Il silenzio come grembo di senso

di Bertin Mario

1.
Un problema di senso

Il silenzio non è soltanto vuoto di comunicazione, assenza di rumore, pausa nel parlare; esso può essere anche qualcosa in cui cogliere una segreta intenzione comunicativa, il luogo in cui prende origine la parola e, quindi, già un “dire” particolarissimo. In questo senso, si può parlare del silenzio come di una condizione indispensabile che rende possibile l’autenticità del linguaggio, il suo potere espressivo, la sua libertà da qualsiasi uso strumentale, ingannevole o alienante. In questo senso, ancora, il problema del silenzio si presenta come un problema non marginale, ma come problema generale “di senso”.
Vittorio Foa, in un libro-conversazione pubblicato dalle Edizioni Lavoro, confessa che gli accade spesso di pensare al silenzio “come modo di esprimersi”, soprattutto quando si deve esprimere il dissenso. Ci sono circostanze in cui nulla è più “eloquente” del silenzio.
Il nostro tempo è dominato da un profluvio di parole e di immagini, che costituiscono un mondo mediatico, virtuale, nel quale è esclusa ogni possibilità di vero dialogo e di autentica comunicazione. La persona viene aggredita e sopraffatta senza sosta da messaggi con i quali non può interloquire o anche semplicemente interagire, che la bombardano dalla televisione, dalla radio, dalle riviste, dai giornali, dai manifesti, ecc. e che ne catturano la libertà. L’uomo si sente sopraffatto da una ragnatela di parole svilite, di parole ridotte a chiacchiere.
Quello a cui il tracimare della parola rimanda è la rottura della relazione tra l’essere e la parola e la perdita della coscienza che alla trascendenza dell’essere non può che corrispondere la trascendenza del linguaggio nel silenzio. Perduto il senso del mistero e del ricorso al mito, si è persa anche la dimensione della ragionevolezza e si sono così smarrite le “ragioni” del silenzio. Nel mondo moderno, scrive C. Magris, non si conosce più l’identità di essere e parola, sulla quale in origine si fonda ogni conoscenza ed anche ogni religione e poesia. La rete di somiglianze e di analogie, che permetteva di afferrare l’essere nella parola, sembra essersi ormai allentata e sciolta.
I media, da prodotti dell’uomo, sembrano costruire essi stessi l’uomo, imponendogli conoscenze, scelte e sentimenti. Capovolgendo l’ordine logico delle cose, essi presentano come realtà la finzione e viceversa. Un fiore è tanto bello “da sembrare finto”, di un personaggio che si incontra per strada si chiede: “È quello della televisione?”. E dai media, rispetto ai quali i più si collocano in un atteggiamento di ricezione passiva, vengono adottate le parole quotidiane, che non sono più il risultato di una decisione cosciente, ma sono ormai ridotte a puro rumore verbale. Allora, esse non sono più rivelative, ma velanti. Non manifestano più le cose, ma le dominano; non servono la verità, ma la sopraffanno.
Non porre un limite alla parola, vuol dire non percepirne il carattere ingannevole che risiede nella sua stessa presunzione di esaurire tutto il reale. Se anche riuscissimo a dare una risposta a tutte le domande possibili, avverte Wittgenstein, “i problemi della vita non sarebbero nemmeno sfiorati”.
Esiste un silenzio che è frutto della impossibilità di dire (è il silenzio dei mistici, di cui qui non ci occuperemo) e un silenzio che è frutto della decisione di abbandonare il mondo delle parole, del rumore per ritornare al luogo dove la parola si forma. Questo silenzio non è meno ricco di quello dei mistici e altrettanto ha a che fare con i motivi profondi del vivere.
È un silenzio che nasce dall’intenzione di sottrarre il linguaggio all’insensatezza e alla vanità, di cui parla Qoelet, e di ricostruire un dialogo con le cose e gli uomini nella loro verità spogliata dei significati di cui la società convenzionalmente li riveste.
L’alternativa è di abbandonarsi alla malinconia (“tristezza colpevole”, la definivano alcuni autori medievali) o addirittura alla resa. Compare qui un ulteriore tipo di silenzio che si aggiunge agli altri. Ed è quello dello sconfitto che, non riuscendo a contrastare la chiacchiera che corrompe e asserve, sceglie di tacere.

2.
Uscire dal gioco

Il sistema comunicativo della società attuale non nasce dalla preoccupazione di servire la verità. Sembra anzi piegare la verità alle regole di un codice ormai distorto, funzionale ad altro. Esso di conseguenza non sembra avere in sé gli strumenti per essere modificato dall’interno. Per intervenire, è necessario uscire dal gioco, creare una distanza. Creare una distanza dalla parola vacua o funzionale vuol dire ritrovare il silenzio e in esso la possibilità di dar vita a una nuova comunicazione, ritrovare il luogo dell’autenticità della parola, una diversa modalità del discorso che consenta di parlare di cose che altrimenti non si saprebbero dire.
Questo particolare silenzio si configura come una forma di volontario esilio dal sistema comunicativo che opprime il nostro mondo e che è caratterizzato, da un lato, dagli egoismi, dagli interessi, dall’utilità e, dall’altro, dalla vacuità e dalla menzogna. È un uscire dalla casa della cultura convenzionale, che tutto omologa, per trovare ospitalità in parole diverse, inedite, perché un diverso e inedito rapporto hanno con l’essere, con parole che sono custodi o che sono capaci di una diversa visione del mondo e delle cose. Parole che restituiscano all’uomo l’ebbrezza originale che gli deriva dal suo potere creativo. Parole quindi che fanno l’uomo libero e artefice di libertà. E le parole creative sono solo quelle della poesia e del divino. Solo Dio e il poeta possiedono il segreto di costruire la realtà per mezzo della parola: dixit et facta sunt.
Questo particolare silenzio porta all’abbandono della propria patria di segni e di simboli e conduce ad essere aperti e disponibili a linguaggi sconosciuti, induce a uscire dalla casa del proprio pensiero e intraprendere la strada dell’esilio, dove l’uomo si avverte come uno straniero.
Questo particolare silenzio è perciò una “fuga mundi”, una fuga dal “mondo” che rende possibile all’uomo l’esercizio del controllo critico della realtà, la facoltà di leggere dentro la realtà silenziosa per estrarne la parola nuova che la esprime e che, esprimendola, la modifica. È questo il ruolo vero dell'”intellettuale” che tutti indistintamente siamo chiamati ad esercitare.
La parabola che bene descrive questa condizione è quella che racconta dell’esodo degli ebrei nel deserto, del loro viaggio nel vuoto e nel silenzio, dove verrà loro consegnata la parola che li costituirà come un popolo nuovo.

3.
Il silenzio come atteggiamento
generale della persona

Dunque, il silenzio che ci viene chiesto per recuperare la nostra individualità e una autonoma comprensione del reale, è un modo di disporsi, di stare nella vita, è un atteggiamento fondamentale della persona.
In questo senso, silenzio vuol dire ritrovare il proprio spazio interiore, e cioè il luogo in cui ciascuno è diverso dagli altri. Lo spazio interiore è la nostra individualità. Lo “spazio esteriore”, invece, spesso impone omologazione, impone di fare tutti la stessa cosa, anche se individualmente.
L’interiorità, da ritrovare nel silenzio, è consapevolezza, la possibilità di percepirsi in quello che si fa e di giudicare la “giustezza” di ciò che si fa non per rapporto ad una norma positiva, ma rispetto alla natura stessa del reale.
Il silenzio, che non sia la semplice assenza di suoni, appartiene alla sfera dell’interiorità. «Il silenzio è il centro dell’uomo» ha scritto Max Picard. L’interiorità dell’uomo è l’uomo nella coscienza che ha di sé e nella sua capacità più profonda di consenso a sé e agli altri. Nel suo centro silenzioso l’uomo realizza l’unità con se stesso. È qui che egli esperimenta e che ha coscienza del senso di sé e delle cose, della realtà com’è. Il silenzio dunque appartiene alla struttura fondamentale dell’uomo.
Questo silenzio potrebbe essere definito anche come la condizione di uno sguardo sul reale che consenta di assumerlo nella sua verità e complessità, oltre i limiti del logos, oltre i confini della descrizione che ne traccia la ragione attraverso il discorso concettuale.
L’idea di silenzio, in questo senso, unisce l’aspetto negativo di “perdere la propria vita” con quello positivo, che al negativo è imbricato come a sua necessaria condizione, di poterla così ritrovare. Essendo vero anche l’opposto, che chi non decide di “perdere la propria vita”, la perde davvero.
Il silenzio è una notte, è un’assenza che rende possibile la nostra adesione al reale. La parola, invece, definendo il reale, lo delimita e ce ne separa. Il silenzio è rinuncia alla parola che pretende di giudicare e di progettare il mondo, di “articolarlo” a proprio modo. Ma tacere non significa porsi in un atteggiamento di passività. Il tacere dell’esiliato è un tacere vigile di chi guarda oltre, di chi non è mai accasato.
La dinamica silenzio-parola, esodo-critica sociale è ben descritta dal profeta Ezechiele:
«Venne sopra di me la mano del Signore ed egli mi disse “Alzati e va’ nella valle: là ti voglio parlare!”. Mi alzai e andai nella valle (…). Uno spirito entrò in me e mi fece alzare in piedi ed egli mi disse: Va’ e rinchiuditi in casa. (…). Ti farò aderire la lingua al palato e resterai muto (…). Ma quando poi ti parlerò, ti aprirò la bocca e tu riferirai loro: Dice il Signore Dio: chi vuole ascoltare ascolti e chi non vuole non ascolti: perché sono una genia di ribelli» (Ez. 3, 22-27).

4.
La “parola nuova”

Tra le possibili concezioni di silenzio abbiamo scelto di parlare di quella che denota la presa di distanza dal mondo in cui viviamo, l’esilio, il momentaneo ritiro dalla città (anachìōresis), il rifugio nella interiorità, per essere in grado di formulare una parola nuova, un atteggiamento critico nei confronti dell’ordine prodotto dalla “genia di ribelli”.
Prima di chiederci che cosa sia questa parola nuova e quale sia il “luogo” da dove essa proviene ci preme sottolineare ancora una volta che il silenzio non può essere inteso esclusivamente come assenza di comunicazione. Se così fosse, non potrebbe neanche essere concepito. L’espressione di uso comune “fare silenzio” esprime bene la sua natura, nel senso che una cosa che si può “fare” non può essere un non-essere. Il silenzio, dice bene Bruno Lauretano, può essere concepito solo al positivo, come momento del discorso, come «passaggio da gioco a gioco, da modo a modo comunicativo».
Concepire la realtà come spezzettata in tanti segmenti uno isolato dall’altro per mezzo di altrettante cesure, contraddice la relazionalità come dato costitutivo della realtà. Non che la realtà si lasci ridurre ad un unum, come ci ha insegnato R. Panikkar; essa è “radicale relatività”, relazione universale tra gli esseri che non consente isolamenti o autoisolamenti, neppure momentanei, dalla complessa trama delle relazioni. Non può infatti essere sospesa una delle dimensioni costitutive della realtà: il dialogo ininterrotto e continuo, che è la stessa sostanza della vita. La non verità, il distacco o la violenza del reale, consiste nell’uscire dalla relazione, nel rifiutare la comunicazione.
Ritorna quindi l’esigenza di sottolineare che il silenzio non è isolamento, ma è anzi la condizione perché il dialogo ritrovi le sue finalità creatrici, perché divenga, come afferma ancora Panikkar, “dialogo dialogale”, con le radici affondate nella verità dei dialoganti.
Nel continum della comunicazione il silenzio ha una funzione fondamentale perché è il silenzio che stabilisce la “qualità” della parola. Perché la parola è espressione del silenzio e, in qualche misura, una sua continuazione. La parola, dice ancora Panikkar, è «silenzio in parole, il silenzio fatto parola. È il simbolo del silenzio».
La parola intesa come simbolo del silenzio noi la chiamiamo “parola nuova”. Essa è una parola che nasce nel silenzio, che è frutto dello “sguardo” sulla realtà che solo il silenzio rende possibile. In questo senso, è una parola intrisa di silenzio e che non può essere recisa dal fondo di silenzio da cui proviene. Il Figlio, prima che l’uomo ne oda la voce, è il Verbo sepolto nel silenzio di Dio: “La Parola era in Dio” (Giov. 1,1), come «mistero avvolto di silenzio nei secoli eterni» (Rm. 16,25).
La parola nuova è la parola che si carica anche dell’inesprimibile. Si carica della dimensione di silenzio e di ineffabilità che, pur non potendo dire, tuttavia non contraddice. La parola nuova è il risultato simultaneo di un’azione di creazione e di annichilimento. Non esiste il silenzio da un lato e la parola dall’altro. Qualsiasi parola autentica è impregnata di silenzio e qualsiasi silenzio vero è gravido di parole che sbocceranno al momento opportuno.
Nel grembo del silenzio fecondo di parole nuove si può restare solo in una posizione di totale vulnerabilità, senza le certezze ultime che si possono cercare solo nell’ordine della parola. Si deve restare in una posizione di povertà e di ascolto, dal quale affiora ed è reso possibile il vero dialogo.
“Parlare – scrive M.F. Sciacca – è generare dal mio silenzio la parola che entra nel silenzio del tu”. La parola è circondata dal silenzio da cui proviene e a cui viene rivolta, si intesse con esso senza poterne essere esportata. Essa è simbolo del dicibile, ma anche di tutto l’indicibile che la trascende. Silenzio e parola, annodandosi tra loro in modo sempre diverso, rapportando tra loro lo “sguardo” e il “dire”, costruiscono sempre nuovi legami di senso.
«Ma dentro a quel tacere, si addestrò, nuovo, un gesto, un sentimento», dice il primo Sonetto a Orfeo di R.M. Rilke.
Solo, dunque, la parola che esce dal silenzio è parola autentica, parola nuova. C’è del silenzio in ogni parola. La parola è fatta di silenzio, ripete Panikkar. La parola esprime il silenzio, le sue ricchezze segrete, le sue visioni. E il silenzio garantisce anche che la parola da esso generata sia una parola libera.
È la parola che viene dal silenzio, non il silenzio dall’interruzione del parlare. Come il giorno non finisce nella notte, ma da essa nasce. Ad essere per prima è la notte, ci dice la Bibbia: «Così fu sera e poi mattina: primo giorno» (Gen. 1,5).

5.
Il luogo della parola

Perché le nostre parole siano parole vere è necessario uscire dalla casa che abitualmente abitiamo, porci in una condizione di raccoglimento. Il silenzio porta l’uomo verso un centro interiore, verso un sé profondo che, in modo misterioso, dà la possibilità all’io di esprimersi. Quando il sé e l’io combaciano, possiamo dire che l’espressione nella quale l’io si esprime (da ex-premere, premere fuori) è veritiera. In qualche modo l’io si autogenera, diventa madre di se stesso, come dice il poeta francese Charles Juliet. Quando l’io raggiunge le profondità del sé si verifica un “clic”, che rivela al soggetto le radici stesse dell’esistere. La parola che dà corpo a questa germinazione profonda è quella che chiamiamo la “parola nuova”, in quanto esprime una situazione inedita. Il silenzio come esilio dell’io è l’unica via che può condurre a questo fondo in sé inconoscibile e inesprimibile. Credo che sia questo il luogo dell’estasi mistica, che dice anche nella sua etimologia (ex-stare, stare fuori) la condizione d’esilio dell’io, il luogo in cui l’uomo può incontrare in maniera oscura Dio.
Utilizzando una terminologia biblica, poi dilagata soprattutto nella devozione occidentale e tra i poeti, questo centro può essere indicato con la parola “cuore”.
Quando parliamo di cuore, secondo il teologo K. Rahner parliamo di “un centro interiore, dal quale si sviluppa la molteplicità della realtà umana, nel quale questa molteplicità, che pure appartiene all’essere dell’uomo, rimane collegata insieme, dal quale essa sempre fluisce e nel quale rifluisce, che nello stesso tempo si rivela dispiegandosi e si cela riportando tutto nella sua insondabile profondità”.
Il cuore dunque è ciò che coglie il reale, che la parola non riesce a com-prendere interamente. L’atto del cuore è un atto di conoscenza diverso e più ampio dell’atto di conoscenza della mente. L’atto della mente è racchiuso nel concetto, l’atto del cuore si estende a tutto ciò che l’uomo riesce ad attingere nella pienezza della persona. La ragione, dunque, non si contrappone al cuore, ma ne è in qualche modo compresa e superata.
Il cuore è il luogo della parola, considerata nella sua novità e interezza. Luogo misterioso, ma reale, che secondo la Bibbia solo Dio può scandagliare. E il cuore è, allo stesso tempo, il luogo del silenzio.
Nell’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-25), si narra di due discepoli di Gesù che, dopo la sua morte, abbandonano delusi Gerusalemme. Lungo il cammino, mentre discutono dell’accaduto, si affianca loro uno sconosciuto, che “cominciando da Mosé e da tutti i profeti” spiega loro le scritture che riguardavano il Cristo. In seguito il viandante si rivelerà essere lo stesso Gesù. I due discepoli allora si dicono l’un l’altro: «Non ci ardeva forse il cuore… quando ci spiegava le Scritture?». Non dicono: «Non ci si illuminava la mente, quando ci spiegava le Scritture?». È solo il cuore infatti che della “parola” poteva arrivare alla comprensione profonda.
La parola nasce dal cuore “come risonanza della persona”, dice Maria Zambrano nella sua autobiografia. Come eco della persona
Ogni parola è autentica, dice Panikkar, «proprio perché è silenzio (parlato)». E il silenzio si fece Parola – e cominciò a parlare!

Note bibliografiche
1. Maria Ignazia Angelini, Un silenzio pieno di sguardo, “Quaderno di Camaldoli”, Bologna 1996
2. Istituto di Scienze Religiose in Trento, Le forme del silenzio e della parola, a cura di Massimo Baldini e Silvano Zucal, Morcelliana, Brescia 1989 (si vedano in particolare i contributi di Giuseppe Boschin, Alberto di Giovanni, Bruno Lauretano, Raimon Panikkar).
3. Raimon Panikkar, Mito, Fede ed Ermeneutica. Il triplice velo della realtà, Jaca Book, Milano 2000.
4. Max Picard, Il mondo del silenzio, Garzanti, Milano 1951.