Se l’America non esporta più la democrazia
Se cade l’ultima bandiera dell’America
Quando Donald Trump ha rivinto, contro le previsioni degli esperti (il mondo è pieno di esperti), le elezioni americane, tutti aspettavano che la sua presidenza avrebbe fatto fare una capriola al mondo intero. Trump non si è fatto attendere. Nei primi 100 giorni si è occupato di casa sua, sfoltendo le fila dei dipendenti statali, espellendo con la forza decine di migliaia di immigrati “abusivi” e annunciando la prossima fine dello ius soli, un principio fondante della democrazia americana. Come recita l’infatti il XIV Emendamento: «Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e sottoposte alla relativa giurisdizione sono cittadine degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono». Non sarà facile, ma con la maggioranza al Senato e alla Camera e molta propaganda («L’America agli americani»), Trump probabilmente riuscirà nel suo intento.
In Italia, e in tutto il mondo, è sempre più difficile pensare all’America come la terra delle libertà e della democrazia, ma lo ius soli, il diritto alla cittadinanza per ogni nato nel Paese, rappresenta forse l’ultimo faro, l’ultima fiaccola di civiltà di un’America ormai avvitata su sé stessa tra protezionismo e nuovo autoritarismo.
America contro resto del mondo
Il messaggio dei super dazi, lanciato con uno spettacolare discorso in mondovisione, ha terremotato le borse e le élite politiche. L’effetto è stato tanto disastroso da costringere Trump a una parziale marcia indietro: 90 giorni di moratoria, ma il futuro resta incerto.
Non siamo più nel 1930 e l’economia e la finanza sono talmente globalizzate che uno stesso manufatto ha spesso componenti che provengono da 100 fornitori e da 10 nazioni diverse. Probabilmente Trump ha lanciato il sasso per poi negoziare condizioni più favorevoli e alleggerire la bilancia commerciale americana. Tutti vogliono negoziare, l’Europa come la Cina, come il Giappone.
Tutti prendono tempo. Tutti aspettano di vedere che succederà nel medio periodo, incuranti dell’avvertimento di Lord Keynes: «Nel lungo periodo saremo tutti morti». In ogni caso, la guerra dei dazi aprirà un nuovo equilibrio mondiale dove i due giganti si batteranno in uno scontro all’ultimo sangue. Intanto, questo è sicuro, ci aspetta una stagione di recessione, di disoccupazione e di inflazione. Chi ne farà le spese non saranno i grandi operatori finanziari ma i cittadini di qua e di là dall’oceano.
Doppio attacco. E l’Europa?
La sfida sferrata da Trump attraverso i dazi si aggiunge a un altro attacco forse ancora più micidiale. La minaccia dell’America di abbandonare l’Europa “senza difese” è ormai nei fatti, migliaia di soldati americani abbandonano le basi Nato. Alla mossa americana ha risposto il piano ReArm Europe presentato da Ursula von der Leyen al parlamento europeo che prevede di tanziare 800 miliardi di euro in spese militari. Dovranno sborsarli i singoli Stati (compresi i risparmi privati) anche sforando i limiti del debito. Gli stessi limiti che fino a ora erano sacri e invalicabili, a tutto scapito della spesa sociale e sanitaria e di tutto il tradizionale welfare europeo sempre più traballante.
Senza l’ombrello americano anche l’Italia dovrebbe aumentare la sua spesa militare dall’1,5% ad almeno al 2,5% del PIL, anche se gli Stati Uniti ci chiedono di arrivare fino al 5%.
Mentre le grandi imprese del settore bellico gongolano (in primis quelle pubbliche: Leonardo e Fincantieri), già ingrassate in borsa per aver foraggiato per tre anni l’inutile e sanguinosa guerra in Ucraina, sembra che nessuno tra i nostri statisti si sia posto la domanda fondamentale: da chi dobbiamo difenderci? chi ci minaccia oggi o avrà interesse a minacciarci domani? .
Russofobia e russofilia
Il nemico ha un nome e cognome, lo sentiamo ripetere tutti i giorni, si chiama Vladimir Putin, l’autocrate che governa e comanda sulla Russia, uno sterminato paese a cavallo tra Europa e Asia.
Amo la Russia, la sua arte, la sua letteratura, la sua musica. Questa Russia fa parte dell’Europa, partecipa delle radici dell’Europa.
In un certo senso sono russofilo, vedo quante cose abbiamo in comune con il popolo russo (molte di più di quelle che ci legano al popolo americano). Poi c’è Vladimir Putin, un personaggio che sembra discendere direttamente da Pietro il Grande e da Stalin. Putin che invade un paese sovrano come l’Ucraina, pensando di annettersi la piccola Russia. Allora mi scopro russofobo.
Ma anche Putin finirà, e allora si potrà riaprire un dialogo tra l’Europa e la Russia, un pezzo del cuore d’Europa oggi separato.
È quello che tentava di fare Angela Merkel, l’ultima vera statista europea, convinta di quanto fosse conveniente anche economicamente portare la Russia in Europa. Del resto, più del 40% dei russi abita nella Russia europea.
Ma al di là dei termini ideologici, russofilia o russofobia, la Russia, oggi ma anche domani, non rappresenta una minaccia militare per l’Europa. Nella sua storia ha risposto all’invasione francese di Napoleone. Poi a quella tedesca di Hitler, contribuendo a liberare metà dell’Europa dal giogo nazista.
Oggi abbiamo imparato che i comunisti non mangiano i bambini.
E il comunismo sovietico è finito nella spazzatura della storia.
Allora, invece di riarmarci, sarebbe questo il tempo di costruire un’Europa di pace.
Sicurezza o libertà?
Ci ha messo più di un anno il governo Meloni a partorire il ddl sicurezza (per esteso “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”). Un decreto monstre, con dentro un po’ di tutto. Il filo conduttore è sempre il solito, quando un governo (mica solo l’ultimo) non riesce a fare prevenzione e allargare i servizi: la repressione, l’inasprimento delle pene, il pugno di ferro. Lo “Stato forte” per nascondere la debolezza, l’incapacità (o la non volontà) a risolvere i problemi: pensiamo alla situazione delle carceri sovraffollate, alle liste d’attesa della sanità pubblica, alla medicina territoriale in disarmo.
Prima di tutti gli altri, sono stati i giovani, gli studenti, a scendere in piazza e a protestare contro il pacchetto di misure che di fatto limita la libertà di espressione e di manifestazione. Costantemente attenzionati e blanditi (il disagio giovanile, la fuga dei cervelli, la minaccia della droga…), se scendono in strada improvvisamente diventano “cattivi soggetti” da reprimere. Sono invece la spia di una protesta che sale dalle fabbriche come dalle carceri. In gioco c’è la progressiva compressione dei diritti fondamentali.
È quello che scrivono in una lettera aperta (il testo integrale su www.periscopionline.it) una quindicina di giornali redatti dentro le carceri italiane, denunciando i limiti imposti alla libertà di espressione e di stampa: «L’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, dando concreta applicazione all’art. 21 della Costituzione, così recita al comma 8: “Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento”. Ma le cose non sono così semplici, e questo diritto delle persone detenute a esprimere le proprie opinioni è tutt’altro che rispettato».
Perché democrazia e libertà non ci sono date una volta per tutte, a volte, senza che ce ne accorgiamo, possono ammalarsi.

Francesco Monini
direttore responsabile di madrugada
e del quotidiano online Periscopio.