ambigua e presuntuosa, appannaggio del cristianesimo, ma sconosciuta al più saggio mondo greco. Tra il 1936 e il 1939 scrive e pubblica L’Iliade o il poema della forza, una riattualizzazione del conflitto tra greci e troiani, improntata all’analisi della forza come ciò che porta alla rovina chi la esercita e che riduce a pietra, a semplice “cosa” chi la subisce. Chi ha subito la violenza della forza fino alla sventura non ha scampo: «Questa cosa aspira a ogni istante a essere un uomo o una donna, ma non vi riesce affatto. È una morte che si estende lungo una vita; una vita che la morte ha raggelato molto prima di averla soppressa». La forza si esprime con violenza quando diventa preda del demone dell’eccesso e della dismisura, laddove viene a mancare il pensiero stesso, quel breve intervallo tra l’impulso e l’azione: «Gli uomini che non impongono ai loro atti quel tempo di sospensione da cui solamente procede il rispetto verso i nostri simili, concludono che il destino ha dato loro ogni forma di licenza e ai loro inferiori nessuno». Per questo Simone Weil asserisce che «l’attenzione è una forma di preghiera», la porta stretta in cui si può infiltrare la possibilità di umanizzare la forza, di negarla, di disobbedirle. Un attimo di coscienza totale a sé stessi, ai propri impulsi distruttivi, alla propria miseria umana, può essere la feritoia in cui si insinua miracolosamente la grazia, esattamente come è successo a lei, visitata dal divino in una delle tante serate di studio, di faticosa attenzione, di continua ricerca, sebbene torturata dai continui e terribili mal di testa.
L’etica di Simone Weil e il suo amore per gli sventurati
L’etica di Simone Weil consiste nel vivere senza credenze e senza speranza, in una lucida accettazione della necessità che sovrasta l’essere umano. Cristo è per lei l’esempio vivente di chi accetta il peso schiacciante del destino, rompendo tuttavia il dominio della forza, rifiutandone il gioco e, di conseguenza, il giogo. Ma per Simone Weil l’incontro con la grazia del Cristo, attraverso la fessura della consapevolezza, apre una voragine di dolore, e non di pacificazione. Il suo amore per gli sventurati, dopo lo scoppio della guerra e la presa di Parigi nel 1940, diventa un’ossessione, per cui lei sente di non fare mai abbastanza, rifiutando qualsiasi forma di protezione e di autotutela e rendendo il suo corpo, sempre più malato sebbene appena trentenne, un vero e proprio campo di battaglia. Dopo essersi spostata a Marsiglia, non paga del fallimento totale dal punto di vista fisico della sua esperienza in fabbrica, decide di condividere le fatiche del proletariato agricolo, lavorando nella valle del Rodano per diverse settimane, su raccomandazione del suo amico sacerdote padre Perrin. Con quest’ultimo intrattiene una fitta corrispondenza e frequenti dialoghi che saranno raccolti nel volume L’attesa di Dio. Obbedire al tempo, pubblicati post mortem nel 1949 a cura dello stesso Perrin. Alcuni episodi riportati dal Perrin sottolineano come la volontà caparbia di condividere la condizione degli ultimi la facesse apparire una folle agli occhi del giudice quando, durante la Resistenza francese, fu arrestata con l’accusa di gollismo. Alla minaccia di venir gettata in carcere insieme alle prostitute, proprio lei che era una professoressa di filosofia, rispose serenamente che aveva sempre desiderato conoscere quell’ambiente e l’unico modo era andare in prigione. A quella risposta il giudice ritenne di rilasciarla come una innocua folle, proprio come avveniva ai tempi dell’Inquisizione spagnola nei confronti delle donne mistiche, considerate affette da flaqueza de cabeza. Il giudice non sospettava, ma padre Perrin sapeva bene, la profondità e la radicalità delle riflessioni filosofiche che ispiravano il suo comportamento. Simone Weil oppone drasticamente alla sua possibile entrata nella Chiesa non solo la sua vicinanza ai non credenti, innocenti, se non addirittura meritevoli, nel portare il fardello di una vita senza la luce della fede, ma da qualsiasi essere umano a cui contrapporre un’identità collettiva (Chiese, partiti politici, Stati), contrapposizione che è alla base di qualsiasi conflitto e di ogni guerra: «Ora, io non voglio essere adottata da un ambiente, abitare in un ambiente in cui si dica “noi”, sentirmi in casa mia in un ambiente umano, qualunque esso sia. […] Ma, ai miei occhi il cristianesimo è cattolico (cioè universale, n.d.a.) di diritto e non di fatto. Tante cose ne sono fuori, tante cose che io amo e non voglio abbandonare, tante cose che Dio ama, ché altrimenti sarebbero prive di esistenza: tutta l’immensa distesa dei secoli passati, eccetto gli ultimi venti, tutti i paesi abitati da razze di colore; tutta la vita profana nei paesi di razza bianca; nella storia di questi ultimi tutte le tradizioni accusate di eresia, come la tradizione manichea e albigese; tutto ciò che è nato dal Rinascimento, troppo spesso degradato, ma non del tutto privo di valore». Il giudizio della Weil sulla Chiesa cattolica va oltre il rimprovero di averne escluso una parte di storia, di avere fondato la propria dottrina a colpi di condanne per eresia, di non comprendere la cultura cosiddetta profana. In una lettera a padre Perrin (ma anche nei suoi appunti raccolti nei Quaderni) viene esplicitata la convinzione che la Chiesa, come istituzione sociale, rappresenti un surrogato del divino e appartenga al Principe di questo mondo: «Ne consegue che il sociale è irrimediabilmente dominato dal demonio. La carne fa dire io, il diavolo fa dire noi; oppure, come i dittatori, io con significato collettivo. E, in conformità della propria missione, il demonio fabbrica una falsa imitazione, un surrogato del divino. […] So benissimo che è inevitabile che la Chiesa abbia un aspetto sociale, senza il quale non esisterebbe. Ma, in quanto fenomeno sociale, essa appartiene al Principe di questo mondo».
Dal periodo newyorchese alla sua morte
Con il cuore pesante per questa definitiva conclusione e ancor più per la tragica situazione politica in cui versano la Francia e l’Europa, Simone Weil, dopo aver affidato i suoi quaderni al filosofo contadino Gustave Thibon, che la aveva ospitata nella sua fattoria per circa due mesi, il 14 maggio 1941 è costretta a partire per gli Stati Uniti con la sua famiglia, che non accetta di allontanarsi dalla Francia senza di lei. Nella tappa a Casablanca termina Intuitions pré-chrétiennes, in cui, attraverso l’analisi di testi greci (specie i Tragici e Platone), cerca la conferma della sua tesi che la cristianità esistesse prima del Cristo della Chiesa. L’arrivo a New York, pur assolutamente necessario per la persecuzione di cui sono vittime le famiglie ebree come la sua, viene vissuto come un tradimento alla situazione in cui versa l’Europa a causa del nazismo e cerca immediatamente un visto per l’Inghilterra. A Londra entra nell’organizzazione France libre dei resistenti in esilio. Tuttavia, la aspetta una terribile delusione che segna la fine catastrofica di una vita che Simone Weil non ha potuto e non ha voluto salvaguardare dalla morte sopravvenuta a soli trentatré anni. La sua proposta, indirizzata a Charles de Gaulle, di inviare un gruppo di infermiere, lei compresa, sulla prima linea del fronte, viene considerata dal generale una pazzia, prontamente cestinata. Il progetto, se di follia si deve parlare, aveva in sé la follia dell’amore da contrapporre alla violenza brutale di Hitler: «Il conforto morale che offrirebbero a tutti quelli di cui potrebbero occuparsi sarebbe anch’esso inestimabile. Consolerebbero gli agonizzanti raccogliendo le ultime parole dei morenti per le loro famiglie: diminuirebbero con la loro presenza e le loro parole le sofferenze del tempo di attesa, a volte così lungo e doloroso, tra il momento del ferimento e l’arrivo dei barellieri. Si trattasse anche solo di questo, sarebbe già una ragione sufficiente per costituire questa formazione di donne». La consapevolezza di non poter partecipare come attivista partigiana alla guerra le sottrae definitivamente la volontà di salvaguardare la sua sempre più precaria salute: quando viene a sapere delle dimostrazioni francesi represse sanguinosamente, non mangia per due giorni, comincia a praticare una ferrea dieta alimentare al di sotto del minimo, per avere la stessa quantità di cibo di chi lo aveva razionato a causa della guerra, fino a giungere a non tollerare quasi completamente cibi solidi. In uno stato di prostrazione fisica e psichica crescente, dopo essere stata trovata svenuta nella sua stanza, viene ricoverata all’ospedale, dove muore il 24 agosto 1943. Al suo funerale partecipano solo sette persone, mancando anche il sacerdote che, chiamato, arriva in ritardo. Come tutti i grandi personaggi che disturbano da vivi, e sono totalmente rivalutati solo da morti, Simone Weil nel giro di pochi anni è diventata filosofa rinomata, unica donna presente insieme ad Hannah Arendt nei manuali di filosofia, riconosciuta universalmente per il suo genio e la sua coerenza. Due esempi per tutti: Albert Camus si autodefinisce un amico-innamorato postumo e tiene una sua foto sulla scrivania, facendo pubblicare gli scritti della Weil presso l’editore Gallimard. Papa Paolo VI, riconoscendo il peso del pensiero di Simone Weil nella sua formazione, si rammarica pubblicamente del fatto che non avesse voluto battezzarsi, perché meritevole di essere proclamata santa. Di sicuro non si sarebbe mai proclamata una mistica, viene comunque considerata tale per la sua intima unione amorosa con il dolore del mondo, dal cui peso, volontariamente, alla fine si è lasciata schiacciare.
Eleonora Graziani
nata a Ferrara nel 1957, è laureata in filosofia e pedagogia, fa parte della comunità filosofica femminile Diotima,
i suoi studi si concentrano sull’esperienza mistica femminile, considerata dal punto di vista filosofico.